01/04/2011

VAN DER GRAAF GENERATOR

LA MATEMATICA DELL’ARTE

Gennaio 2006. Hugh Banton, Guy Evans e Peter Hammill si incontrano a pranzo nei pressi della Royal Festival Hall. Proprio là dove, un anno prima, aveva preso forma la reunion della leggendaria line up dei Van Der Graaf Generator, quella che aveva fruttato Present, il primo disco di studio dopo ben 28 anni. Ma intorno al tavolo c’è una sedia vuota: quella di David Jackson, ormai definitivamente fuori dai giochi. I tre vecchi amici, ormai prossimi alla sessantina, si guardano negli occhi con aria interrogativa: che fare? Riporre definitivamente sotto naftalina una delle band più rappresentative della storia del rock inglese, o rimettersi ancora una volta in discussione? I tre scelgono la seconda opzione, ripromettendosi di provarci almeno.
E così, dopo alcuni concerti di rodaggio (fra cui uno a Umbertide, in Umbria, nel luglio 2007), Hammill (voce, piano e chitarra), Banton (organo e basso) e Evans (batteria) fanno rinascere ufficialmente i Van Der Graaf Generator, ma in un’inedita formazione a trio. A tre anni da Trisector del 2008, l’esperimento continua con un altro album nuovo di zecca, A Grounding In Numbers, arrivato da poche settimane e salutato con favore dalla critica.
Per capire come è nata questa ennesima sfida, abbiamo intercettato Peter Hammill, leader indiscusso del Generatore, col quale siamo partiti dall’esaurimento del contratto con la Virgin Emi, sotto la cui egida erano usciti tutti i dischi precedenti. Il nuovo album è pubblicato invece dalla Esoteric, un’etichetta indipendente molto battagliera ed egregiamente rappresentata in Italia dalla distribuzione di Audioglobe e l’ufficio stampa Il Popolo del Blues del compianto Ernesto de Pascale. La domanda è se il fatto di lavorare con una indie ha influito in qualche modo sul risultato. «Direi di no», sentenzia Hammill, «anche perché inizialmente abbiamo lavorato al disco senza ancora avere un vero contratto, quindi la musica non ne è stata influenzata in alcun modo. È sicuramente una cosa diversa lavorare per la Virgin/Emi, ma siamo tutti entusiasti per come è riuscito il disco, e non crediamo che la Emi fosse contenta di noi. Ma va anche detto che, adesso, per le major è un mondo difficile».
Ciò che certamente è cambiato è l’approccio compositivo. In passato, la tendenza per i Van Der Graaf era di incontrarsi portando ciascuno il proprio materiale già scritto in buona parte, per poi lavorare tutti assieme al prodotto finito. Non così stavolta: «Abbiamo smesso da tempo di scambiarci idee per le canzoni con troppo anticipo rispetto all’ingresso in studio», precisa Hammill. «Preferiamo scrivere tutto insieme perché ha un’intensità diversa, anche quando passi alla registrazione. Ma per arrivare a questo devi avere molto materiale pronto per il gruppo, e sapere anche, più o meno, cosa farne. Oggigiorno non c’è più tanto tempo per lavorarci, come succedeva negli anni 70. Prima di cominciare a registrare, quindi, ci scambiamo tutte le idee che abbiamo. Alcune sono canzoni tradizionali, altre solo testi, o ancora cose che scrivo per essere sviluppate con Hugh. Questo va avanti qualche mese prima di iniziare a registrare. Quando mettiamo tutto insieme, il grosso del lavoro è già fatto».
Per la prima volta nella storia dei Van Der Graaf tutte le canzoni sono accreditate alla band intera. Questo vuol dire che è davvero uno sforzo di gruppo? «È chiaro che ci sono delle responsabilità individuali, non è tutto diviso esattamente per tre. Ma abbiamo deciso di essere democratici e togliere i nostri ego dall’equazione, non tanto per evitare discussioni, che pure inevitabilmente ci sono, quanto per non mettere nessuno in rilievo. Lifetime, su Trisector, è stata l’unica eccezione, perché l’avevo già eseguita dal vivo e non avrebbe avuto senso accreditarla alla band. Ci sono, comunque, diverse responsabilità all’interno dei pezzi, dove ognuno fa la sua parte. Insomma, è un po’ come Lennon e McCartney, che co-firmavano i pezzi anche quando non erano coinvolti entrambi allo stesso modo».
Il ritrovato cameratismo induce la band a una convivenza forzata ma voluta, poiché i tre, nella settimana di session che va dal 3 al 9 aprile 2010, presso gli studi Propagation House situati nel Devon, decidono di dormire sotto lo stesso tetto. «Esatto», spiega Peter. «Non avevamo tecnici, né altro. Cominciavamo verso le 10 di mattina per staccare intorno alle 8 di sera, quando tornavamo nella casa dove eravamo alloggiati, poco distante dallo studio. Uno di noi preparava da mangiare, poi facevamo i signori di una certa età durante una vacanza lavorativa».
Sorprendentemente, nonostante gran parte del materiale sia stato registrato in una settimana, il tutto appare forse anche più definito e corposo rispetto ai due dischi degli anni 2000. «Nel preparare il materiale» spiega Hammill «abbiamo concordato che sarebbe stato interessante avere stili diversi sul disco, e che questo sarebbe stato più semplice da realizzare con pezzi più brevi. Nonostante questa decisione, tutto fa comunque parte dello stesso progetto».
Dopo la registrazione delle basic tracks, i tre si sono portati i nastri nei rispettivi studi (Terra Incognita di Hammill, The Organ Workshop di Banton e DLD di Evans), dove ciascuno ha effettuato sovraincisioni. Ma quanto è stato aggiunto in seguito? «Difficile stabilirlo», risponde Peter. «Io ho rifatto tutte le voci, aggiungendo un po’ di chitarra e di piano. Hugh, questa volta, ha sperimentato con dei campioni, e nell’insieme abbiamo aggiunto più cose rispetto a Trisector, perché non eravamo più legati all’idea di fare un disco che dovesse suonare necessariamente come una registrazione dal vivo. Questo è più un lavoro fatto in studio. In alcuni pezzi non abbiamo aggiunto niente, mentre di altri avevamo solo la struttura e quindi c’è stato un grosso lavoro successivo. Ma questa è la consueta procedura di registrazione, alla fine».
C’è stata qualche discussione una volta ascoltato ciò che ciascuno aveva aggiunto alle canzoni? «Sì, sorprendentemente ci sono state molte discussioni, ma quasi sempre abbiamo trovato un accordo. La cosa interessante è che io ho suonato il basso solo in un’occasione e Hugh ha suonato la chitarra una sola volta, quindi, senza volerlo, non c’è stato un grosso scontro su cosa togliere. È stato tutto più positivo rispetto al disco precedente».
La parte finale di All Over The Place e i tempi dispari di Medusa e Mr. Sands rimandano al progressive rock. Necessario chiedere a Hammill se sente ancora che i Van Der Graaf appartengono a quel movimento, ammesso che abbia pensato mai di farne parte… «Abbiamo cambiato approccio e stile talmente tante volte nella nostra carriera», sospira il vocalist… «Eppure principalmente la gente ci conosce così e non possiamo farci più niente, ormai. Quando facciamo musica, comunque, non pensiamo mai a un genere in particolare ma, inevitabilmente, tendiamo ad essere più progressive di altri proprio per come siamo fatti, per i nostri gusti personali. Non è qualcosa che cerchiamo a tutti i costi, ma succede lo stesso».
Come sempre, i testi sono opera di Hammill. Spicca quello di Mathematics. L’ennesimo rimando ai numeri, vera ossessione per il cantante? «Fino a un certo punto, sì. Ma quello è anche un interesse di Hugh, che è un appassionato di scienze e matematica. In questo caso il ritornello riporta una formula che non conoscevo e, quando mi ci sono imbattuto, ho pensato che fosse qualcosa di genuinamente bello, una sorta di poesia. La matematica può essere artistica, e questa è una delle idee che c’era già quando cominciammo a registrare, nonostante l’input di Hugh».
Per contro, Highly Strung sembra la canzone più accessibile, con un feel quasi alla Rolling Stones nel riff di chitarra… «Il ritornello è molto diretto e rock’n’roll, in effetti», ammette Hammill, «e il riff pure. Ma in realtà è stato molto difficile da suonare ed è abbastanza complicato. È solo musica, comunque, e quindi potrebbe sembrare una cosa più commerciale rispetto al materiale più proggy». Non a caso proprio Highly Strung sta per essere pubblicata su singolo, seppure in edizione limitata. «È arrivato il giorno in cui i singoli vengono pubblicati ma solo in piccoli negozi, non nelle catene, né per corrispondenza. L’idea è sottolineare l’importanza di certi negozi, specialmente di questi tempi grami. Non so se uscirà anche in vinile, ma è comunque una buona idea».
A proposito, A Grounding In Numbers è il primo album dei Van Der Graaf del terzo millennio a uscire anche su vinile. Un’iniziativa della band o della casa discografica? «È stata un’idea dell’etichetta. Non mi dispiace, del resto anch’io continuo a usare il vinile, notando con piacere che c’è ancora un certo interesse in quel supporto». La pubblicazione su vinile indica un rinato interesse verso l’alta fedeltà e la resa audio della musica? «Credo che ci siamo sempre interessati all’aspetto del suono», sottolinea Hammill, «ma questa volta abbiamo voluto fare un passo in avanti. Il master è particolarmente bello e non deluderà gli audiofili, ne sono certo».

Non è accaduto spesso che i Van Der Graaf abbiano invitato orecchie esterne per produrre o almeno mixare. In questa occasione, il missaggio è stato affidato a una vecchia volpe come Hugh Padgham, già produttore di Police, Xtc e Genesis. «È stata una decisione insolita, in effetti», riconosce Hammill. «Stavolta volevamo qualcuno coinvolto nel mix, in modo che non dipendesse solo da noi. Padgham lo conosco da anni e l’ho suggerito agli altri. Non sapeva cosa facessimo esattamente, ma ha fatto un lavoro fantastico a livello di potenza e di equilibrio del nostro sound. Davvero superlativo».
Dal punto di vista esecutivo, invece, il ruolo chitarristico di Hammill appare decisamente  cresciuto da quando David Jackson non è più nella band. «Certo, ho più responsabilità adesso», ammette, «pur non essendo certamente un pianista o chitarrista virtuoso. Ho delle abilità specifiche come chitarrista ritmico e avevo già lavorato tantissimo in quel senso con Guy in passato, in diverse formazioni negli anni. Quella relazione è ritornata nella nuova formazione a tre, il che è anche molto interessante per me». Talvolta, poi, il piano di Peter e l’organo di Hugh suonano insieme, condividendo l’esecuzione delle melodie. Come dire che i Van Der Graaf preferiscono sottolineare la condizione di gruppo, piuttosto che il virtuosismo di ciascuno. «È sicuramente il lavoro di un gruppo, il nostro. Hai perfettamente ragione su questo, sono totalmente d’accordo».
La line up a trio, ormai, non è più una novità. Ora che il periodo di transizione è passato, è stato tirato un bilancio per capire quanto sia dura stare in studio e sul palco senza la musicalità di Jackson, a prescindere dal suo input personale? «Come dici giustamente, è una cosa consolidata ormai. Siamo un trio che sta ancora esplorando le possibilità di suonare in tale forma e, ad essere sinceri, andare a registrare o a suonare dal vivo sembra ultimamente molto più naturale, per quanto possa sembrare strano dall’esterno. Dopo due dischi e vari concerti, abbiamo sviluppato un sound diverso proprio perché siamo un trio adesso, ma la novità è sopraggiunta in maniera molto naturale».
Resta da capire quanto l’assenza di Jackson influenzi la scelta del materiale da suonare dal vivo. «Quando ci siamo chiesti se e come continuare in tre», risponde il cantante, «la prima cosa di cui abbiamo discusso era come presentare il materiale vecchio e cosa suonare. Esaminandolo poi da vicino, abbiamo capito che era possibile fare quasi tutto con degli accorgimenti. Guy è stato molto radicale in alcuni arrangiamenti. Siamo però ovviamente più concentrati sul materiale nuovo, perché sentiamo di vivere nel presente, anzi proiettati nel futuro».
Dal vivo, in effetti, viene privilegiato il nuovo materiale, che viene suonato in maniera più aggressiva. È ancora divertente a questo punto suonare le cose vecchie, o diventa un puro esercizio di stile? «Ma certo che ci piace! È bello mescolare tutto e, una volta che abbiamo deciso la scaletta della serata, tendiamo a guardare solo la set list, e non se il pezzo è vecchio o recente. Il fatto di suonare in trio ci obbliga a rivedere comunque qualcosa, ma perché non suonare quello che vogliamo se ciò rende tutto più fresco e vitale?».
Quando è uscito Present, ormai sei anni fa, si poteva già ipotizzare l’inizio di una reunion a lungo termine, o era visto piuttosto come un progetto una tantum? «L’idea era semplicemente fare il disco, un tour e forse un live», sintetizza Hammill. «Mi sembra incredibile il fatto che siamo riusciti a fare altri due album e di esserci evoluti come gruppo. Sospetto che ciò dipenda dal fatto che siamo un trio, adesso. Come quartetto, ho seri dubbi che avremmo realizzato un solo altro disco. Di sicuro saremmo stati molto meno motivati rispetto ad ora. Nel 2005 non ci avrei creduto, comunque. Ma è anche una grossa opportunità per guardare in avanti e la cosa ci ha coinvolti pienamente».
I Van Der Graaf hanno avuto tre differenti fasi nella loro carriera. Esiste una continuità per tutta la parabola? E quali sono le differenze principali in termini di stile e di obiettivi? «La prima formazione, fino a Pawn Hearts, si dedicava di più alla sperimentazione, in un’epoca di grandi ricerche. E tutto veniva fatto con una fretta pazzesca. Il periodo successivo è stato molto intenso e abbiamo suonato moltissimo dal vivo, ma è anche vero che, nonostante avessimo fatto delle buone cose, non ha soddisfatto tutti allo stesso modo. L’ultima fase va divisa in due parti, le prove segrete e la successiva reunion, fino alla fine del 2005, con la decisione di continuare come trio, e il periodo attuale, in cui siamo dei vecchietti non più legati dall’urgenza di fare tutto subito. Adesso lavoriamo insieme a un progetto alla volta, poi torniamo alle nostre vite».
Mentre questo giornale va in stampa, i Van Der Graaf sono in giro con un breve tour inglese seguito da una manciata di date in Italia (dal 4 al 9 aprile: Roma, San Benedetto del Tronto, Milano e Cesena). Cosa succede dopo? «Appena avremo finito con questi concerti, comincerò a registrare i pezzi nuovi che ho assemblato per un altro disco solista».

(Si ringraziano Simone Mazzilli e Antonio De Sarno)

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