11/01/2010

WARREN HAYNES

La vita appesa a una corda (di chitarra)

Quando arrivo all’appuntamento per l’intervista, Warren Haynes è nel bel mezzo di un set fotografico. Chitarra a tracolla, si trattiene ancora un po’ col fotografo a chiacchierare e firmare autografi. È rilassato e disponibile. Il pubblico che affolla l’Alcatraz per il concerto dei Gov’t Mule, intanto, è già numeroso in sala e fuori, ai botteghini. Completo nero e stivali da motociclista, Warren ostenta un look da southern rocker d’annata: capello lungo, screziato di fili bianchi che spuntano anche dal pizzetto.
Mr. Haynes, così di primo impatto lei sembra davvero a proprio agio in tournée. Questa tranquillità deriva dalla consapevolezza dei propri mezzi o da semplice routine?
«Amo quello che faccio. Vedi, io sono un uomo molto fortunato. Se posso salire sul palco e suonare e anche incontrare nuova gente, come sto facendo adesso con te, io sto bene. Quando questo accade, sono over the moon, mi sembra che potrei fare tour e concerti per sempre. Provo spesso paura del palco e del pubblico, ma non mi rende nervoso, anzi mi motiva. Non posso contare i concerti che faccio in un anno. Se suonare per me fosse un motivo di stress non avrei i capelli così lunghi. Forse non li avrei proprio. Tu mi parli di routine, e hai ragione. È una componente importante del mio lavoro, che personalmente non temo, anzi, tento di usare a vantaggio della mia musica. Quando sei in giro per mesi, ti capita di non avere un minuto di tempo né per scrivere né per strimpellare in santa pace. Il momento del concerto ti prende così tanto, sia in termini emotivi che di tempo dedicato all’allestimento dello show, che ti senti come in letargo. Naturalmente si tratta solo di un letargo compositivo, perché in tour non devi fermarti un attimo. Insomma, credo che la routine congeli le esperienze che faccio in giro. Poi quando torno a casa e ho il tempo di fare un po’ di ordine mi capita di rivivere quel che mi è successo. Solo allora musica e parole vengono fuori naturali e mi metto a scrivere».
Come le succede di scrivere una canzone?
«Ogni brano ha una sua storia. È difficile dire in generale come succede che ti siedi, nella veranda di casa e becchi il riff giusto. Più facile, forse, è ricordare il numero di birre che ci si scolava io e Allen (Woody, nda) nelle lunghe serate trascorse in studio di registrazione. Facile è anche ricordare quel mix di onnipotenza, e subito dopo frustrazione, che provai a 12 anni quando misi le mani sulla mia prima chitarra. Era un’acustica da pochi dollari, ma ricordo che tornavo da scuola e non volevo fare altro che accendere il giradischi per emulare quel che avevo sentito con voce e chitarra. I miei miti all’inizio erano i grandi della black music come James Brown e soprattutto Wilson Pickett, poi è arrivato il blues e mi si è aperto un mondo. Sentivo The Thrill Is Gone di B.B. King e mi veniva la pelle d’oca. Sentivo John Lee Hooker e capivo che la mia strada sarebbe stata segnata dal blues».
In particolare, però, quando si trova a comporre una nuova canzone, da dove parte?
«In realtà non c’è una regola precisa. In passato ricordo che partivo da un’idea di melodia e poi cercavo le parole che il più possibile si avvicinassero all’emozione musicale che avevo in testa. Oggi vedo che tendo sempre più a partire dalle liriche, per poi aggiungere la musica, passo dopo passo. Se devo dirla tutta, penso che sia meglio quest’ultimo metodo. Le parole sono più precise della musica e mi servono per costruire le fondamenta della canzone. Quando compongo un pezzo principalmente strumentale come Inside Outside Woman lavoro molto sugli assoli. Considero l’assolo una piccola storia, che deve appassionarti e appassionare. Come in una storia deve esserci un’introduzione, in cui spieghi più o meno di che cosa parlerai, uno svolgimento, in cui concentri tutto il senso che vuoi metterci, e una conclusione in cui tiri le somme di quello che hai detto e trovi il tempo di festeggiare con qualche fuoco d’artificio».
Concentriamoci un attimo su By A Thread, il primo album dei Gov’t Mule dal 2006…
«È un disco che ho fortemente voluto fare. Dal 2006 è passato parecchio tempo e sono successe tante cose. Mi sembrava giusto sancire questi cambiamenti con un disco. Il titolo, prima di tutto: mi sento appeso a un filo, adesso ti spiego il perché. Obama ha realmente portato una nuova e vera speranza. Una speranza che però è una luce fioca, in un periodo di grandi tenebre. Il mio paese esce da anni di grande paura, che George W. Bush ha incarnato alla perfezione. Temo però che la sua uscita di scena non sia coincisa con la fine di un certo modo di fare politica. In questo senso il termine thread può essere inteso anche come cappio, a cui alcuni uomini accecati dal potere e dall’avidità vorrebbero appendere la speranza, per tornare a fare paura con la falsità e le bugie».
Da quando ha cominciato l’avventura coi Gov’t Mule sono ormai passati quindici anni, in cui lei ha conosciuto alcuni fra i più grandi musicisti del mondo. Chi fra questi ricorda più volentieri? Con chi invece sogna di poter condividere il palco, un giorno?
«Se penso che in questi quindici anni ho suonato con John Lee Hooker, Bob Dylan, Willie Dixon, Eric Clapton e Stevie Winwood, non posso che constatare, ancora una volta, quanto sia fortunato. Quando Eric accende l’amplificatore della sua Stratocaster, tu capisci che sei chiamato a non deluderlo. Capisci che la bellezza della musica, del blues e del rock sta nella condivisione di ideali, nell’esaltazione della stessa passione. Sogno di suonare con Jimi Hendrix: un sogno destinato a restare tale. Seriamente, invece, ci sono artisti che stimo e che vorrei coinvolgere in qualche progetto. Quattro nomi: B.B. King, Jeff Beck, Jimmy Page e Carlos Santana».
Lei non ha mai fatto mistero del grande vuoto creato nella sua vita dalla scomparsa di Allen Woody. Che bilancio può trarre dall’esperienza dei Gov’t Mule a quasi dieci anni dalla morte di uno dei suoi leader e fondatori?
«Allen era un amico. Perderlo è stato un po’ come svegliarsi senza un pezzo di vita. Per lungo tempo ho pensato di smettere, perché sentivo che non avrei mai più potuto suonare come prima. Devo dire che se non ci fossero stati degli amici a sostenermi forse, alla fine, avrei smesso davvero. Ho in mente soprattutto alcune telefonate inaspettate che mi hanno fatto capire che il miglior modo per ricordare Allen e reagire al dolore era di continuare a far musica. Me lo ha ripetuto Gregg Allman, che si era già trovato nella mia situazione. Ma ho parlato a lungo anche con Dave Grohl, per il quale perdere Kurt Cobain è stato molto più doloroso di quanto comunemente si pensi. Tornando ai Gov’t Mule, credo che oggi suoniamo in maniera molto diversa da quando abbiamo iniziato con questa avventura. Che io e il mio stile cambiamo nel tempo, lo osservo anche quando suono nella Allman Brothers Band o nei Grateful Dead, ma per i Gov’t Mule è diverso. Io e i ragazzi suoniamo oggi con una consapevolezza e un feeling che non credevo avremmo mai raggiunto. Vogliamo sempre migliorarci e cogliere tutte le opportunità, senza dimenticare che tutto nella vita è appeso a un filo».

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