24/11/2017

Welcome Eclektric Jazz: groove e consapevolezza per Attilio Pisarri

Eclettico ed elettrico, il musicista veneto al suo esordio in Naked Tapes con ‘Elektroshot’
Jazz, filosofia, Venezia. Viene in mente subito Massimo Donà, eppure c’è anche Attilio Pisarri. Uomo di musica, di parole, idee e concetti; chitarrista guidato da una profonda consapevolezza del suo progetto, come dimostra la sua ultima fatica Elektroshot in casa Naked Tapes, divisione di Nau Music Company nella quale tutto è concentrato intorno al suono. Eclettico ed elettrico…
 
Un tempo, per un lavoro come Elektroshot la critica avrebbe facilmente tirato fuori la parola magica “jazz-rock”. Ritieni sia adatta per dare un’idea della tua musica?
 

La risposta alla domanda è in parte contenuta nell’adesione al progetto di Naked Tapes, che punta su lavori di difficile classificazione. Ritengo che oggi il problema delle “etichettature” sia davvero un falso problema, tante e tali sono le contaminazioni in ogni ambito musicale; la “definizione” di un disco è solo il residuo di un bisogno latente di orientamento nel mondo, una richiesta di senso nell’incertezza di senso generale. Ma il carattere processuale e temporale dell’accadimento musicale tende di per sé a sfuggire l’atto “definitorio”; detto questo, che Elektroshot possa esser definito quindi un disco “jazz-rock” mi può anche andar bene, a patto che ci si intenda su un paio di cose. Il termine “Rock” può evocare prima di tutto un certo tipo di sonorità, e serve poi a rimodellare la parola “Jazz” privandola del riferimento immediato alla sua forma più classica, a quella sua dimensione originaria che è lo swing; nel caso di Elektroshot può però assumere il compito di indicare un certo tipo di songwritng, quello che si sviluppa con l’elaborazione di riff, a partire dai quali si strutturano melodia, armonia e groove. Se, in questo senso, nell’ascoltare Elektroshot ti vengono in mente più Radiohead, Foo Fighters e Deep Purple invece che Wynton Marsalis o Charlie Parker, allora sì, è un disco jazz rock. “Jazz Rock” resta comunque un termine storicamente connotato, ed a quel riferimento storico in realtà Elektroshot non guarda affatto; se proprio si deve trovare un termine per definire questo lavoro, allora preferisco usare questo neologismo, “eclektric jazz”, per significare l’approccio generale che lo sostiene più che un genere od una corrente musicale in senso stretto.
 
Eptagroove, Portobuffolè Swing Orchestra, The Oversoul, Time Machine Trio sono alcuni dei gruppi nei quali sei stato coinvolto: che differenze ci sono tra questi progetti e il tuo debutto da solista?
 

Citi progetti del passato, non più esistenti. Non considero comunque Elektroshot il mio debutto da solista, ma la sintesi del mio modo di fare musica in questo momento, accanto al quale convivono esperienze diverse come il trio con cui registrerò a breve nuovo materiale originale, oppure il progetto italo-spagnolo-olandese Roots on Boots (ex Life On Mars) in uscita in primavera per un’altra importante etichetta jazz italiana, o il progetto di guitar solo che sto finendo di elaborare. Ognuno di questi rappresenta l’approfondimento di uno degli aspetti condensati in Elektroshot: la scrittura poliritmica, il groove, la ricerca timbrico-effettistica.
 
L’album non è il trip egomaniaco di una primadonna della chitarra ma suona molto come un lavoro di gruppo, basta pensare allo spazio batteristico in Take Off My Hat oppure al sax di nella title-track. Tu stesso hai definito questa articolazione “polifonica”: ce la illustri meglio?
 
Non amo molto i dischi “egocentrati”, mi piace ascoltare quei lavori in cui ad emergere sono l’insieme e la scrittura, sia come composizione che come arrangiamento. Elektroshot si muove appunto in questa direzione, ed anche lo spazio dedicato al solismo è parte integrante della sua architettura generale: ciò non significa che si tratti di uno spazio limitato, quanto piuttosto di uno spazio funzionale rispetto all’intero. Un po’ il contrario di quello che succede molto spesso nel jazz, quando è il brano a risultare funzionale rispetto alla performance del solista. L’articolazione “polifonica” di Elektroshot consiste proprio in questo: ogni voce, come ogni sonorità ed ogni elemento strutturale, è parimenti funzionale al disegno complessivo.
 
Sei autore di tutti i brani del nuovo album, che in quartetto avete registrato in un paio di giorni: che rapporto c’è tra scrittura e improvvisazione in Elektroshot?
 
Ho scritto ed arrangiato tutti i brani, preparando in pre-produzione i provini audio di tutto il materiale per tutti gli strumenti coinvolti; Andrea Lombardini mi ha aiutato nell’elaborazione finale di forme e strutture; basandosi sul materiale scritto abbiamo poi potuto reinterpretarlo con una certa libertà, ma avendo da subito chiara l’idea ed il sound generale di ogni brano. La registrazione è quindi stato un momento integrante del processo di scrittura, così come lo sono stati la post produzione ed il mixaggio, per alcuni overdub, per l’inserimento delle sequenze programmate e per il modellamento dello scenario sonoro. Scrittura ed improvvisazione sono due modi diversi di intendere lo stesso processo, che è quello compositivo. L’uno prosegue dall’altro, e viceversa.
 
Elektroshot ha vari piani di lettura e di ascolto. Un elemento che mi ha favorevolmente colpito è l’attenzione al “groove”, che nel vostro caso non si traduce in pesantezza o in eccesso.
 
Mi fa piacere che questo elemento ti abbia colpito, perché il groove è proprio ciò che nel mio progetto doveva tenere insieme e sostenere tutto il lavoro. E per groove non intendo solo un certo portamento ritmico (Lombardini e Mer, qualunque cosa suonino, formano secondo me una delle sezioni ritmiche più “groovy” a livello internazionale), ma l’idea che durante l’ascolto i brani siano colti prima di tutto con un’apprensione “fisica”, corporea, basata sul movimento, “immediata”, cioè non ancora mediata da quella coscienza analitica che ne distingue e ne riorganizza i vari elementi (melodia, armonia, metro, suddivisioni etc.). In questo senso cogli bene la molteplicità dei piani di lettura ed ascolto che caratterizzano i brani fin dalla loro prima ideazione.
 
Oltre al groove, Elektroshot brilla anche per la ricerca effettistica ed elettronica: sei per la libertà sfrenata in tal senso o preferisci porti dei limiti?
 
La dialettica di libertà e limitazione, com’è noto, è uno dei temi storicamente rilevanti della filosofia, e la risposta più scontata sarebbe che non c’è l’una senza l’altra. Personalmente però ritengo che la questione dell’uso dell’effettistica vada posta in termini diversi: qual è lo scopo dell’uso degli “effetti”? Se lo scopo è semplicemente la manipolazione timbrico/dinamica del suono, allora l’uso degli effetti rappresenta solo una propaggine tecnologica di quanto già l’utilizzo degli strumenti acustici prevede da sempre: ogni strumento prevede infatti tecniche differenti a seconda del tipo di suono che si intende produrre.  In questo caso l’effetto è solo il modo in cui si sceglie di esprimere quel determinato contenuto musicale. Ma allora, più in generale, l’effettistica diventa l’uso dei timbri, quindi un elemento fondamentale dell’arrangiamento e dell’orchestrazione. Dalla Klangfarbenmelodie di Schönberg al Bolero di Ravel, dalla sintesi additiva della musica elettronica alla musica sperimentale post-cageana, tutto il Novecento (di cui questi primi due decenni degli anni 2000 mi paiono solo un prolungamento, almeno dal punto di vista musicale) è intriso di ricerca sul timbro. Il mio uso dell’effettistica è proprio questo, è utilizzato come uno degli strumenti dell’orchestrazione, niente di più, niente di meno. Se proprio dobbiamo mettere la questione in termine di libertà e limitazione, direi che gli unici limiti sono dettati dalla natura e dall’articolazione del brano (oltre, credo, ad un minimo di cosiddetto “buon senso”!).
Da un punto di vista un po’ più approfondito, però, la ricerca effettistica mi interessa per un altro motivo, che è quello della “spersonalizzazione del suono”. Il jazz è caratterizzato in modo univoco dalla relazione tra suono e musicista: “quel” musicista lo riconosci perché ha “quel” suono, perché ha un “suo” suono che ne esprime l’identità; il che porta spesso al problema dell’imitazione e della mancanza di originalità. A me interessa lavorare anche in direzione opposta, seguendo l’idea che la musica abbia alla fina una sorta di primato sui musicisti. Il che non significa che debba sommergerli: non avrei potuto realizzare Elektroshot senza la straordinaria personalità musicale di Andrea, Phil e Michele. Gli effetti quindi alla fine mi servono anche per provare a percorrere, in alcuni momenti dei brani, una strada diversa, in cui si cerca di modellare il suono del brano più che far emergere la voce individuale di coloro che la stanno eseguendo, senza però cancellarla. È un po’ il tentativo di far convivere, dal punto di vista timbrico, quelli che per altri versi Derek Bailey chiamava linguaggio idiomatico e non idiomatico.
 
Ancora oggi il jazz sembra un terreno dove emergono conflitti tra conservatorismo e ricerca di originalità, tu invece dai l’idea di rifuggire questo tipo di contrasto: lo dimostri ad esempio in un brano come 13 On The Floor, che cerca tutt’altro tipo di direzioni e percorsi.
 
Storicamente ciò che ha contraddistinto il jazz, da sempre, non è tanto l’insieme di alcuni elementi  specifici tecnici o armonico-ritmici, quanto la capacità di assimilare e rielaborare in modo sempre nuovo ogni tipo di linguaggio. In questo senso considero il jazz più che come un genere musicale, come un certo tipo di “approccio” alla musica, in cui scrittura ed improvvisazione convivono sempre, con equilibri e formulazioni sempre diverse. Da questo punto di vista, il jazz è sempre tanto conservazione quanto ricerca di originalità, tra i quali non c’è contrasto ma relazione dialettica.
 
Come accaduto con Raw Frame, Coglitore, Cosentino e Gennai, Naked Tapes è una sede adattissima a togliere parole e immagini superflue per puntare tutto sulla musica: un rischio o un dovere?
 
Una “missione”.
 
Stando al tuo punto di vista e alla tua esperienza, come pensi sia lo stato di salute del jazz nostrano?
 
A parte pochi casi, mi sembra che il jazz in Italia soffra di una certo eccesso di esterofilia, però mi preoccupa di più il fatto che qui da noi ancora oggi il jazz stenti ad diventare veramente un elemento culturale in senso forte.
 
Inevitabile citare i tuoi studi filosofici. Questo tipo di formazione è un aiuto o un intralcio nel fare (e pensare) musica?
 
Di certo non intendo fare musica “filosofica”! Scherzi a parte, la filosofia non è un abito che indossi  solo all’occorrenza, ma, come si dice, una forma mentis. Sicuramente l’ideazione di alcuni brani e materiali musicali dipende da alcune riflessioni della mia ricerca filosofica, che in questo periodo è orientata soprattutto alle questioni del tempo e del linguaggio musicali; vale però anche il contrario: a volte è proprio la mia formazione musicale a fornire un valido aiuto nel mio modo di fare filosofia, mostrandomi come tenere insieme e far dialogare elementi anche molto eterogenei tra loro.
 
Docendo discitur: la tua attività didattica aiuta l’aspetto compositivo?
 
Direi piuttosto il contrario: è la pratica com/positiva, cioè l’attività del porre insieme, legare, elementi diversi tra loro nella ricerca generale di senso, ad aiutarmi nell’attività didattica; anche la mia attività filosofica influisce notevolmente, fornendomi strumenti metodologici, strategie di comunicazione e sguardo d’insieme, delineando percorsi didattici che hanno sempre come filo conduttore quello della consapevolezza, ad ogni livello.
 
Cosa succede solitamente durante un tuo concerto? Traduci i brani di Elektroshot con fedeltà o ti lasci ispirare dall’estro del momento?
 
È proprio nel live che Elektroshot esprime davvero il suo potenziale, perché dal vivo ogni brano assume una geometria variabile, determinando uno spazio che si apre di continuo a nuove ed imprevedibili forme. Anche l’uso dell’effettistica serve a ridisegnare in modo sempre diverso il paesaggio sonoro in cui sono ambientati i brani di Elektroshot.

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