23/03/2007

Randy Newman

Il Mark Twain del Pop

C’è un filo che lega le canzoni di Randy Newman all’arte letteraria di Mark Twain. Un filo di atmosfere agrodolci, di malinconie quotidiane, di dissacrante ironia. Newman sceglie come medium la canzone, Twain il romanzo, ma entrambi, oltre a descrivere se stessi con lucido distacco, sono osservatori attenti della loro “Amerika”, il Paese delle grandi ombre e delle contraddizioni che raccontano con humour, cinismo, realismo e struggente poesia. Per capire appieno la sua arte, allora, il binomio parole-musica è basilare. Newman è unanimemente riconosciuto come uno degli autori americani più originali degli ultimi quarant’anni, che non teme confronti per la unicità della scrittura.

Figlio anomalo del ’68, nato a New Orleans ma subito trasferitosi a Los Angeles, ebreo dell’alta borghesia, diplomato in composizione all’Università della California (i suoi zii Alfred e Lionel Newman era apprezzati compositori di colonne sonore) a soli vent’anni era un instancabile e originale compositore ‘sottopagato’ per la Liberty e sopravviveva come arrangiatore alla Warner Bros. I suoi primi hit da autore furono Just One Smile per Gene Pitney, I Don’t Want To Hear It Anymore di Dusty Springfield, ma soprattutto la splendida I’ve Been Wrong Before per Cilla Black e I Think It’s Going To Rain Today che Judy Collins incluse in My Life, una toccante e misteriosa canzone sulla solitudine che il tempo ha reso sempre più affascinante: “Spaventapasseri vestiti all’ultima moda / Con sorrisi congelati che scacciano l’amore / Il genere umano si moltiplica eccessivamente / E io penso che oggi pioverà / Solo, solo / Una lattina ai miei piedi / Penso che la scalcerò lungo la strada / Quello è il modo di trattare un amico”.

Compositore anticonvenzionale, dal timbro vocale assolutamente fuori dall’ordinario (un mix tra Fats Domino e Nina Simone), Newman ha due maestri: Dylan per l’approccio alla folk song (ascoltate quanto Blowin’ In The Wind assomigli a My Country) e Hoagy Carmichael per quello alla ballata. Dopo una estemporanea colonna sonora per la serie televisiva Peyton Place nel 1965, aiutato da Van Dyke Parks, esordì con un disco di cantautorato sperimentale realizzato con una grande orchestra. Un album così sorprendente nella sua originalità fin dal titolo, Randy

Newman Creates Something New Under The Sun, da non essere capito al momento. Risultato: vendite modeste, ma complimenti lusinghieri dalla critica, con un fan d’eccezione come Paul McCartney.

Alla fine del 1969 realizza 12 Songs, il suo primo lavoro ufficiale. Anche se originariamente doveva essere un semplice demo, l’album è di una bellezza travolgente, pop song colte e leggendarie performance pop-blues con le chitarre di Ry Cooder e Clarence White in evidenza. Dodici canzoni perfette da destinare ai posteri tra cui spiccano due quadri sarcastici e impietosi del profondo Sud in Old Kentucky Home e Yellow Man, in cui Newman tratta uno dei temi più ricorrenti della sua storia artistica: il pregiudizio razziale. C’è la ripresa di Mama Told Me Not, che fu un grande hit dei Three Dog Night l’anno prima, giocata su doppi sensi in merito a una involontaria perdita di verginità che veniva così raccontata: “Ho visto così tante cose qui che non avevo mai visto prima / Non so cosa sia, ma non voglio vederne più / Mamma mi ha detto di non venire / Mamma ha detto: ‘Questo non è il modo di spassarsela’.

Mentre Harry Nilsson incideva un ottimo disco con tutte le sue canzoni, la Reprise replicò l’equivoco del demo con il Live, uscito nel 1971. Una specie di disco promozionale che suona come un bootleg. Incisione dalla qualità sonora mediocre, solo voce e piano e 14 brani tra cui alcuni inediti che verranno pubblicati nel successivo Sail Away, capolavoro assoluto di Newman, nonché uno dei più importanti dischi pop di tutti i tempi. Lo scenario cambia radicalmente: produzione elegante, sonorità raffinatissime, un lirismo eccelso che supplisce in maniera superba al canto non proprio ortodosso di Newman. Pagine di poesia e melodie incantevoli a partire dalla title-track, velenosa invettiva ai negrieri del mondo, Simon Smith And The Amazing Dancing Bear, la famigerata You Can Leave Your Hat On che in origine, pur parlando di un uomo impotente, sarà l’inno yuppie che Joe Cocker porterà al successo con il film 9 settimane e 1/2. Quindi il gioiello con cui ama introdurre i suoi concerti (Lonely At The Top) e che è tutto un programma: divertente ma non troppo, tratta dei pericoli del successo e guarda l’effimero mondo dello showbiz con occhi distaccati e ludici: “Ascolta la band, sta suonando proprio per me / Ascolta la gente che sta pagando proprio me / Tutti gli applausi, tutte le coreografie / E tutti i soldi che ho fatto / Oh, essere da solo sulla vetta / Ascoltare tutti voi sciocchi lì fuori / Continuate ad amarmi, non m’importa / Oh, essere da solo sulla vetta.”.

Ormai Newman è autore tra i più corteggiati, i suoi brani vengono incisi da cantanti illustri, da Bonnie Raitt a Ringo Starr, da Ray Charles a Nina Simone e Barbra Streisand. Good Old Boys, pubblicato nel 1974, è un concept album che affonda la lama sulla mentalità ottusa dei redneck sudisti, cioè quella parte di americani tradizionalisti, mascherati da ‘contadini’: “Siamo contadini, contadini del Sud / E non distinguiamo il nostro culo da un buco per terra / Siamo contadini, contadini del Sud / E sottomettiamo i negri”.

Lo scenario è quello della Grande Depressione (Louisiana 1927 e Kingfish), e i temi sono l’uomo, i suoi valori individuali e le ottuse pseudo organizzazioni sociali. Senza metafore, l’artista utilizza la biografia di Huey Long, figura ambigua che fu Governatore della Luisiana tra il 1920 e il 1930 e poi Senatore degli Stati Uniti morto infine assassinato. Every Man Is A King è un rifacimento della canzone con la quale Long si presentava agli elettori nel 1928: “Perché piangere o sognare l’America Terra dei prodi e dei sinceri / Con castelli e vestiti e cibo per tutti / Tutto appartiene a te / Ogni uomo è un re, ogni uomo è un re / Potresti essere un milionario / Ma c’è qualcosa che appartiene agli altri / C’è abbastanza da dividere per tutti / Quando è il radioso giugno e pure in dicembre / Oppure in inverno o in primavera / Ci sarà pace senza fine / Ogni vicino un amico / E ogni uomo sovrano”. Il disco si addentra musicalmente nel gospel, gli arrangiamenti, specie nei fiati, trasformano le canzoni in un musical (a quei tempi stava lavorando parallelamente proprio a un progetto del genere intitolato Johnny’s Cutler Birthday che poi venne accantonato).

Tra i momenti indimenticabili Guilty e la straordinaria, già citata Louisiana 1927 dove Newman raggiunge vette altissime da novello Gershwin. Il testo è crudo e diretto: “Il Presidente Coolidge è venuto giù in ferrovia / Con un piccolo uomo grasso con un bloc notes in mano / Il Presidente dice: ‘Piccolo uomo grasso, è una vergogna quello che ha fatto il fiume / Alla povera terra di questi relitti umani del Sud / Louisiana, Louisiana / Stanno cercando di lavarci via.'”.

Little Criminals è il disco che lo fa conoscere e lo lancia nelle classifiche di vendite mondiali, grazie al singolo Short People: “Le persone basse non hanno motivo di vivere / Hanno piccole mani / Piccoli occhi / Si girano intorno / Raccontando enormi menzogne / Hanno piccoli nasi / E piccoli denti sottili / Indossano scarpe enormi / Sui loro disgustosi piccoli piedi / Non voglio nessuna persona bassa qui intorno”. La canzone sollevò un polverone di critiche, specialmente dai giapponesi, troppo permalosi per cercare di comprendere il vero messaggio del brano. Accompagnato dal giro illustre dei musicisti californiani, Little Criminals è un immacolato modello di sintesi tra parole, musica e arrangiamento. È l’ideale per illustrare a un ascoltatore la differenza tra prodotti di consumo e pop song di classe. Basta ascoltare canzoni come Baltimore, In Germany Before The War e la deliziosa Rider In The Rain, dove si rileggono con ironia e sberleffo certe atmosfere country-rock alla Eagles e il mito dei desperados con tanto di Glenn Frey e Don Henley ai cori: “Con una pistola nella fondina / E un cavallo tra le ginocchia / Me ne vado in Arizona / Perdonatemi, ragazzi, se volete / Sono stato un fuorilegge / Ho rapinato e saccheggiato in tutta la pianura / Ora vado in Arizona / Soltanto un cavaliere nella pioggia”.

Born Again prosegue il discorso musicale del precedente disco, anche se gli arrangiamenti, in alcuni passaggi, risultano troppo barocchi. Da segnalare una dedica pepatissima alla Electric Light Orchestra di Jeff Lynne che curiosamente collaborerà con Newman alcuni anni dopo: “Erano sei ragazzi inglesi raffinati / Che conoscevano tutti a Birmingham / Comprarono un tamburo e una chitarra / Avviarono una rock’n’roll band / Io amo la loro Mr. Blue Skies / Anche se la mia preferita è Turn To Stone / E che dire di Telephone Line? / Io amo questi E.L.O.”. Il tutto in perfetto stile rock sinfonico identico a quello della band inglese.

Dopo la colonna sonora del film Ragtime di Milos Forman, esce Trouble In Paradise ed è un altro tassello da incorniciare nel grande mosaico cantautorale americano. I Love L.A. è spiazzante nella sua satira densa di retorica: “Odio New York City / È fredda e fetida / E tutti sono vestiti come scimmie / Lasciamo Chicago agli Eskimos / Quella città è un po’ troppo dura / Per me e per te, per te ragazza cattiva / Chiudi la serranda, scendi dalla cima / Diventa eccentrica con i Beach Boys, piccola / Non lasciar fermare la musica / La balleremo finché non potremo cavalcarla / Io amo L.A. (Noi l’amiamo)”. I brani scorrono come “carrellate lunghe” di un immaginario film in mezzo a orchestrazioni di infinita levità, canti volutamente afoni, pianismo icastico, cioè tutto il nerbo del suo talento yiddish che parte dal suo Steinway. Manca l’hit da fuorilclasse ? Ecco allora confezionato ad arte The Blues con Paul Simon e James Taylor. Manca la frecciatina micidiale ai colleghi contemporanei? Ecco prontra My Life Is Good dedicata a Bruce Springsteen: “Proprio stamattina / Mia moglie e io / Siamo andati a quell’hotel sulle colline / Esatto / Il Bel-Air Hotel / Dove a un nostro carissimo amico capita di stare / E il nome di questo giovane uomo è Mr. Bruce Springsteen / Sì esatto / Oh, abbiamo parlato di qualche tipo di pezzo di legno o qualcosa di simile / E di quella nuova chitarra che ci piaceva / E vuoi sapere cosa mi ha detto? / Ti dico cosa mi ha detto! / Mi ha detto: Rand, sono stanco / Ti piacerebbe essere The Boss per un po’? / Beh, certo / Rosica, Grande Uomo, rosica.”.

Da lì in avanti, Newman si dedica alle colonne sonore (vedi box in questa pagina). Tra il 1984 e il 1998 ne firma ben 14 tra cui veri masterpiece del genere, quali Three Amigos, Avalon e Toy Story, incassando ben dodici candidature all’Oscar. Ritorna per certi versi alla forma canzone con il musical Faust del 1995. Una parata di stelle come James Taylor, Bonnie Raitt, Don Henley, Ry Cooder, Elton John e Linda Ronstadt per una rivisitazione personalissima del classico di Goethe a metà strada tra Groucho Marx e Cole Porter. Musica sofisticata, parole terse e ironiche: “I secoli volano via. Lucifero, il Diavolo, ora regna nell’Inferno dove, con sorpresa di molti, egli ha dimostrato di essere un ottimo amministratore: rigido per avere certezze, vizioso, a volte sadico, spietato quando necessario ma sempre giusto. La sua non è una vita facile, comunque, ed egli aspira a tornare in Paradiso dove ora c’è il golf, i cavalloni e la musica hawaiana. Egli ha promesso rivincita.” (da Can’t Keep A Good Man Down). In questo instancabile lavoro per il cinema, c’è spazio per un album come Land Of Dreams, nel 1988. Produzione fin troppo lussuosa affidata a Mark Knopfler, James Newton-Howard, Tommy Lipuma e Jeff Lynne. Grande e raffinato pop-rock fatto di ballate intrise di blues, ma anche di incursioni nel jazz, di liriche intense. Tre i brani da ‘cassetta ideale’: Falling In Love e le autobiografiche New Orleans Wins The War e Dixie Flyer dove ricorda la sua infanzia: “Sono nato proprio qui, nel novembre del ’43 / Mio padre era capitano nell’esercito / Combatteva i tedeschi in Sicilia / La mia povera piccola mamma / Non conosceva un’anima a Los Angeles / Così andammo giù alla Union Station e preparammo la nostra fuga / Salimmo sul Dixie Flyer / Verso New Orleans / Attraverso lo Stato del Texas / Fino alla Terra dei Sogni / Lì, sul Dixie Flyer / Verso New Orleans / Tornammo dai suoi amici e dalla sua famiglia / Nella Terra dei Sogni”.

Messo sotto contratto dalla DreamWorks di Spielberg, Newman ritornerà alla canzone nel 1999 con Bad Love, un album prodotto da Mitchell Froom e Tchad Blake che riporta ai suoi primi lavori per sobrietà strumentale. La voce sulfurea graffia ancora magnificamente tra l’inno My Country, la livida ballata d’amore I Miss You e il gioiello Every Time It Rains che per la sua immediatezza fu richiesta da un’icona pop come Michael Jackson: “Ogni volta che piove / Ogni volta che sento le gocce di pioggia cadere / Posso dire che non m’importa affatto / Ma m’importa / Ogni volta che piove / Ogni volta cerco di dire a me stesso / Che farò in tempo a trovare qualcun altro.”.

Ci saranno ancora due colonne sonore con ennesima nomination per arrivare finalmente con Monster Inc. all’agognato Oscar per miglior canzone originale con If I Didn’t Have You.

Se Woody Allen crede che il valore di un’opera d’arte è inversamente proporzionale al successo riscosso, la vicenda professionale di Newman sembra proprio confermare questo pensiero, tanto che al momento di ricevere l’Oscar, rivolgendosi ai membri dell’Accademia, disse: “Non voglio la vostra pietà”. A 60 anni questo è Randy Newman, un artista unico capace ancora di sovvertire la norma .

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