22/03/2007

Richie Havens

Lo spirito di Woodstock

Mi aspetta, seduto a un tavolino, nella penombra del Blue Note.
La sua silhouette, che scorgo in controluce appena giunto al secondo piano del locale, è inconfondibile.

Ci salutiamo calorosamente. Gli ricordo che ci eravamo conosciuti quasi 20 anni fa quando eravamo andati a pranzo insieme, prima della sua partecipazione al programma televisivo D.O.C. di ‘arboriana’ memoria.

Lo trovo benissimo: alto più di un metro e 90, fisico asciutto, forma perfetta, Richie Havens dimostra assai meno dei 64 anni (che compirà nel giro di due settimane, il 24 gennaio). La lunga barba bianca che gli incornicia un viso intenso nel quale spiccano due occhi scuri, vivacissimi, contribuisce ulteriormente a evidenziare il look ascetico del personaggio.

Impossibile non posare lo sguardo sulle sue manone (strumento di lavoro indispensabile per il suo celebre chitarrismo). Le lunghe dita sono ornate di anelloni etnici tra i quali, sul mignolo sinistro, ne spicca uno con l’inconfondibile segno della pace.

Posato, disponibile, colto e educato, Richie Havens rappresenta il sogno di ogni intervistatore. Con lui, scatta all’istante quel magico feeling che porta a conversare di musica per quasi un’ora toccando argomenti vari che hanno spaziato tra un passato irripetibile e uno splendido presente.

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Woodstock e Joni Mitchell

“Non avevo mai cantato Woodstock in tutti questi anni. Eppure, quel brano mi è sempre piaciuto moltissimo, in particolare nella versione di CSNY”, racconta.

“Un giorno, ero in studio per registrare il mio ultimo album Grace From The Sun e stavo provando un nuovo pezzo quando, improvvisamente, mi è venuta in mente la melodia di Joni Mitchell. Mi sono detto: perché no? Di fatto, la mia carriera deve moltissimo all’apparizione al festival di Woodstock e quel brano poteva rappresentare, alla fine, il mio piccolo tributo.

“Tutti coloro che hanno partecipato al festival sono stati travolti dalla dimensione dell’evento. E, stando là, portavano sul palco le loro canzoni che riflettevano le idee di quegli anni. Joni Mitchell, da una stanza di un hotel newyorchese, ha osservato le immagini del festival in televisione e grazie alle sue impareggiabili capacità narrative ha scritto una canzone che ha saputo cogliere lo spirito di Woodstock in modo straordinario. Per anni, Joni si è lamentata del fatto di essere stata esclusa dalla partecipazione al festival (avrebbe dovuto andarci ma sull’elicottero ci potevano stare solo in quattro e così lasciò il posto ai suoi amici CSNY). In realtà, per come la conosco, credo che, in quelle condizioni, lei non avrebbe mai accettato di andarci: Joni è una persona estremamente delicata, non ce la vedevo in mezzo a quel casino.

“La prima volta che l’ho incontrata, è stato nel 1965 a Detroit. Era in un folk club che si chiamava The Chess Mate e lei, con l’allora marito Chuck Mitchell, apriva il mio concerto. Era già bravissima, originale, affascinante: un’artista davvero speciale. Ma non tollerava chi nel locale, anziché ascoltarla con attenzione, chiacchierava o si comportava in modo distratto.

“Abbiamo suonato negli stessi club per due anni di fila, sino a che lei si è trasferita a New York. Nel suo appartamento newyorchese, io, lei e David Crosby abbiamo passato interi pomeriggi a sperimentare sulle accordature aperte e a scrivere nuove canzoni. Joni era la più brava e creativa di tutti noi: la sua musicalità e il suo talento compositivo erano davvero sorprendenti.

“Woodstock, per tutti coloro che lo hanno vissuto, ha travalicato la musica. È stato davvero il momento culminante degli ideali di un’intera generazione e di un gruppo di artisti convinti di poter cambiare il mondo. E che, in buona parte, ce l’hanno davvero fatta. Perché quello che c’era prima era un mondo diverso e certamente non migliore di quello in cui viviamo oggi. E perché le masse giovanili, per la prima volta nella storia dell’uomo, hanno avuto possibilità di libera espressione.

“Lo spirito di quegli anni è ancora con noi e anch’io sono d’accordo con Carlos Santana quando afferma che lo spirito di Woodstock rivive ogni volta che uno di noi sale sul palco.”

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Voci, chitarre e altri suoni

“Tutte le cover che eseguo sono scelte in modo accurato. Si tratta di brani che non solo amo profondamente, ma che hanno anche molto influenzato le mie scelte artistiche. Forse proprio per questo, sono riuscito con rispetto e amore a dar loro una forma e un’interpretazione originali. In particolare quando si tratta di pezzi con un testo poetico e significativo che può anche contenere un messaggio educativo.

“Quando scelgo uno di questi brani, so che a poco a poco diventerà mio. Questo dipende molto dal mio modo di cantare. Voglio dire, dal mio timbro vocale ma anche dallo stile ispiratomi da alcuni dei miei idoli: Nina Simone, Ray Charles, Otis Redding. Ma certamente, il mio modo particolarissimo di suonare la chitarra è un tratto assolutamente inconfondibile che dà immediatamente un tono a qualunque pezzo. Specie se, come spesso mi accade, la chitarra diventa elemento centrale della mia musica. Il più delle volte, non modifico la struttura dei brani né cambio gli accordi del pezzo; sono piuttosto l’uso delle accordature aperte e il mio strumming sincopato a rendere unico l’accompagnamento strumentale e a dare così alla canzone suono e atmosfere originali.

“Credo che i miei stili, chitarristico e vocale, debbano molto alle mie origini: da ragazzo cantavo il doo wop. In genere, ero anche l’arrangiatore dei brani e quindi ho imparato ad armonizzare molto bene. Ero quello che insegnava agli altri membri del coro le diverse parti vocali.

“Quando, per la prima volta, mi sono trovato una chitarra per le mani (nei primi anni 60, ai tempi del Greenwich Village newyorchese) mi è venuto quasi spontaneo accordarla in modo armonico. Non sapevo come si accordasse e quella mi sembrava la maniera più gradevole e logica. Pensa che, i primi tempi, la tenevo appoggiata sulle ginocchia, come un dobro. O meglio, come un dulcimer. Ecco, forse anche il mio modo di utilizzare la mano destra ricorda il modo di suonare il mountain dulcimer. Poi, anche per motivi di amplificazione, ho cominciato a riportare la chitarra in posizione canonica. Ma non ho modificato il mio strumming che è diventato uno dei marchi di fabbrica della mia musicalità. Così come la dimensione delle mie dita, pollice in particolare, mi hanno consentito di sviluppare quello stravagante fingering, cioè la maniera di pigiare sulla tastiera. Diciamo che il tutto si è sviluppato in modo istintivo e naturale. Forse sono un batterista frustrato e per questo il mio stile chitarristico è così percussivo e sincopato. Oggi, penso, il mio chitarrismo combina melodia, armonia e ritmo come si trattasse di una vera band.

“Ho diminuito l’impeto e il furore che, per anni, ho sfogato sullo strumento: distruggevo diverse mute di corde ogni set. Inoltre, sono assai migliorati i sistemi di amplificazione e quindi, oggi, non c’è più bisogno di pestare per farsi sentire.”

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Greenwich Village e songwriting

“Era la Mecca per tutti coloro che cercavano un nuovo modo di fare arte. Musica, poesia, letteratura, tradizioni popolari ma anche pittura o cinematografia: tutte queste forme di espressione artistica venivano accolte dal quartiere bohémien a sud di Manhattan. Ricordo alcuni folksinger come Fred Neil, Dino Valenti o Bob Gibson che scrivevano canzoni bellissime: appena li ho ascoltati ho mollato il doo wop e ho voluto anch’io prendere in mano una chitarra. Il loro modo di comporre, di comunicare attraverso i testi era assolutamente affascinante: volevo essere come loro.

“So che può sembrare riduttivo, ma lo spunto della stragrande maggioranza delle canzoni di mia composizione viene dai titoli. Spesso mi ritrovo a giocare sugli accordi di un brano senza mai venirne a capo. È solo nel momento in cui riesco a vedere un titolo che il pezzo, magicamente, comincia a prendere una forma definita. E il testo, a quel punto, sgorga in modo convincente e definitivo.”

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Bob Dylan e Michael Moore

“All Along The Watchtower è stata scritta da Bob Dylan. Ho un unico, piccolissimo merito che posso vantare al proposito. All’epoca, Albert Grossman (manager di Dylan, nda) era solito farmi ascoltare in anteprima i brani che Bob gli proponeva. Un giorno, mi fece sentire tre canzoni di Dylan chiedendomi di sceglierne una. Per me non fu difficile perché una di queste era davvero fantastica. Si trattava proprio di All Along The Watchtower e con mia sorpresa mi resi conto che Albert mi usava come consulente e che seguiva i miei consigli: All Along The Watchtower venne infatti pubblicata di lì a poco.

“Bob Dylan è stato la voce di una generazione. Il suo modo di scrivere era assolutamente magistrale. Tratteggiava personaggi e caratteri che tutti noi folksinger del Village conoscevamo. Ma nessuno era capace di raccontarli come faceva lui. Questa sua dote mi ha sempre colpito: lui ha saputo trasformare la canzone in un film.

“Mi è sempre piaciuto cantare i pezzi di Dylan. Uno dei miei preferiti era The Times They Are A-Changin’ tanto che, quando un’agenzia di pubblicità ha scelto di usare quel brano per uno spot, Dylan ha detto loro: chiamate Richie, ve lo farà lui.

“Le sue canzoni hanno avuto un effetto magico su di me. Ricordo che ho impiegato otto giorni a imparare Hard Rain, per me un record: in genere sono uno che ascolta anche una sola volta un pezzo alla radio ed è capace di rifarlo al volo. Questo perché ogni verso del testo di Hard Rain è slegato a quello precedente così come a quello successivo. Ogni singola riga è una storia. Ricordo anche che ogni volta che eseguivo quel brano dal vivo mi riusciva difficile proseguire tanta era l’emozione, tante erano le energie nervose che profondevo. E così lo potevo mettere solo alla fine dei miei concerti.

“Non ho ancora letto Chronicles ma sono certo che è scritto benissimo. È quello che ho sempre pensato di Dylan; quest’uomo deve scrivere un libro. E credo che fosse quello che anche lui avesse in mente da anni. Ci sono due cose che Dylan ha sempre sognato di fare: scrivere un libro e suonare rock dal vivo. Sono contento che, negli ultimi anni, sia riuscito a realizzare entrambi i suoi desideri.

“Oggi, però, come ha detto una volta anche Joan Baez, ascolto più Michael Moore che Bob Dylan. Tutti quelli di noi che hanno lottato per gli ideali degli anni 60 non possono che condividere l’opera che Moore svolge attraverso i suoi libri, i suoi show televisivi, i suoi documentari cinematografici.”

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Stardust Memories

“Anch’io, cinque anni fa, ho scritto un libro (They Can’t Hide Us Anymore) in cui racconto le mie memorie dei tempi del Greenwich Village. Ma non solo: ricordo tutti quei personaggi che mi hanno influenzato e che hanno contribuito alla mia crescita artistica. Tra questi, Ray Charles e Nina Simone.

“Nina è stata il mio grande idolo. Fu lei a farmi capire come personalizzare una cover. L’ho conosciuta perché accompagnavo alla chitarra il presentatore di un grande show (con le big band di Herbie Mann e Mongo Santamaria) nel quale la Simone era la superstar. La ammiravo tutte le sere, da dietro le quinte.

“A Washington, ricordo, abbiamo suonato per dieci giorni nello stesso teatro. E, una sera, la sua assistente è venuta da me dicendomi: Richie, Nina vuole incontrarti. Siccome, all’epoca in quell’ambiente, era alquanto abituale fare e ricevere scherzi io pensavo che mi stesse prendendo in giro. Ma lei insisteva: prendi la chitarra e vieni in camerino. E così ho fatto. Nina mi salutò e mi domandò: conosci Cinnamon Girl? E io dissi: sì, conosco proprio la tua versione, l’ho imparata su un tuo disco. E lei: ok, una di queste sere ti chiamo fuori e la suoniamo insieme. Per tre giorni non successe nulla. E allora pensai che quello fosse il vero scherzo. Invece, una sera, mentre stavo dietro le quinte qualcuno è venuto da me dicendomi: presto. Nina ti sta chiamando! Sono corso fuori mentre lei stava canticchiando: Richie where are you? Richie why don’t you come up on stage? Richie won’t you sing with me?

“Quella, nel 1963, è stata l’unica occasione in cui ho avuto la chance di cantare con lei: un’esperienza indimenticabile.”

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Un mito intramontabile

“Un giorno ho ricevuto una lettera da una band inglese che si chiama Groove Armada. A dire il vero, non li avevo mai sentiti prima. Dicevano di essere un ensemble di elettronica ma ascoltando il materiale che mi avevano mandato sentivo che usavano strumenti veri. Volevano che scrivessi qualche pezzo per il loro nuovo disco. Mi aveva colpito il loro messaggio e siccome, da sempre, le collaborazioni artistiche sono una cosa assolutamente salutare per la mia creatività, ho accettato. Così ho mandato loro un paio di brani. Mi hanno scritto e mi hanno detto: perché non vieni in Inghilterra a cantarli con noi? E così ho fatto. Mi è anche capitato di suonare con loro qualche volta, persino al Glastonbury Festival. Le radio, in Gran Bretagna, hanno spesso passato i miei brani con Groove Armada.

“Anche la mia collaborazione con Peter Gabriel (nel concept Ovo) è nuova anche se la mia amicizia con Peter è di lunga data. Risale ai primissimi anni 70 quando Gabriel era ancora con i Genesis.”

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Il palco

“Se penso a me e alla mia musica mi vedo con un pubblico davanti: è la mia dimensione artistica ideale. Lo è sempre stata e lo sarà sino a che riuscirò fisicamente a calcare le assi di un palcoscenico. Ecco perché dico di esser parte dell’ambiente della comunicazione più che di quello della musica. Suonare dal vivo, a contatto con la gente mi dà l’occasione di esprimere la mia creatività. Ma anche di trasmettere ad altri quelle emozioni che le canzoni, e non solo quelle di mia composizione, mi hanno dato nel corso di questi quarant’anni di professione. Ed è uno straordinario scambio di esperienze che ogni volta si rinnova in modo unico e irripetibile e che rappresenta per me una continua forma di ispirazione e una straordinaria risorsa energetica che serve sia alla mia vita artistica, sia a quella personale.”

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