07/11/2013

Roberto Tarenzi, digressioni jazz

Ha suonato con Dave Liebman e inciso per la Verve. Ha collaborato con Steve Grossman e Stefano Di Battista. Qui ci racconta il nuovo album “Other Digressions”

«Sai, amico, quel sax-alto l’aveva afferrata, quella COSA: una volta che l’ha trovata, non se l’è lasciata scappare; non ne ho mai visto uno che sapesse tenere una nota come lui», dice Dean Moriarty al compare Sal Paradise nel capolavoro di Jack Kerouac On The Road. E quando Sal chiede cosa sia quella COSA, Dean risponde: «Ah, be’… Adesso mi stai chiedendo l’im-pon-de-ra-bi-le… ehm! Qua c’è un tale e là stanno tutti gli altri, giusto? Tocca a lui esprimere quello che essi hanno in mente. Comincia il primo chorus, poi organizza le sue trovate… la gente dice… sì, sì, ma hai voglia, e poi egli affronta il suo destino e gli tocca suonare in modo da esserne degno. Tutto a un tratto a un certo punto nel bel mezzo del chorus conquista quella COSA: tutti guardano su e capiscono; ascoltano; lui la prende su, quella cosa, e la porta avanti. Il tempo si ferma. Egli riempie lo spazio vuoto con la sostanza delle nostre vite, confessioni dello sforzo dal profondo del ventre suo, rimembranze di idee, rimpasti di vecchi motivi. Gli tocca attraversare il punto centrale del ritornello e tornare indietro e farlo con un sentimento talmente intenso di esplorazione d’anime per il motivo del momento che tutti capiscono che non è il motivo che conta ma quella COSA…».

In queste righe è condensata l’essenza della musica. Bebop, rock, blues, rhythm & blues, folk, classica… Non importa il genere, non ci interessano le etichette. Come ha detto qualcuno, esistono solo due tipi di musica: quella buona e quella cattiva. Volete sapere come si fa a distinguere tra le due? Semplice, quella buona possiede «quella COSA». E quella cosa la conquistano solo i musicisti che sanno fiutare il «funk nell’aria».
È il caso del talentoso jazzista Roberto Tarenzi, classe 1977, milanese di nascita, romano d’adozione e cittadino del mondo per natura. Folgorato da Chick Corea all’età di 17 anni, Roberto ha deciso di dedicare la sua vita alla buona musica. Come quella contenuta in Other Digressions – sesto lavoro a suo nome realizzato in collaborazione con Alex Boneham, Roberto Pistolesi, Rosario Giuliani e Marco Valeri – uscito lo scorso 15 ottobre per Abeat Records.
In quest’intervista ci siamo fatti raccontare com’è nato il progetto, ma anche la passione per quella strana musica che un giorno, all’improvviso, gli ha toccato l’anima…

Hai iniziato a suonare il pianoforte a otto anni studiando gli autori classici. E il jazz, come/quando è entrato nella tua vita?

«Ho iniziato con la classica ma ho da subito sentito la necessità di improvvisare. L’ho fatto dalla prima volta in cui ho toccato un pianoforte e ne ho dei ricordi piuttosto vividi. Poi il jazz vero e proprio l’ho scoperto per caso quando mio padre tornò a casa un giorno con un disco di Charlie Mingus. Quella musica strana quasi mi infastidiva e disgustava inizialmente, ma evidentemente mi toccava l’anima perché cominciai a cercarla poco dopo…».

C’è un musicista, un disco o un concerto che ti ha cambiato la vita indicandoti la strada da percorrere?

«Nel ’94 andai a un concerto di Chick Corea al teatro Smeraldo di Milano. Rimasi scioccato dall’intensità e dalla perfezione formale di quella musica e quella sera stessa decisi che avrei fatto il musicista nella vita. Avevo 17 anni».

Other Digressions è il sesto album che esce a tuo nome. Ci racconti com’è nato il progetto?

«Questo disco è nato come un tuffo nel mio passato musicale ma, avendo scritto molta musica di recente, ha finito col racchiudere anche parecchie nuove composizioni originali. Sono profondamente legato alla musica di Other Digressions, e non solo per l’effetto “nostalgia” dei pezzi “vecchi”. Penso che contenga dei brani scritti col cuore».

Parlaci dei musicisti che ti hanno affiancato in studio…

«Roberto Pistolesi è il mio fratello musicale, ha un suono personalissimo, ha un modo unico di interagire con il gruppo ed è estremamente versatile. Alex Boneham è un contrabbassista australiano straordinario, con un suono enorme e una lucidità improvvisativa fuori dal comune. Con Marco Valeri suono nella band di Rosario Giuliani assieme a Dario Deidda; Marco è un super batterista ed enciclopedico conoscitore della tradizione del jazz. Last but not least Rosario Giuliani, un musicista con cui ho la fortuna di suonare da qualche anno e che, oltre alle indiscusse doti strumentali, mi sorprende ogni volta di più per la sua totale dedizione alla musica».

Come hai scritto nelle note di copertina, Tune #1 è un brano che hai scritto a nove anni. È stato allora che hai scoperto la tua vena compositiva?

«Si, come dicevo prima, l’improvvisazione è sempre stata alla base del mio approccio alla musica, e l’improvvisazione fissata su carta diventa composizione. Tune#1 aveva addirittura un testo, come altri pezzi che poi ho scritto in seguito».

Che tipo di compositore sei?

«Direi che non sono uno di quelli che si siedono al pianoforte con l’idea di un pezzo e la sviluppano lentamente fino a ottenere un brano completo. Quando mi viene un’idea di solito ci metto pochissimo a concretizzarla in una composizione/canzone etc… Oppure capita anche che quello spunto iniziale rimanga lì per mesi e venga utilizzato successivamente… non mi piace forzare gli eventi».

Hai dedicato Gross One a un discepolo del grande Oscar Peterson: il pianista Mulgrew Miller, scomparso lo scorso maggio. È stato uno dei tuoi punti di riferimento?

«Ho ascoltato moltissimo Mulgrew negli anni, è un pianista che ha sintetizzato tutta la tradizione del piano jazz in uno stile personale. Il suo modo di suonare è così intelligibile che è facilissimo imparare ascoltandolo nei dischi. È stata un’enorme perdita e Gross One me lo fa venire in mente».

Hai composto il brano in occasione di una session di registrazione con Steve Grossman. Ci racconti com’è andato quell’incontro e cosa ha significato nel tuo percorso musicale?

«Steve è un gigante del jazz. In passato ho collaborato con il suo fratello musicale, Dave Liebman, con cui ho fatto diverse tournée e inciso per la Verve. Entrambi hanno fatto parte della band di Miles Davis e di Elvin Jones e hanno assimilato l’essenza della musica di Miles e Coltrane (del cui storico quartetto Jones è stato il batterista). Suonare con questi personaggi è una grande lezione di jazz e di vita».

Negli anni hai avuto occasione di collaborare con molti musicisti. Quali sono quelli che ti hanno influenzato maggiormente?

«Sicuramente Dave Liebman è stato il mio mentore e maestro. Suonare con Stefano Di Battista mi ha insegnato a ottenere il miglior risultato possibile nel minor tempo possibile. Rosario Giuliani, con cui suono attualmente, mi ha insegnato a non mollare mai la presa sul palco e a condividere all’interno della band come in una famiglia vera e propria».

In Andante From 5th Symphony hai fuso classica e jazz…

«La quinta di Beethoven è semplicemente il pezzo di musica più forte che mi sia mai capitato di ascoltare nella vita. Non ho fatto altro che utilizzare le armonie di Ludwig e cambiare la metrica. Si può improvvisare su tutto!».

Una volta il poeta urbano Vincenzo Costantino Cinaski mi ha detto: «La poesia è semplice restituzione di vita. Osservo la signora che passa per strada o il meccanico… magari stanno vivendo un momento poetico e non se ne accorgono. Io lo traduco in poesia e glielo restituisco affinché possano rendersene conto». Credo sia quello che hai fatto tu in Symbolum ’77. Hai trasformato il celebre canto liturgico composto da Pierangelo Sequeri in uno splendido standard jazz. Chissà quante persone hanno ascoltato e ascoltano quel canto ogni domenica senza rendersi conto della poesia jazz che si nasconde in esso. Come ti è venuta l’idea?

«Sono perfettamente d’accordo con Cinaski. Basta con questa immagine dell’artista rinchiuso nella torre dorata… Chi si dedica all’arte filtra le esperienze più banali e le rielabora per farne qualcosa di emozionante. Symbolum ’77 l’ho ascoltato e cantato un milione di volte da piccolo e l’ho riascoltato di recente per caso, rimanendo colpito dalla bellezza della sua melodia. Vedi, la musica strumentale ha il vantaggio di poter comunicare anche a chi non parla la tua stessa lingua; credo che questo ne sia un buon esempio».

C’è un brano dell’album di cui vai particolarmente fiero?

«Li amo tutti indistintamente come se fossero miei figli».

Nelle note di copertina parli di melodia, ritmica, struttura armonica, policordi, variazioni metriche, terze minori e altre cose per addetti ai lavori. Come descriveresti l’essenza di Other Digressions a una persona digiuna di jazz?

«Un album di musica da ascoltare in qualsiasi momento, scegliendo il pezzo che più vi si adatta… Ci sono molte sfumature all’interno del disco, molte atmosfere sospese. Credo che un brano non debba per forza essere esplicitamente allegro per suscitare lo stesso stato d’animo, a me capita spesso di sentire musica apparentemente cupa e di sentirmi bene, e viceversa».

Cosa significa essere un giovane musicista jazz oggi?

«Significa, come in tutti gli altri settori, cercare di sentirsi cittadini del mondo, allargare i propri orizzonti; in Italia non esiste un mercato che si possa definire tale, è tutto in mano alle lobby, basta dare un’occhiata ai programmi dei festival. I ventenni di oggi hanno moltissimi strumenti in più rispetto a quelli che aveva la mia generazione: noi usavamo le cassette e i vinili, i cd si masterizzavano dagli amici, per accedere al sapere dovevi fare più fatica… Oggi è tutto più facile, ma c’è meno funk nell’aria, è tutto ripulito, crei l’evento su Facebook e hai 5000 amici che neanche conosci, e la musica, se posso dire la mia, è più pulitina ma anche più annacquata, sa di poco».

Com’è la scena romana? La decisone di lasciare Milano è legata in parte anche a una maggiore vivacità musicale di Roma?

«La rotta che mi ha portato da Milano a Roma è passata per New York, dove sono stato per qualche periodo fino al 2008. Sicuramente la scena romana è più florida di quella milanese, ma sono piuttosto diverse nella sostanza: a Roma si tende a fare più “show”, si bada molto a fare funzionare la serata compiacendo il pubblico; a Milano invece riscontro una maggiore profondità di intenzione. Adoro Milano e spero che torni ad essere la capitale del jazz che era negli anni ’70 e ’80».

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