02/03/2009

TIM O’BRIEN

Il camaleonte del folk
Non è una rock star. Anzi, per dirla tutta, il suo nome è sconosciuto ai più. Perfino facendo una ricerca su Google, rischiamo di non saperne molto di più. Digitando la voce “Tim O’Brien”, infatti, il primo risultato che appare è quello relativo all’omonimo (e più famoso) scrittore specializzato in romanzi sulla guerra in Vietnam. Eppure Tim O’Brien, il musicista, è un fuoriclasse assoluto. Non solo (come sanno bene i cultori di bluegrass per i quali da sempre è uno degli artisti più stimati) in virtù delle sue formidabili doti di polistrumentista virtuoso. Autore e arrangiatore altrettanto delizioso, O’Brien è infatti uno dei protagonisti più versatili (e ambiti) della scena roots americana. Non a caso, Joan Baez lo ha voluto accanto a sé nel suo ultimo disco Day After Tomorrow. Nel 2006 l’industria della musica si è finalmente accorta di lui premiandolo con un Grammy nella categoria album folk. «Quel riconoscimento mi ha cambiato la vita», mi dice, «ma non in termini economici. In quel momento ho capito che negli anni avevo fatto qualcosa di importante. E che, forse, invece di viaggiare ininterrottamente da un concerto all’altro era giunta l’ora di fermarsi e registrare un album che riflettesse quel che sono oggi». E così è nato Chameleon, disco in cui Tim, da autentico camaleonte del folk, cambia toni e timbri a seconda del brano, suona tutti gli strumenti e, per la prima volta, interpreta esclusivamente canzoni di propria composizione. «Esibirsi da solo è una bella sfida», dice, «ma ci sono abituato. Mi dà libertà totale e mi avvicina ulteriormente al pubblico».
Tim O’Brien è artista accessibilissimo. Da tutti i punti di vista. Lo dimostra lo scorso 9 febbraio, quando insieme alla Red Wine (la più gloriosa, storica e prestigiosa band italiana di country & bluegrass) si esibisce alla Salumeria della Musica di Milano, ospite dei miei RockFiles (LifeGate Radio). Gentile e disponibile, Tim (camicia di flanella, jeans e scarponcini) appare come il signore della porta accanto. E dà retta a tutti: dal fan che gli chiede l’autografo ai miei “superprofessionali” allievi del Master in Giornalismo e Critica Musicale, dal curioso che ha appena acquistato un suo cd sino all’assatanato di corde e strumenti che vuole sapere tutto sui suoi mandolini. «A casa» racconta «si ascoltavano gli lp del Kingston Trio e di Peter, Paul & Mary, artisti del folk revival della stessa epoca di Dylan, che però io ho visto e sentito per la prima volta solo nel 1966 in un assurdo show televisivo che si chiamava Hullabaloo, un varietà musicale con ballerine scosciate. Pensa che nel programma lo avevano presentato come Bobby Dailan (pronunciato come l’ho appena scritto in italiano, nda). Non mi c’è voluto molto per amare le sue canzoni tanto che, trent’anni dopo nel 1996, ho pubblicato un intero disco (Red On Blonde) di sue canzoni. Quando ho detto a mia madre che avevo registrato un album tributo a Bob Dylan lei, preoccupata, mi ha chiesto: non sapevo che fosse morto, quando è successo?». Proprio la madre di Tim è la prima a sapere che suo figlio, allora 18enne studente del Colby College nel Maine, decide di lasciare la scuola e di diventare musicista. «Mamma, me ne vado all’ovest», scrive in quella lettera, «conosco 200 canzoni, se ne imparo qualcun’altra dovrei essere pronto a fare il musicista». Detto fatto. Tim lascia il bucolico stato natio del West Virginia per sbarcare nel cuore delle Montagne Rocciose, tuffandosi nella frizzante atmosfera di Boulder. Frequenta il Folklore Center della vicina Denver dove diventa amico di alcuni musicisti bluegrass con cui forma la band Hot Rize. 
«Abbiamo rivitalizzato il bluegrass tradizionale, quello inventato da Bill Monroe e popolarizzato da Flatt & Scruggs». Dopo un decennio di gloria con gli Hot Rize, nel 1990 Tim registra con Kathy Mattea un duetto che lo porta in classifica anche se quella rimane la sua unica, vera esperienza con il dorato mondo di Nashville. In compenso, allarga il suo spettro musicale. Se il bluegrass è sempre il suo cuore artistico, swing, folk e canzone d’autore cominciano a fare capolino. «Nel Colorado suonavo con l’amico Dan Sadowsky e la sua Ophelia Swing Band: sembravamo l’Hot Club de France di Django Reinhardt e Stéphane Grappelli con un cantante in più. Avevamo in repertorio canzoni buffe, piene di ironia che alternavamo a classici di Cab Calloway, George e Ira Gershwin, Duke Ellington e Count Basie. Al tempo stesso, ho sempre amato i grandi songwriter, James Taylor e Joni Mitchell su tutti». E unendo a queste passioni, il proprio retaggio irlandese, a fine millennio si getta in un’avventura artistica stimolante. Con The Crossing attraversa idealmente l’Oceano Atlantico in direzione contraria a quella dei suoi antenati, gli emigrati anglo-scoto-irlandesi del XVIII secolo. Nel progetto convivono perfettamente le sue due identità artistiche e culturali. «Quando suono il violino emerge la mia anima irish, quando sento rock, blues e R&B mi sento di nuovo americano», ammette.
Oggi Tim O’Brien vive a Nashville ma è lontano (artisticamente e come attitudine) anni luce dai lustrini della Music City Usa. La sua è un’altra Nashville: è piuttosto quella alternativa che (ad esempio) ha prodotto il fenomeno dell’anno, la strana coppia Robert Plant & Allison Krauss. «Dopo il successo ai Grammy, so che sono di nuovo in sala d’incisione», mi dice, «anche se a me non sarebbe dispiaciuto affatto vedere la reunion dei Led Zeppelin».

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