11/05/2007

White Stripes

In fuga dal demonio

Mick Jagger è sulla banchina della stazione di Dartford. Ha con sé due 33 giri che non si trovano facilmente in Inghilterra e nel 1960: Rockin’ At The Hops di Chuck Berry e The Best Of Muddy Waters. Li porta sotto braccio con aria fiera, quasi un distintivo di splendida diversità. Si gira e vede un altro giovinastro in tutto e per tutto uguale a lui. È un amico d’infanzia che si chiama Keith Richards e che non incontra da anni. Parlando della comune passione per il blues e per il rock’n’roll, i due salgono sul treno che li porterà a scuola e verso una vita diversa.

Pochi metri più in là sulla medesima banchina, un tipo che assomiglia in tutto e per tutto a Jack White osserva la scena. S’è fatto crescere un paio di baffetti da signorotto, l’espressione è celata da un cappello nero. Sotto il braccio destro reca con sé la copia d’un disco del bluesman Son House. Col pollice sinistro alza leggermente il cappello. Un ghigno compiaciuto gli solca il viso.

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Se c’è un diavolo sulle tracce di Jack White, come lascia intendere il titolo del quinto album dei White Stripes Get Behind Me Satan, allora dev’essere un diavolo vecchio stile, di quelli che negli anni 20 perseguitavano i bluesmen afroamericani. Uno di quelli che offre danaro e fama in cambio dell’anima o, più prosaicamente, di alcuni compromessi. Ma Jack è un tipo che ama fare le cose a modo suo. S’è dato delle regole e le segue. Senza regole, dice, non ci sono restrizioni. E senza restrizioni non c’è bellezza. Oggi tira fuori un disco in cui azzera la storia del gruppo, un disco nei cui testi si combatte una guerra vecchia come il blues tra virtù e compromesso. Un disco in cui la chitarra elettrica Airline del ’64, finora feticcio irrinunciabile di qualunque album dei White Stripes, viene messa da parte per 10 brani su 13. Un disco strambo e bellissimo, inciso a tempo record come si faceva quarant’anni fa. Un disco che lascia il diavolo due passi indietro, mentre arranca col fiato corto sventagliando un contratto come un venditore di polizze assicurative il giorno prima della pensione.

Get Behind Me Satan è il primo lavoro dei White Stripes a tradire platealmente la formula chitarra-elettrica-più-batteria-e-niente-altro tipica del duo di Detroit composto da Jack con la (sedicente) sorella e batterista Meg. L’album è, nelle parole del musicista, “il più catartico che abbia fatto in vita mia” ma anche “il più maledetto: le apparecchiature di registrazione continuavano a rompersi, scendeva acqua dal soffitto, andava tutto storto”. Meg: “Secondo una leggenda, un demone perseguita Detroit. Ci sarebbe lui dietro ogni disastro che accade in città. L’ultima volta è stato visto girare in Cadillac”. Forse quella Cadillac s’è fermata davanti a casa White.

Il nuovo album è nelle parole del chitarrista “un’esplorazione dei caratteri e dell’idea della verità” e sembra illustrare i conflitti tra integrità e compromesso, fedeltà e tradimento, calore umano e solitudine. È influenzato da quel che accadeva attorno a Jack White, che da chitarrista dal facciotto rotondo emerso dalla scena garage di Detroit s’è trasformato in una delle icone rock più celebrate degli anni Duemila. Esposto alle attenzioni non richieste di chi ha cercato di sfruttarlo per guadagnare visibilità, Jack s’è sentito tradito. Anche dagli amici come Jason Stollsteimer dei Von Bondies, col quale s’è scazzottato nel 2003 e che secondo White, “l’ha fatto per far pubblicità all’uscita dell’album del suo gruppo: ha usato la nostra amicizia per accoltellarci alle spalle”. Dalle pagine del sito ufficiale whitestripes.com, Jack ha inoltre ammonito i fan a non leggere i libri che sono stati scritti sui White Stripes, che lui e Meg – così scrive il cantante – sono soliti leggere dopo il tè del sabato pomeriggio. “Non comprateli, sono tutti orrendi, ma state lontani specialmente da Fell In Love With A Band di Chris Handyside” che definisce un altro dei vecchi amici di Detroit che hanno tentato di capitalizzare l’amicizia con lui.

Forse non a caso, la ricerca dell’onestà quale valore cardine del far musica attraverso un’estetica volutamente infantile lascia posto in Get Behind Me Satan a immagini di dubbio e conflitto. È il disco della maturità, ma di una maturità acquisita a caro prezzo. I Nonostante oggi Jack ribadisca che “non scrivo di me stesso o dei miei amici”, c’è qualcosa di insolitamente personale in una nuova canzone intitolata Take, Take, Take che stigmatizza il meccanismo tipico del divismo secondo cui i fan vogliono – e a volte esigono – un pezzo sempre più grande del loro idolo. Il brano è scritto dal punto di vista di un fan che si trova in un bar e improvvisamente vede entrare la diva del cinema anni 40 Rita Hayworth, una delle ossessioni di White nella vita reale. “Odio disturbarla, signora, ma potrei avere un autografo?” dice il testo. Il fan non si accontenta e le chiede di posare con lui per una fotografia. Poi, quando la diva si dice stanca e lascia il locale per andare a letto, lui s’arrabbia: “È come se non avesse apprezzato quanto amabile ero stato con lei. Non è giusto, volevo una ciocca dei suoi capelli, non avevo bisogno d’altro, o forse di un bacio sulla guancia (.) Non le importava nemmeno che fossi lì” conclude la canzone “che sensazione orribile”.

Mentre lavorava all’album nella mente di Jack s’affollavano immagini d’ogni tipo. È stato solo dopo avere pensato a Rita Hayworth – ha dichiarato il musicista al Los Angeles Times – che tutto ha avuto un senso. “Era una bellezza, una dea dell’amore. I capelli rossi, l’innocenza, il fatto che perse la memoria a causa dell’Alzheimer. Era una pin up, ma ho sentito che non le importava delle foto che le scattavano”. Era, in altre parole, una figura in cui s’intrecciavano concetti d’integrità e candore all’interno di un sistema, quello delle celebrità, che oggigiorno rende ogni cosa triviale: “Una volta c’erano i Frank Sinatra e le Patti Page. Oggi abbiamo Paris Hilton e Ashlee Simpson. Non c’è più dignità”.

Dignità e tradimento. Viene in mente The Nurse, un nuovo brano sperimentale basato sul suono della marimba nel quale Jack rievoca il mondo dell’infanzia che ha fatto spesso capolino nei suoi dischi. Solo che questa volta lo fa con toni sinistri: “La balia non dovrebbe essere quella che ti mette il sale sulle ferite, ma è sempre grazie alla fiducia che riescono a metterti in bocca un cucchiaio pieno di veleno”.

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È da un’ora che Jimmy Page sta armeggiando sulla chitarra acustica senza cavarne nulla di buono. Vuole inserire un brano folk nel terzo disco del suo gruppo, ma non ne trova uno adatto. Un tizio che assomiglia in tutto e per tutto a Jack White e che ha in testa un cappello nero ha osservato per tutto il tempo la scena. Non chiedetegli perché diavolo si trovi in uno sperduto villaggio sulle montagne del Galles: non vi risponderebbe. Page si volta e finalmente lo vede. “Prova Gallows Pole” gli dice Jack, come se la sua presenza fosse un fatto normalissimo. “L’ha trovata Meg in un disco di Fred Gerlach che era chiuso in un baule di casa”. Page fruga nella mente alla ricerca della canzone: ma certo, Gallows Pole, ottima idea. Si piega sulla chitarra e inizia a suonare. Pare funzioni. Alza lo sguardo e il sorriso compiaciuto si trasforma in un’espressione di muto stupore: il tizio col cappello è letteralmente svanito nel nulla.

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Il quarto disco dei White Stripes Elephant ha venduto dal 2003 ad oggi oltre quattro milioni di copie nel mondo. Per quanti soldi Jack abbia guadagnato dall’album e dal tour che ne è seguito, di certo non li ha investiti nella registrazione del nuovo album. Get Behind Me Satan è stato inciso in soli dieci giorni nello studio casalingo del chitarrista a Detroit ed è costato meno di 10mila dollari. “Un nomale studio di registrazione avrebbe ammazzato l’album” ha detto White. Per questo motivo l’ha inciso come si faceva una volta – e come continua a fare dagli esordi dei White Stripes – vale a dire su un 8 piste e producendosi in pochissime take: “La gente non aveva soldi a sufficienza per fare più di una o due take, perciò metteva tutto quel che aveva in ognuna di esse. Ecco perché quei dischi possedevano quel tipo di urgenza. Sembrava una questione di vita o di morte per il cantante”.

Il disco è inciso su nastro dallo stesso White (un Grammy per la produzione di Van Lear Rose di Loretta Lynn), che ha usato il fonico dei concerti Matthew Kettle “per non dover discutere con ingegneri del suono sull’opportunità di usare questo o quel computer per semplificare le registrazioni”. Niente tecnologia digitale: i nastri sono stati tagliati con una lametta da barba. Come ha scritto qualcuno, c’è una “essenza vinilitica” nelle canzoni del duo.

Il rocker non ha rinunziato allo stile essenziale e scarno che da sempre ne rappresenta la cifra stilistica, ma l’ha trasformato grazie all’utilizzo di nuovi strumenti guida come il pianoforte (uno Steinway affittato), la marimba (“L’ho trovata scontata, anche se in verità cercavo un vibrafono”) e la chitarra acustica. Scopo: esaltare l’espressività, aspetto da sempre preponderante nella musica del duo.

Stilisticamente parlando, Get Behind Me Satan è un disco più complesso e maturo dei precedenti. Se Elephant era un 33 giri del 1963 fatto e finito, anche per la scelta di usare apparecchiature risalenti a quell’epoca, Get Behind Me Satan ha un suono da 1968. “L’estetica, i metodi e la strumentazione che utilizziamo sono sempre stati volutamente restrittivi” ha detto White alla vigilia della pubblicazione del cd. “Per noi sarebbe ridicolo utilizzare adesso un’orchestra. La gente vorrebbe che lo facessimo perché sarebbe la strada più semplice da imboccare. Penso sia più difficile continuare a lavorare entro i limiti che mi sono dato”. Secondo il chitarrista, infatti, solo sottoponendosi a regole ben precise si può creare grande musica: “La bellezza nasce dalle limitazioni” ha detto enunciando uno dei teoremi fondamentali della musica dei White Stripes. Che non a caso hanno dedicato il secondo album De Stijl al movimento artistico olandese che intendeva fare arte utilizzando solo colori primari e linee essenziali. “È la nostra stessa sfida: semplificare la musica cercando però di continuare ad essere profondi e dare emozioni”.

È la lotta per ottenere di più con meno che, secondo White, dà vita ai dischi meglio riusciti. Tale ritorno all’essenzialità ha a che fare naturalmente con la passione del chitarrista per il blues, il bluegrass e la musica country, sinonimi per lui di onestà (altra parola chiave).

Insomma, nella musica dei White Stripes il blues è il nuovo punk. Mentre i coetanei di Jack (oggi trentenne) inseguivano nuovi trend nel tentativo di agguantare scampoli di popolarità, lui fuggiva dalla volgarità e dall’inconsistenza dell’industria dell’intrattenimento rifugiandosi in un mondo senza tempo popolato da Loretta Lynn e Robert Johnson, Son House e Led Zeppelin, Hank Williams e Rita Hayworth. Dietro l’iconoclasta si nasconde un tradizionalista. In quanto al rudimentale stile di Meg alla batteria, secondo Jack è perfetto perché “apporta un elemento quasi infantile alla musica, un’innocenza che calza alla perfezione a quel che facciamo”.

Il pregio dei White Stripes è, in definitiva, anche il loro limite. Sono lì, sulla soglia del cenacolo che raccoglie i grandi del rock, ma non possono entrarci: non ne hanno la statura, né il sacro fuoco dell’invenzione. Spiano dal buco della serratura e rifanno a modo loro quel che vedono. Hanno il talento necessario per far sì che i loro dischi non siano una collezione di stili altrui, come quelli del loro fan Ryan Adams, ma abbiano una personalità indiscutibilmente unica. Proprio perché profondamente radicati nel terreno che negli anni 60 diede vita al rock come lo conosciamo, i White Stripes sono icone di questo tempo post post moderno in cui gli stili non si susseguono più uno dopo l’altro, ma dove tutto accade contemporaneamente. Se, in mancanza di una nuova e radicale rivoluzione rock, il presente è un eterno ritorno del passato, Jack e Meg sono una possibile rappresentazione della modernità. Il che è un paradosso per due tizi che sembrano usciti da una puntata anni 70 di Austin City Limits.

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L’uomo che gironzola per le vie di Knoxville, Tennessee, ha prenotato una camera all’Andrew Johnson Hotel a nome Mr. White. Non ha nessuna voglia di festeggiare il capodanno del 1953: sta per succedere qualcosa di terribile e in ogni caso laggiù lo champagne è fuori legge. Chi lo vedesse vagare da solo la sera dell’ultimo dell’anno penserebbe a uno sbandato senza meta, ma Jack un appuntamento ce l’ha. Getta per terra la cicca della sigaretta che ha fumato e svolta su Gay Street, dove gli passa accanto una Cadillac blu con a bordo Hank Williams. È come una scena al rallentatore. È irreale. Jack intravede per un attimo il passeggero sul sedile posteriore. È come se la morte gli avesse accarezzato la spalla. Accende un’altra sigaretta. A pochi passi un ragazzo fa scoppiare un petardo. Jack nemmeno lo sente. Sta canticchiando tra sé “The silence of a falling star lights up a purple sky…”.

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Jack White è uno che suona una chitarra elettrica del 1964, guida una Thunderbird di cinquant’anni fa, abita in una casa d’inizio Novecento che ha riempito di mobili anni 50, veste giacche da vecchia star della musica country. Canta di valori fuori moda come l’onestà e la rettitudine. Piange la fine del romanticismo. È un tipo sfuggente e un alone d’incertezza circonda in particolare il rapporto tra Jack e Meg. Loro affermano d’essere fratello e sorella, ma a quanto pare – e stando a documenti pubblicati quattro anni fa da Free Detroit Press – sono stati marito e moglie dal 1996 al 2000. Alcuni hanno interpretato la faccenda come un’astuta manovra mediatica per farsi strada su giornali e tv. E invece, a ben vedere, questa situazione d’incertezza ha qualcosa d’antico. Quanto sappiamo dell’infanzia o della vita dei grandi bluesmen? Le loro storie personali si perdono in un tempo in cui non esisteva la piatta volgarità dei fatti biografici e tale vuoto veniva colmato dal mito. Lo sapeva Bob Dylan, che quando esordì prese a raccontare un mucchio di fandonie sul proprio passato. E forse lo sa bene anche Jack White. In un passato mitico dove i Rolling Stones suonano con Robert Johnson ed Hank Williams è ancora vivo, dove Jack può addirittura suggerire a Jimmy Page quale canzone suonare, i White Stripes possono essere fratelli e al contempo amanti.

In quanto alla copertura mediatica, oggi i White Stripes sembrano intenzionati a nascondersi, almeno per un po’. Hanno deciso di non accompagnare Get Behind Me Satan con una poderosa campagna pubblicitaria. “Il mio atteggiamento” ha detto Jack a Brian Garrity di Billboard.com, “è questo: limitiamoci a suonare dal vivo e pubblicare il disco. Fine della storia”. Che la musica faccia il suo corso, è il motto scelto dal manager del duo per spiegare che questa volta Jack e Meg non rilasceranno molte interviste alla stampa. Al posto di lanciare l’album con un tour nordamericano o inglese, il gruppo ha inoltre scelto di esibirsi in Centro e Sud America davanti a un pubblico digiuno di loro esibizioni. “Volevo andare a suonare in luoghi dove non eravamo mai stati prima” ha detto White “in modo da sentire le sensazioni di tanti anni fa, quando ancora salivamo sul palco e dovevamo provare qualcosa a noi stessi”. Mentre si trovava in Sud America, Jack si è sposato a sorpresa con Karen Elson, modella inglese col pallino per la musica (appare anche nel video di Blue Orchid). La cerimonia ha avuto luogo il 1° giugno sul Rio delle Amazzoni. È stata officiata da uno sciamano alla presenza del manager e testimone Ian Montone e di Meg. L’unione è stata poi benedetta da un prete cattolico nella cattedrale di Manaus.

Concluso il ramo “esotico” del tour, il gruppo si è trasferito in Europa dell’Est, battendo Stati solitamente esclusi dalle tournée degli artisti angloamericani. Ad accezione di pochissime date estive, tra cui un’apparizione al festival di Glastonbury in Inghilterra, il duo suonerà in Europa e Stati Uniti solo in autunno. Nel 2006, infine, sarà pubblicato il disco dei Raconteurs, band formata da White col cantautore rock Brendan Benson.

In quanto ai White Stripes, Jack afferma che “sarei stupito se esistessero ancora tra una decina d’anni. Il rock’n’roll è roba per giovani. E poi ho tante altre cose per la testa: il blues, il bluegrass, il country”. Forse troverà nuove modalità d’espressione che andranno oltre il decalogo di essenzialità che s’è dato. Ma crediamo che continuerà a porsi la domanda chiave: che cosa volevo quando ho iniziato a fare musica? “È stata la musica” ha recentemente dichiarato al Los Angeles Times “a darmi una ragione per andare in giro a testa alta quando nient’altro me la forniva, e questo è importante. Nulla, nemmeno vendere più copie o avere la faccia su più riviste, vale quanto la possibilità di andare in giro a testa alta”.

Perché, afferma Jack White, avere successo significa fare quello che ami senza che nessuno ci metta il becco.

Nemmeno il diavolo.

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