30/06/2011

SUFJAN STEVENS

FERRARA, TEATRO COMUNALE – 24 MAGGIO 2011

«Sono il vostro divertimento stasera». Leggendo da un foglietto in un italiano decisamente claudicante, dopo essersi levato le enormi ali da cigno previste nella scenografia dell’iniziale Seven Swans, il genialoide artista di Chicago accoglie un pubblico già caldo ed entusiasta descrivendo quello che vedremo in seguito. «Ordinariamente suono canti popolari, ma stasera suono musica cosmica-pop. Siamo tutti nell’astronave, io sono il capitano. Vi do la mia musica e vi do il mio cu… cuore» (non sappiamo quanto voluto sia l’incespico sul suffisso, ma l’effetto è sottolineato da molti con ironia). E il viaggio nello spazio con Capitan Sufjan Stevens, angelo, astronauta, marziano, si dipanerà proprio sulla scansione e sulle sonorità dell’ultimo album, The Age Of Adz, artefice non solo di aver deviato il mastodontico progetto di dedicare un album per ogni Stato della Nazione, ma fautore di una decisa svolta verso le derive di un pop elettronico, spaziale, caleidoscopico e multicolore. Il valore aggiunto dello show di casa nostra (la prima assoluta in Italia e unica data italiana e che verrà poi definita dallo stesso artista una delle migliori serate del tour) è dato dalla meravigliosa cornice di un tempio dedicato all’opera, col beneficio di un’acustica perfetta, aspetto che se da un lato marca tutte le incongruenze estetiche rispetto a quello che si vedrà sul palco, dall’altro le stempera in un immaginario senza confini di genere (pensate a tre piani circolari di palchetti biposto: una vera libidine per gli occhi). L’impatto è di una palpabile felicità collettiva: l’intento della band (dieci elementi, tra cui l’altro genietto, DM Stith, che ha aperto lo show con brani acustici) è palesemente quello di voler regalare molto più di un concerto, spingendo visioni e suoni che richiamano le fantasie dei bambini, creando un viaggio mentale, figurativo e teatrale, nello spazio, magari da sotto il letto, dentro una scatola, al buio con una pila accesa o con divise improvvisate da astronauti e scatole di detersivo vuote in testa. Il tutto incentrato sui disegni surreali di Royal Robertson, l’artista-profeta visionario e pazzoide cui è dedicato l’album e lo show (Sufjan impiega 10 minuti per raccontarne la storia, stavolta in inglese). Il musicista illuminato, il ragazzo col cuore di ragazzo, un po’ Peter Gabriel, un po’ Beck, un po’ Frank Zappa, trascina e coinvolge con sapiente dosaggio di accelerazioni sonore e visuali (grande l’idea di suonare alcuni brani dietro un telo con effetti in 3D) in cui i trasformismi musicali e non, fagocitano la scena, alternati da qualche momento di intima e acustica suggestione, senza mai rinunciare alla cura degli arrangiamenti, anche quando i brani dell’ultimo album (Futile Devices e Impossible Soul su tutti) cedono spazio alle poche cose del passato: le sole Heirloom e Enchanting Ghost dall’ep All Delighted People nel set ufficiale e le 3 chicche finali, tutte da Illinoise, che hanno generato l’apoteosi degli encore, cioè Concerning The Ufo Sighting Near Highland Illinois, John Wayne Gracy Jr e la trionfale Chicago. Cantata, questa, da tutto il pubblico in piedi e in delirio, tra enormi palloncini da far rimbalzare ed esplosioni di suoni e grida, alla maniera dei Flaming Lips. Uno spettacolo che resterà a lungo nella memoria.

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