11/05/2007

West Coast Hotel

Si chiama Laurel Canyon ed è, ancora oggi, una tranquilla area residenziale, abitata prevalentemente da medici, avvocati, architetti e designer, immersa nel verde delle colline losangeline; vicina all’eccitante vita notturna del Sunset Strip, non lontana dai più opulenti canyon di Beverly Hills o Bel Air e nemmeno tanto distante da quelli più “alternativi” di Topanga e Malibu. Alla fine degli anni 60, però, il “canyon dell’alloro” ospitava una piccola comunità artistica popolata da musicisti e pittori, poeti e attori, registi, scultori, scrittori, artisti in genere e da una moltitudine di soggetti curiosi e pittoreschi. Dalla maestosa villa del mago Houdini al piccolo rifugio di tronchi d’albero abitato da Frank Zappa, il Laurel Canyon pullulava di abitazioni dalle storie e dalle fogge tanto originali quanto la personalità dei suoi abitanti.

Trasformatosi, in breve tempo, nella più credibile ed efficace risposta del Southern California alla rivoluzione floreal psichedelica di Haight-Ashbury a San Francisco, il Laurel Canyon è diventato subito dopo la palestra di un manipolo di cantautori romantici ma socialmente impegnati, intimisti, raffinati, ecologisti, straordinariamente ispirati. Che, di fatto, hanno inventato un genere musicale capace di incarnare perfettamente lo spirito dell’epoca, di trasmettere le “buone vibrazioni” di quelle menti illuminate, di trasformare in suoni le visioni, il clima e le atmosfere di una terra da sogno. Tanto che la musica scritta e cantata da Joni Mitchell, Crosby, Stills & Nash, Mama Cass, Jackson Browne, Bonnie Raitt, Eagles e dagli altri fortunati abitanti del Canyon è presto divenuta nota come West Coast. Una musica fascinosa e accattivante, suggestiva e ammaliante che ha stregato centinaia di milioni di giovani in America e nel mondo. Una musica che è giunta in Italia nei primissimi anni 70 grazie all’intuizione di qualche negoziante che importava direttamente dagli States i dischi di quegli eroi straordinari.

Tra i tanti folgorati “sulle vie della California”, c’era un ragazzo milanese che si era appassionato al rock grazie ai dischi del fratello. “Ma appena i miei genitori mi hanno regalato una chitarra” ricorda “ho provato subito a scrivere una canzone”.

Max Meazza, 54 anni compiuti meno di un mese fa, confessa che la sua vita “è cambiata all’ascolto dei primi dischi di CSN, Eagles, America e Joni Mitchell: da quel momento ho capito che, qualunque cosa mi fosse successa, la musica che volevo suonare sarebbe stata quella lì”. Incoraggiato dai fratelli La Bionda (discografici e producer di grido) Meazza mette in piedi un trio (Pueblo) insieme a Fabio Spruzzola e al già allora rinomato chitarrista Claudio Bazzari. I tre vanno addirittura a Londra a incidere per la Apple. La loro musica, scritta da Max, funziona. E i Pueblo vengono lanciati come la versione nostrana degli America incassando critiche positive dalla stampa specializzata e ricevendo le attenzioni delle radio private dell’epoca.

Siamo nel 1975.

“Ero giovane e un po’ arrogante” ammette Meazza con onestà e spirito autocritico “non accettavo i consigli dei discografici e volevo agire di testa mia. Tutti mi dicevano di fare i pezzi in italiano. E di scrivere cose più commerciali. Ma io non davo retta a nessuno. Ho provato anche un esperimento in tal senso dopo aver lasciato i Pueblo. Ma non era quello che volevo fare”.

E così, Max, nei primi anni 80, decide di alternare un “lavoro normale” alla sua passione per la musica, “senza però rinunciare a scrivere canzoni e a produrre album in modo indipendente, registrando insieme ai migliori turnisti milanesi, pubblicandoli e distribuendoli grazie a Franco Ratti e all’interesse di un pubblico (che spesso travalicava i confini nostrani) che aveva cominciato ad apprezzare la mia musica”. Uno dopo l’altro, Meazza sforna tre album su etichetta Appaloosa e poi altri tre sulla sua Solid Air. Le sue canzoni sono delicate, soffici, raffinate. Max non nasconde i suoi amori artistici: i grandi eroi del Laurel Canyon, il songwriting poetico e musicalmente ricercato di James Taylor, le raffinate soluzioni della California jazzy dei 70’s, quella, per intenderci, di Steely Dan, Toto, Doobie Brothers, Michael Franks, Kenny Loggins e di altre legioni di musicisti eleganti, a volte perfino troppo patinati. Purtroppo per lui, quella musica in Italia non ha mai avuto un seguito consistente. Nemmeno ai tempi d’oro, figuriamoci oggi. Eppure Max non demorde. E, sfidando l’endemica timidezza e la naturale ritrosia nell’esporsi pubblicamente, continua a perseguire il grande sogno.

“Ho lavorato per mesi a un nuovo progetto che sintetizza passato e presente. L’ho chiamato West Coast Hotel e sono riuscito a distribuirlo in diversi siti web americani e giapponesi di appassionati di musica californiana. Ci sono brani dei primi dischi, completamente rifatti, e pezzi nuovi. Lucio Bardi mi ha aiutato moltissimo e con lui Massimo Spinosa, da anni al mio fianco. Insieme a loro, la crema degli strumentisti rock di Milano: Walter Calloni, Massimo Colombo, Claudio Bazzari più qualche special guest come Tolo Marton, Paolo Fresu, Tiziana Ghiglioni, Susy Wong”.

Se non conoscessi Max da quasi 30 anni, ascoltando alcune tracce di West Coast Hotel potrei scambiarle per quelle di un disco “di quelli veri”. Ispirato e curatissimo, l’album contiene tante belle canzoni che davvero colgono lo spirito di David Crosby e degli altri geniali inventori del sound West Coast. Andate a curiosare nel sito ufficiale di Meazza (www.maxmeazza.com) per scoprire maggiori informazioni su questo album e sugli altri suoi lavori nonché tutte le indicazioni per potere ascoltare e acquistare la sua musica. Che, incrociando le dita, pare proprio che tornerà presto in versione live, a oltre 30 anni di distanza dagli esordi; perché “il sogno non muore mai” e, forse, anche perché, la strada milanese a fianco di quella in cui abita Max si chiama Via California. Crederete mica si tratti solo di coincidenza, no?

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