04/01/2011

THE DECEMBERISTS

THE KING IS DEAD (CAPITOL / EMI)

Il re è morto, viva il re. A Colin Meloy proprio non andava giù l’idea di fare un altro The Hazards Of Love o un altro The Crane Wife. Comprensibile: quanto possono reggere le energie compositive di un songwriter e di una band a suon di concept strutturalmente elaborati, narrativamente colti e complessi, musicalmente non meno che avventurosi? Rischi sul serio di trasformarti nella parodia di uno di quei gruppi progressive di fine anni 70, meglio di no. Ed è a questo punto che ti ricordi di quelle canzoni semplici, essenziali e perfette che avevi sentito un tempo alla radio, 2 o 3 minuti di onde sonore in grado di sconvolgere un’intera esistenza. Quanti 45 giri deve aver divorato da ragazzo il nostro Colin, oltre ai quintali di carta stampata che ben sappiamo? Non pochi, a giudicare da come ogni singolo brano qui sia perfettamente calibrato, anche nel formato small. E dopotutto non deve aver sentito solo roba made in Uk, nonostante le scorribande brit-folk dell’album precedente (che ancora affiorano qua e là) e il palese richiamo agli Smiths – l’ennesimo – di The Queen Is Dead, cui il titolo ammicca sornione. Bene, togliamoci subito il pensiero: The King Is Dead è il miglior disco dei Decemberists dai tempi di… Out Of Time. Sì, avete letto bene. E no, non stiamo facendo della – ehm – velata ironia sulle smaccate assonanze R.E.M. degli episodi principali; d’altronde, con Peter Buck ben presente in alcuni dei momenti chiave della scaletta, non avrebbe potuto essere altrimenti. Come nel ’91 quell’album lanciava in orbita il combo di Stipe e soci gettando un ponte tra rock indipendente e tradizione americana, così questo proietta i cinque di Portland definitivamente tra i nomi importanti, collegandoli al glorioso passato della musica a stelle e strisce senza snaturarne le radici indie o alterarne la peculiare identità. Nel ricercare quell’immediata semplicità di cui la sua musica aveva bisogno, Meloy ha infatti finito per dar vita a un disco fieramente folk-rock, fatto di canzoni che se già al primo ascolto suonano familiari, al secondo ti sembra di conoscere da sempre. È un pregio enorme, se pensiamo all’enorme massa di informazioni – musicali e non – che transitano in grande quantità nei nostri sistemi senza lasciare alcuna traccia. Non che la discografia dei Decemberists sia stata sinora parca di grandi pezzi: basti pensare all’omaggio dell’altra protagonista del nostro inizio 2011, Marianne Faithfull, che ha ripreso The Crane Wife 2 nel suo precedente Easy Come Easy Go; eppure, a fronte di una produzione discografica che si è subito distinta per ricchezza e ambizione (questo è già il sesto album, in meno di dieci anni), mancava ancora un lavoro immediato, diretto e conciso come questo. Nessuna intricata storia da seguire, né personaggi a cui dare voce: solo 10 brevi bozzetti autonomi, ispirati direttamente dall’immaginario rurale americano; come se dal poema epico si fosse passati alla novella, o meglio al racconto folcloristico; dal canto suo, l’acuta penna di Colin non ha affatto rinunciato ai propri vezzi letterari (sempre con quel pizzico di pedanteria: chi altri oggi, ad esempio, userebbe «strata» al posto del più comune «layers»?).
Ad ogni modo, The King Is Dead mostra la propria innegabile forza e coesione in virtù di un’identità poetica e stilistica ormai del tutto solida, a prescindere da ascendenze più o meno consapevoli o ricercate. E così l’iniziale Don’t Carry It All sembra quasi riprendere dal finale epico e malinconico di The Hazards Of Love, acquistando altresì l’incedere solenne dei migliori Arcade Fire per una ballata che riprende un topos del folk statunitense, ovvero la condivisione del fardello («Lascia cadere il giogo dalle tue spalle / Non portarlo da solo, no») in uno spirito solidale e comunitario. E se già sin dall’incipit di Calamity Of Song sembra di ascoltare un’outtake di Murmur (il testo, piuttosto criptico, appare affine a quello filo-nativo ed ecologista di Cuyahoga), in Rox In The Box affiora lo spirito infuocato che animava le band del movimento no depression, nella ripresa di una nenia ancestrale proveniente da chissà quale meandro dell’inesauribile tradizione. Stessa sensazione che si ha nell’ascoltare January Hymn, mentre in Rise To Me il tiro si alza verso astri della caratura di The Band e Neil Young, dove il singolo Down By The Water è la migliore riscrittura di The One I Love che si possa immaginare (non fosse altro per gli splendidi controcanti di Gillian Welch, altra superospite eccellente nonché vero asso nella manica di tutto il disco). Tra sentori di Uncle Tupelo (All Arise), immancabile Dylan (June Hymn) e Smiths (la Rickenbacker di This Is Why We Fight) si arriva infine a Dear Avery, ballad che da gotica si apre alla solarità della California di Linda Ronstadt e dei Fleetwood Mac.
Sapete, in definitiva, che suono ha The King Is Dead? Quello dell’inevitabile e meritato passaggio di testimone da una generazione all’altra di grande rock americano.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!