30/09/2020

Rumer rende omaggio a Hugh Prestwood con “Nashville Tears” – Intervista

La cantautrice inglese ha pubblicato un nuovo album con quindici brani, alcuni dei quali inediti, scritti da Hugh Prestwood. Il 17 ottobre il lavoro sarà presentato in un live che si potrà seguire in diretta streaming
Trisha Yearwood, Alison Krauss e Judy Collins sono solo alcune delle interpreti dei brani scritti da Hugh Prestwood. All’elenco si aggiunge infatti ora Rumer, cantautrice inglese che ha vissuto però a lungo nel sud degli Stati Uniti e che già si era cimentata in passato con brani scritti da altri, come ad esempio nell’ultimo suo album del 2016 This Girl’s in Love (A Bacharach & David Songbook). Stavolta Rumer ha pubblicato Nashville Tears (The Songs of Hugh Prestwood), un lavoro di quindici brani, alcuni dei quali mai pubblicati prima, di Hugh Prestwood, regalando così una sua lettura personale di queste canzoni scritte dal songwriter country.
Nashville Tears è stato prodotto da Fred Mollin agli StarStruck Studios e per le sue registrazioni Rumer ha potuto contare su alcuni dei migliori artisti della stessa Nashville e in particolare Mandy Barnett, Pat Buchanan, Matt Dame, Stuart Duncan, Tania Hancheroff, Lorrie Harden, Tommy Harden, Mike Johnson, Kerry Marx, Gordon Mote, Larry Paxton, Scotty Sanders e Bryan Sutton.
 
L’album è uscito lo scorso 14 agosto, mentre il prossimo 17 ottobre Rumer sarà protagonista di un concerto da Lafayette, Londra che si potrà seguire in diretta streaming.
L’evento sarà trasmesso su FriendlySky platform alle ore 21.00 italiane e sarà possibile parteciparvi acquistando i biglietti qui.
 
 

 
In attesa di seguire il concerto in cui Rumer presenterà dal vivo il suo nuovo album, abbiamo intervistato la cantautrice per parlare proprio di Nashville Tears.
 
Nashville Tears: come mai questo titolo per il tuo nuovo album?
Nashville Tears era un titolo e un’idea di concept che ho sviluppato nel tempo. Significa una serie di cose per me…
All’inizio sono partita pensando che ci sono così tanti brani a Nashville che non vengono incisi o che non ottengono l’attenzione che meritano. Nashville Tears si riferisce alle canzoni stesse, alla loro malinconia, e poi alla tristezza e alla lotta, al caos e alla dura vita del cantautore.
Il titolo riguarda anche la profonda tristezza per come è diventata Nashville: i prezzi sono aumentati in modo esponenziale e tante persone povere e vulnerabili, spesso in età avanzata, sono state costrette ad andare via dalle loro case per trasferirsi a cento miglia di distanza, a causa della gentrificazione e di proprietari degli immobili aggressivi. La sofferenza di queste persone a Nashville è invisibile sotto il glamour dell’industria musicale e di tutti i turisti, i locali notturni e i bar.
Inoltre, ciò di cui non mi sono resa conto, fino a quando non ho concluso il lavoro, è che l’album rappresenta davvero un periodo di tempo nella mia vita in cui vivevo nell’America del sud ed ero destabilizzata dalla maternità e dal fatto di essere sola e isolata in una cultura totalmente diversa. Il titolo significa molte cose per me.
 
Cosa rappresenta la musica country per un’artista inglese come te prima di trasferirti nell’America del sud e cosa rappresenta oggi?
Da bambina amavo Patsy Cline e crescendo ho apprezzato man mano il country e l’americana, ma non riuscivo a percepirli come adesso.
Come europea, sono stata attratta dall’America, dalle vaste praterie, dall’abbondanza di alberi e da tutta la natura… Poi mi sono sentita attratta dal sud e mi sono trasferita in Arkansas nel 2013. Alcuni anni dopo mi sono trasferita ancora più a sud, in Georgia, che aveva un’atmosfera completamente diversa. Ho iniziato a osservare, ascoltare e vivere il sud in un modo che mi ha fatto apprezzare la musica country. Vivevo una vita molto ordinaria nel sud ed è di questo che parla molta musica country, storie quotidiane di vite ordinarie in città normali. Ascoltando la radio, guidando in giro e vivendo il sud in quel modo, ho apprezzato sinceramente la musica country perché riguardava la mia vita in quel momento. Non avrei potuto immaginare di sentirmi così legata alla musica se non l’avessi vissuta e sperimentata in prima persona.
 
Vivi ancora lì?
In realtà sono appena tornata a Londra poche settimane fa. Ho deciso questo perché volevo che mio figlio fosse più connesso con la cultura europea e con la mia famiglia. Quindi questa esperienza di sette anni nell’America del sud è giunta al termine, per ora. Ma la musica e le persone che ho incontrato – tutte quelle esperienze – le porterò con me.
 
Bene. Torniamo a parlare del tuo nuovo album. Quando hai scoperto Hugh Prestwood e la sua musica?
Ho scoperto Hugh Prestwood quando, tra tutte le canzoni che stavamo ascoltando per Nashville Tears, ho sentito il demo di Hugh di Oklahoma Stray. Sono stata subito colpita dalla sua profondità e dalla sua bellezza. Poi ho iniziato a interessarmi sempre di più a Hugh, ho iniziato ad ascoltare maggiormente il suo lavoro e ho capito che è un grande songwriter. Sono rimasta stupita dal fatto di non aver mai sentito parlare di lui e di non aver mai sentito nessuna delle sue canzoni. Allora ho detto al produttore Fred Mollin che avrei voluto modificare l’idea del progetto, facendo diventare Nashville Tears un songbook dedicato a Hugh Prestwood e lui ha accettato.
 
Come hai scelto i brani di Hugh Prestwood, già pubblicati o in alcuni casi inediti, per Nashville Tears?
Ho iniziato a prendere in considerazione le centinaia di canzoni di Hugh. Ascoltavo in macchina, mentre passeggiavo, mentre lavavo i piatti… Volevo soprattutto che la melodia fosse complessa e insolita e poi ascoltavo ritratti e storie del sud che si sarebbero combinati per creare una raccolta di sentimenti e immagini che, una volta messi insieme su disco, sarebbero diventati un riassunto di come vedevo e percepivo in quel momento l’America. Volevo anche assicurarmi di avere una varietà di stati d’animo, sentimenti, ritmi e stili diversi nel disco, in modo che, per qualcuno che scoprisse Hugh Prestwood per la prima volta, come me, sarebbe stata un’ottima introduzione al suo lavoro.
 
Non è la tua prima volta con le cover… è cambiato negli anni il tuo approccio alle cover?
Sono solo migliorata. In Boys Don’t Cry (album del 2012 in cui Rumer ha reinterpretato brani degli anni ’70 di Todd Rundgren, Tim Hardin, Richie Havens e altri, ndr) è stata la prima volta che ho provato a cantare dal punto di vista maschile. È stato interessante per me e ho imparato molto durante quell’esperienza. Poi su Bacharach sono stata sfidata vocalmente in maniera davvero forte (in riferimento all’album This Girl’s in Love (A Bacharach & David Songbook) del 2016, ndr). Interpretare quelle canzoni, alcune delle quali iconiche, è stata una sfida enorme. E poi sono migliorata come cantante. Quindi, con quest’album è come se avessi raggruppato la mia esperienza dei due lavori precedenti. Immagino che tutto ciò che ho fatto prima, mi ha portato sino a qui.
 
Ultima domanda in conclusione: dopo Nashville Tears potremo ascoltare nuovi brani tuoi? Stai scrivendo nuovi pezzi?
Sì, sto lavorando alla scrittura di nuove canzoni. La verità è che dopo il disco dedicato a Bacharach volevo pubblicare un album di materiale originale, non volevo fare due songbook uno dopo l’altro. Tuttavia, dopo aver avuto mio figlio, non ero proprio in grado di trovare il tempo e lo spazio per scrivere e quindi, quando si è presentata l’opportunità di fare Nashville Tears, l’ho respinta rimandandola un po’ di volte, finché non ho capito che dovevo andare avanti e lavorarci su, se era qualcosa che volevo davvero fare. Ero spaventata all’idea di essere giudicata per non aver scritto brani originali dopo l’album con i pezzi di Bacharach, ma ero particolarmente coinvolta nelle faccende quotidiane della maternità, prima di trovare il tempo necessario per dedicarmi ai miei nuovi brani. Ora mio figlio ha quasi tre anni e mezzo e sono in una fase in cui mentalmente sono più pronta per lavorare alla scrittura del mio prossimo album.
 

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