02/09/2010

ROBERT PLANT

UN INGLESE A NASHVILLE

«Non ho intenzione di finire come un gruppo di vecchi annoiati che vanno in giro correndo dietro ai Rolling Stones». Con queste parole Robert Plant nel 2008 escludeva la possibilità di una reunion dei Led Zeppelin. Eppure le richieste erano enormi dopo il successo dell’unico, strepitoso concerto del 10 dicembre 2007 alla O2 Arena di Londra. Noncurante delle laute offerte economiche, Plant ha sempre rifiutato di tornare a esibirsi con i vecchi compagni, preferendo concentrarsi sui propri progetti solisti. Band Of Joy, il suo nuovo e ultimo lavoro, ne è l’ennesima dimostrazione: un’immersione nella folk e roots music americana che conferma ancora una volta il grande amore, il rispetto e la passione che il carismatico vocalist nutre per la storia della musica popolare. Già ne avevamo avuto prova nel 2007 con il bellissimo disco Raising Sand, frutto della sorprendente collaborazione tra il rocker e la regina del bluegrass Alison Krauss. Tre anni e sei Grammy dopo, Plant riprende quel magico cammino e torna a Nashville, capitale della country music americana, per circondarsi di un nuovo gruppo di amici e collaboratori. Non si pensi però alle grandi stelle del country che hanno reso famosa Music City Usa: ciò che ha sempre attirato il cantante inglese è quella cerchia di musicisti e cantautori straordinari che non si riconoscono nelle leggi del mercato discografico che lì regnano supreme, persone che si riuniscono per creare musica basandosi sui valori in cui credono veramente. Se per Raising Sand l’incontro chiave era stato quello tra la già citata cantautrice e violinista Alison Kraus e il produttore T-Bone Burnett, il quale aveva abilmente diretto l’intero progetto, in Band Of Joy il ruolo di guida musicale e spirituale è stato svolto dal chitarrista-produttore di Nasvhille Buddy Miller. Già membro stabile della band di Emmylou Harris, Miller ha lavorato, per citare qualche nome, con Steve Earle, Lucinda Williams, Shawn Colvin, Gillian Welch e Solomon Burke. «Buddy e sua moglie Julie sono autori eccellenti e cantanti incredibili», ha affermato la Harris in diverse occasioni, «lui è uno dei più bravi chitarristi che abbia mai sentito». La collaborazione tra Miller e Plant nasce sul palco del tour di Raising Sand: «Durante la tournée con Alison ho passato un sacco di tempo parlando di musica con Buddy», ha raccontato Plant. «Ho scoperto di non avere nessuna cognizione di cosa sia veramente Nashville: è moltissime cose diverse messe assieme. Il mondo di Buddy è bellissimo, con riflessioni che rimandano al rockabilly della metà degli anni 50 e i grandi successi country, passando per il soul e l’R&B di Memphis. Non si tratta solo di cogliere una musicalità eccellente, ma anche la sua anima più profonda. Buddy è parte integrante di questo disco, si può sentire il suo gusto in ogni traccia. Ha aiutato ad apportare una tinta psichedelica al disco perché sotto la superficie è un grande fan di Roky Erickson e dei 13th Floor Elevators. Band Of Joy è un disco carico, che colpisce. Ci sono molti più elementi rispetto al lavoro con Alison Krauss. Credo si avvicini anche agli Electric Prunes. A volte puoi pensare a un concerto dei Cocteau Twins. Buddy non ha partecipato alle registrazioni di Raising Sand, ma ha suonato con noi durante il tour. È stato in quell’occasione che abbiamo iniziato a suonare assieme e il grande dinamismo della musica, l’amore per essa, ci ha portato in questo nuovo percorso. È molto forte».
Facendosi guidare dal gusto e dal talento del fedele collaboratore, Plant si è circondato di alcuni dei migliori esponenti della scena “alternativa” della città americana. Mentre gli altri Zeppelin lavoravano a nuovi pezzi, il loro carismatico (ex) leader si è tuffato nel passato per potersi evolvere e guardare al futuro: «Per cantare con vera intenzione ho sempre bisogno di nuovi stimoli», ha ammesso durante un incontro con la stampa per la presentazione del nuovo lavoro. «Essere un cantante e ripetere semplicemente quello che si è già fatto sarebbe come raccontare sempre la stessa barzelletta. Non posso farlo. Se incontri delle persone con cui riesci a far funzionare le cose in sole 4 ore, sai che sei sulla strada giusta per creare un’incredibile collezione di canzoni in un nuovo contesto. E questo mi suona familiare, perché è successo dal 1968 al 1970. Anche con i Led Zeppelin non siamo mai tornati su una strada già percorsa». Riguardo ai suoi vecchi compagni di avventure, tuttavia, ultimamente ha dichiarato: «Sono molto orgoglioso di John Paul Jones, perché è in una vera rock band, viva e vegeta (i Them Crooked Vultures, nda). Io e lui comunichiamo di più, ora che è di nuovo un rocker. Restiamo concentrati su quello che facciamo e sul nostro modo di farlo, e chi lo sa? Non posso predire nulla. It’s just good to keep rocking». Da parte loro, Jones e Page sono stati sul punto di partire per una serie di concerti con un cantante sostitutivo. «Abbiamo passato un anno a scrivere nuovi pezzi e a mettere assieme del materiale», ha dichiarato alla rivista Rolling Stone Jason Bonham, figlio del compianto John, che ha preso il suo posto alla batteria per varie reunion tra cui quella del 2007. A causa di disaccordi interni il tour però non è mai partito e Bonham non ha rivelato chi sarebbe potuto essere il designato vocalist, ha solamente smentito che Myles Kennedy degli Alter Bridge sia stato mai stato preso in considerazione, nonostante le voci che lo davano per favorito. Tra i cantanti che pare fossero interessati al progetto, l’articolo di Rolling Stone cita anche il leader degli Aerosmith Steven Tyler e Chris Cornell, che nel prossimo disco di Santana interpreta Whole Lotta Love.

A Nashville cinque affiatati musicisti locali e un cantante inglese si riuniscono al Woodland Studio di Gillian Welch e David Rawlings, e rivisitano diversi brani provenienti dagli ambiti più disparati della storia della musica popolare. È un progetto vivido, colorato, variegato, carico di sfumature. Il risultato è un viaggio attraverso la musica americana tradizionale, la musica bianca e le radici black, sonorità blues, country, rock e rockabilly, riviste in una chiave nuova e personale, creata dall’alchimia delle diverse personalità. I protagonisti, oltre ai già citati Robert Plant e Buddy Miller, sono il polistrumentista Darrell Scott, che si è destreggiato tra chitarre, mandolini, banjo, fisarmonica, pedal e lap steel; la cantautrice Patty Griffin, nominata nel 2007 artista dell’anno dall’Americana Music Association; il bassista Byron House, anch’egli dell’entourage di Emmylou Harris; il batterista e percussionista Marco Giovino (Norah Jones, Patty Griffin).
«Con Buddy abbiamo modificato vecchi pezzi tradizionali, due dei quali del XIX secolo (Cindy, I’ll Marry You One Day e Satan, Your Kingdom Must Come Down, nda). All’inizio della nostra collaborazione abbiamo anche scritto un brano, Central Two-O-Nine», ha raccontato Plant. «Dopo tutte le cose che ho fatto, l’idea di andare avanti con persone nuove e lasciare a loro il controllo della situazione è una prospettiva esaltante. E con Buddy, Patty e Darrell è stato un vero lavoro collettivo. Una delle mie intenzioni in questa produzione era di assicurarmi che suonasse come un unico grande canto, fatto di quattro voci assieme». E la parte cantata forse è uno degli elementi che colpiscono di più durante l’ascolto, oltre ai ricchi arrangiamenti, l’incredibile lavoro chitarristico (preminenti le lap e pedal steel) e il suono d’insieme di tutti gli strumenti. Cavalcate dall’inconfondibile timbro del rocker, le armonie vocali creano una magia coinvolgente e avvolgente, elemento inedito rispetto ai pur bellissimi duetti con Alison Krauss. L’elemento femminile, qui, è una perla preziosa su di un tesoro già ricco. «Quando ho incontrato per la prima volta Emmylou Harris a Dublino, circa dieci anni fa, le ho chiesto cosa stesse accadendo di interessante nella scena americana delle voci femminili», ha raccontato Plant a proposito. «Ha nominato immediatamente Patty Griffin. Buddy ha prodotto il suo disco (Downtown Church) uscito a gennaio, un album bellissimo e ben curato, registrato in una chiesa a Nashville. Una grandissima voce. Sono arrivato al punto in cui volevo fortemente altre voci attorno alla mia, in modo da poter cantare, emettere ululati e lamenti». Ha dichiarato Miller: «Adoro la voce di Patty, mi ha sempre commosso. E sembrava che sentisse questo lavoro, col cuore. Non era solo una cosa che doveva fare, lo voleva veramente».
Fin dalle prime note, è lampante che questo è un lavoro sentito, vissuto con cuore e passione. Dalla trascinante canzone dei Los Lobos, Angel Dance, in apertura, alla commovente House Of Cards di Richard Thompson («È un brano spettacolare, con un gran testo», ha detto Plant, «e Thompson è una persona che ho sempre ammirato molto»), all’unico inedito presente in scaletta, l’incredibile Central Two-O-Nine, che pare sia nata da una jam session in studio. Guidata da un riff chitarristico di impronta country-cajun e dal ritmo trascinante («Ha un passo country blues, con il banjo e la chitarra acustica che si combinano per una vibrazione da vecchia string band», secondo le parole del leader), raggiunge una marcia in più quando il coro si unisce al cantante principale. Ma la vera sorpresa sono i due brani dei Low, l’indie rock band del Minnesota, tratti dal loro bellissimo disco The Great Destroyer (2005): in Silver Rider e Monkey l’espressività e l’emotività raggiungono una profondità che lascia a bocca aperta, dalla sonorità densa al magnetismo delle voci di Griffin e Plant. Alla domanda sulla motivazione di questa scelta particolare, Plant ha risposto: «Mi sono portato dietro le canzoni dei Low in macchina per circa otto o nove anni. Ho ascoltato moltissimo l’album The Great Destroyer. Ho pensato che fosse piuttosto distante dalla direzione che stavo prendendo. Verso il periodo natalizio ho detto a Buddy: vediamo cosa possiamo fare. È stato a quel punto che lui ha suggerito che Patty Griffin potesse unirsi a noi e fare funzionare davvero la cosa, per dare al tutto una tinta vocale in uno stile fra Shangri-Las e Cocteau Twins. Lei era a Nashville, è venuta a provare ed è stata un’unione di voci forte e sensuale. Era proprio quello che volevamo. Perfetto. L’atmosfera è ciò su cui lavorano i Low, è il carburante che li fa andare avanti. Così ho provato a rimanere vicino a questa proprietà e allo stesso tempo avvicinarla allo stile di Band Of Joy, nel suo aspetto più psichedelico».
Se You Can’t Buy My Love di Barbara Lynn riporta al groove beat dei primi anni 60, Falling In Love Again, originariamente dei Kelly Brothers, è rivisitata in chiave country, diventando un’irresistibile ballata con le quattro voci che si uniscono in un magico coro gospel. The Only Sound That Matters è una riproduzione piuttosto fedele del brano dei Milton Mapes, una band di Austin, Texas. Particolarmente sentita è la cover del brano di Townes Van Zandt, Harm’s Swift Way. Citando le parole di Robert Plant, «in un certo senso cambia in continuazione. La musica era molto drammatica e questa, secondo il parere di un aficionado, è probabilmente l’ultima cosa che ha scritto. Non è un brano molto allegro nella sua forma originale. E fondamentalmente non ha un lieto fine nemmeno ora, ma almeno ha una ritmica coinvolgente e suona come se fosse appena uscita da Sweetheart Of The Rodeo (l’album country-rock dei Byrds del 1968, nda)».
Anche il chitarrista Darrell Scott ha confermato essere uno dei brani che sente più vicino: «Mi è piaciuto molto come la canzone si è evoluta e ha preso forma». Come accennavamo sopra, due sono le tappe più traditional: Cindy, I’ll Marry You One Day, qui deliziosamente sommessa e minimale, e Satan, Your Kingdom Must Come Down, dove un ammaliante cantato in stile gospel è accompagnato da un intreccio di banjo e steel guitar; ma a livello sonoro è la traccia di chiusura Even This Shall Pass Away a sorprendere nuovamente, una poesia di fine Ottocento cantata col sensuale timbro bluesy di Plant su un tappeto sonoro dove basso e percussioni giocano psichedelicamente tra loro. Dall’ascolto, sembra che il lavoro di arrangiamento e rimodellamento dei brani abbia richiesto una grande quantità di tempo, ma a quanto pare è successo il contrario: «Raccolgo sempre il materiale che ascolto, lo accumulo e lo tengo per eventuali progetti», ha raccontato Plant. «Abbiamo inciso 24 canzoni in 15 giorni, l’entusiasmo e la rinascita di ogni persona coinvolta è stata una cosa fenomenale. È stato distensivo per tutti noi, un lavoro incredibilmente rinfrescante, di una leggerezza meravigliosa».
Le parole di Scott sono più precise e sintetiche ma sulla stessa linea: «Per ogni brano abbiamo provato circa un quarto d’ora. Poi ci guardavamo tutti negli occhi e capivamo che era il momento di registrare. Tutto il processo è stato molto organico. Alcune canzoni sono state portate da Plant e Miller, altre le abbiamo scelte e ci abbiamo lavorato in studio, altre ancora sono venute fuori per caso». E riguardo alla collaborazione con Plant, un musicista proveniente da un mondo totalmente diverso da quello di Nashville, nonostante il suo profondo amore e interesse per la musica americana, ha affermato: «È molto più appassionato di chiunque altro abbia incontrato, musicalmente parlando. È entusiasta e ottimista riguardo a tutto questo, porta un’energia incredibile al gruppo».
In effetti, la positività e la carica gioiosa sono percepibili in ogni nota del disco, proprio come suggerisce il titolo. E sempre di entusiasmo parla anche Plant quando descrive il progetto Band Of Joy, nome che originariamente era stato dato alla band che il cantante fondò assieme al batterista John Bohnam, e in cui militò prima di conoscere Jimmy Page e scrivere la storia della musica rock. «Quando ero ragazzo, nella prima Band Of Joy, cantavo con il cuore in mano, musicalmente ero estremamente onesto, e funzionava. Così quando mi è capitato di suonare con Buddy Miller nel tour con Alison Krauss, ho iniziato a formulare l’idea di tornare ai tempi in cui mi sentivo emancipato, quando avevo 17, 18 anni. Nell’originale Band Of Joy era come se non ci importasse di nulla. Dovevamo solo fare della buona musica, a discapito di qualsiasi altra cosa. Io e John Bonham guidavamo la band, ma eravamo abilmente supportati dai musicisti che all’epoca sentivano, come noi, che la cosa più importante del mondo era emergere ed esprimersi, piuttosto che seguire Herman’s Hermits o i Tremeloes verso una qualche scena americana adolescenziale. Mi sentivo come se non avessi niente da perdere, cantavo con sincerità, proprio come ora. Queste persone sono fantastiche. Credo che stia imparando moltissimo con loro. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo. È sempre più difficile far capire alle persone in Inghilterra quello che sto cercando di dire e di fare. Forse, è una benedizione. Ma non c’è niente di scoraggiante per me, tutto è sempre una sfida. Anche se ho inciso musica americana agli inizi della mia carriera, quarantun anni dopo ho finalmente capito che era il caso di iniziare a lavorare con dei veri musicisti americani: Band Of Joy mi sembrava un nome appropriato per un incredibile gruppo di persone che non hanno niente da perdere».

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