22/05/2014

St. Vincent

Dopo la recente esperienza con David Byrne, la cantautrice e polistrumentista statunitense torna con il suo quarto album omonimo
Quarto disco principalmente dai toni art pop, funky ed elettronici per St. Vincent. Il tutto è coniugato sapientemente e con maggior convinzione dopo Strange Mercy, ultimo lavoro solista del 2011, ma ancor di più dopo Love This Giant, album del 2012 con David Byrne. La cantautrice e polistrumentista statunitense è tornata dunque con questo disco dal titolo omonimo (Loma Vista/Republic Records), che vede la produzione di John Congleton (The Paper Chase) e le percussioni di Omer Steinweiss dei Dap-Kings e McKenzie Smith dei Midlake. Nelle undici tracce il valore di Annie Erin Clark – questo il suo vero nome – emerge per mezzo di un “isterismo visionario”, alternato ad una “rabbia elegante”.
 
Si parte con Rattlesnake, brano “robotico” in cui l’artista racconta di quella volta in cui si è ritrovata alle prese con un serpente, e si continua con la nevrosi di Birth in Reverse, primo singolo di “influenze byrniane” che aveva anticipato l’uscita del disco. Vale quasi lo stesso discorso per Digital Witness, brano “per certi versi più regolare”, dove i fiati sono ben congegnati nelle strofe e permettono di raggiungere in scioltezza l’inciso sin dall’apertura. L’allucinata Huey Newton, nata dall’immaginazione di incontrare nella propria stanza il fondatore del movimento politico delle Pantere Nere (morto nel 1989), lascia spazio nel mezzo a momenti simili alla “solita” St. Vincent in brani come Prince Johnny, I Prefer Your Love e a tratti in Regret. Bring Me Your Loves è elettronicamente corposa ed incalzante e anche la voce molto effettata non ne risente. In Psycopath i sussulti sono marziali, in Every Tear Disappears sono rigirati e più definiti e infine in Severed Cross Fingers divengono quasi passionali.
 
Saper utilizzare la propria voce è un altro pregio evidente di St. Vincent. Saperla modellare con discrezione avvalendosi dei supporti tecnologici è un altro punto spesso difficile da sviluppare, poiché rischia di pregiudicarne il sentimento primordiale. E lo stesso principio vale per l’uso voluto di strumenti a fiato, theremin e altre “diavolerie elettroniche”.
 
St. Vincent è riuscita quindi con il suo quarto disco omonimo a costruire brani complessi ma non complicati, prolungando in maniera logica ed equilibrata le sue sonorità. Lodevole.

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