25/11/2009

YES

Milano, Teatro degli Arcimboldi 6 novembre 2009

Come scrive acutamente il giornalista britannico Chris Welch nella sua biografia degli Yes Close To The Edge (in Italia è uscita per Stampa Alternativa con il titolo di Fragile. La storia degli Yes) quella della creatura di Chris Squire è sempre stata una vicenda di compromessi, atteggiamenti radicali e scelte dolorose (talvolta pure vigliacche) espletate esclusivamente per arrivare alla perfezione assoluta. L’utopia Yes, infatti, è materia contorta che ancora oggi fa scervellare i musicologi (la domanda delle domande è sempre stata: ma in definitiva che genere suonano gli autori di Fragile?) e fremere i fan ortodossi – quelli che li seguono fin dai tempi di Yes, il debut album del ‘69 con ancora Peter Banks alla chitarra e Tony Kaye alle tastiere – messi alle strette da repentini, frequenti e talvolta inspiegabili cambi di formazione. Come in occasione del recente concerto di Milano e di tutto il controverso tour del quarantennale. La storia la conoscete tutti: fuori Jon Anderson e Rick Wakeman e dentro il cantante canadese Benoit David (già voce della cover band Close To The Edge) ed Oliver Wakeman, il figlio trentasettenne del celebre “mago” delle tastiere. Disastro annunciato? Baratro finalmente raggiunto? Funerale più volte rimandato (d’altronde se ne parla fin da Tormato) e una volta per tutte celebrato tra fischi e lanci di verdura? Calma… La band vista in scena agli Arcimboldi, infatti, graffia e scalcia ancora, sia che si tratti di riproporre l’ovvio (I’ve Seen All Good People sempre da pelle d’oca con quel crescendo da Crosby, Stills & Nash venuti al mondo nel regno d’Albione) che il meno ovvio (la struggente ballad sinfonica Onward: ma quanto bella è?) passando per la bestemmia finalmente accettata dal clero più Howe-dipendente (Tempus Fugit e Machine Messiah, entrambe tratte da quel Drama che fu massacrato a più non posso nel lontano 1980) e l’inevitabile magniloquenza da gruppo realmente di un altro pianeta (Siberian Khatru, Astral Traveller, Heart Of The Sunrise). E i nuovi arrivati? Beh, Benoit ha “andersoneggiato” a dovere (tamburello compreso) nonostante sembrava cantasse di fronte a un plotone d’esecuzione, mentre Oliver ha fatto tutto il contrario del suo estroverso papà comportandosi da comparsa in grado però di fare buon gioco di squadra. Al tirare delle somme, quindi, i vincitori di una serata al confine tra nostalgia, bizzarria (ma serviva proprio inserire Owner Of A Lonely Heart dentro una scaletta per intenditori?) e mestiere sono stati Chris Squire (sempre imponente e voluminoso, esattamente come il suono del suo basso), Alan White (una sicurezza dietro le pelli) e un certo Steve Howe, più spiritato ora che ai tempi di Tales From Topographic Oceans e beatamente perso tra le sue svariate chitarre. Questi, in pratica, sono gli Yes del 2009: una balena che pensavamo ferita a morte e che invece ci ha spruzzato acqua in viso al ritmo dell’eterna Roundabout eseguita come gran finale quando ormai tutto il teatro era in piedi festante. Franz Di Cioccio (PFM) compreso.

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