16/05/2007

Tori Amos

Milano, Teatro Orfeo, 17 dicembre 2001

“Rare solo performance”, titolavano i manifesti. Ma per i devotissimi fan della Amos (Teatro Orfeo sold out un mese prima dello show) quel concerto speciale, l’ultimo del suo World Tour 2001, non è altro che un ritorno alle origini. Infatti, la talentuosa songwriter della North Carolina ha da sempre fatto del concerto per piano e voce la sua nota distintiva, il suo elemento caratterizzante. E va bene così: la brava Tori, infatti, su quel territorio, non teme rivali. Un po’ Joni, un po’ Kate Bush con la classica postura di tre quarti mutuata da Jerry Lee Lewis, la Amos sembra fatta apposta per dar vita in modo magistrale a quella formula scarna ma efficacissima.

Sono da poco passate le 21 quando in grande forma fisica (la ragazzina, tra diciotto mesi compirà 40 anni!) fa il suo ingresso dopo che per circa quattro (eterni) minuti era andato in sottofondo ’97 Bonnie and Clyde senza che succedesse nulla. Al termine dell’inutile intro, la gigantografia che fino ad allora copriva il palco crolla liberando lo stage. Luci teatrali e un’elegante scenografia accolgono la piccola Tori che, inchinandosi davanti al suo pubblico, si sistema di fronte al fido Bosendorfer (di fianco, un Fender Rhodes e più avanti un altro piano elettrico usato sul palco di Woodstock ’69 dal gruppo di Country Joe McDonald). E attacca con Real Men a cui fa seguire Little Amsterdam e Leather. Proprio con quest’ultimo brano (tratto dal suo disco capolavoro, quel Little Earthquake che nel 1991 ha rivelato al mondo la sua sensibilità di compositrice e il suo unico, intenso approccio interpretativo) il concerto inizia a decollare.

Purtroppo, però succede che Tori ‘carichi’ un po’ troppo le interpretazioni variandone il tempo (addirittura più volte nel corso della stessa esecuzione) in modo un pochino fastidioso. Ma tant’è: anche questi eccessi fanno parte del suo personaggio che spesso non concede spazio al compromesso; o lo si ama o non lo si può sopportare. Noi, vecchi amici e sostenitori, ne continuiamo ad apprezzare la classe innata, il gusto estetico sopraffino e anche la formidabile tensione emotiva. Che a volte, è vero, esce dai confini del lecito ma che altre volte entusiasma come quando in Take To The Sky con una mano batte sul bordo del pianoforte per scandire il ritmo (prontamente seguita dal pubblico) e con l’altra continua ad accompagnare il pezzo.

Sempre dal repertorio di Little Earthquakes (il suo acme compositivo) la Amos riprende l’incantevole China e la suadente, meravi-gliosa Winter. E ripropone persino il toccante racconto unaccompanied di un abuso sessuale realmente accaduto (Me And A Gun, di cui però ricordiamo versioni più efficaci). Anche in questo caso, infatti, un brano già di suo strabordante di emotività, risulta appesantito da un’inter-pretazione troppo caricata.

Paradossalmente, il pezzo segna una svolta del concerto: da lì in avanti (Cooling) e in tutti i bis (ben 5 brani), Tori dà il meglio di sé: interpretazioni impeccabili (Tear In Your Hand e Rattlesnakes) intense ma calibrate, piene di passione e gusto. Persino la natalizia Have Yourself A Merry Little Christmas o la intensa Mary (il brano che Tori a inizio concerto aveva promesso, pur se in modo alquanto sibillino) si trasformano in spettacolari gemme sonore.

E il binomio piano-voce diventa acusti-camente inscindibile, timbricamente equilibrato, tecnicamente corretto, poe-ticamente sublime. La conclusiva, magica Hey Jupiter è il degno finale di un bel concerto (apprezzatissimo dai fan) ma che forse poteva essere gestito con maggiore equilibrio. Ma è una critica che facciamo proprio perché le vogliamo bene.

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