Fra le numerose collaborazioni che hanno distinto l’opera del grande cantautore genovese, già magistrale traduttore di Brassens e di Cohen, una delle più prestigiose e riuscite è stata sicuramente quella con Mauro Pagani, ex membro della Premiata Forneria Marconi, musicista di spiccata sensibilità e di vasta cultura musicale.
All’alba degli anni Ottanta De André cominciò a covare l’idea di realizzare un album a tema sulle vicissitudini di un marinaio, tornato a casa dopo trent’anni e dopo infinite peregrinazioni, influenzato a fondo dai suoni, dalle atmosfere, dalle lingue e dai dialetti conosciuti in tutto il Mediterraneo. Una serie di ricerche estemporanee avevano fatto imbattere De André nella suggestiva figura storica di Cicala, un nostromo genovese fatto prigioniero dai turchi ottomani nella seconda metà del XV secolo e che, avendo salvato la vita al Bey, era stato fatto addirittura pascià. Le canzoni dell’album avrebbero dovuto rappresentare il senso del viaggio, del partir per mare e ritornare, così intimo nell’animo marinaresco ed erratico dei genovesi, e trasmettere in senso più ampio lo spirito indomito e avventuroso di tanti viaggiatori e marinai dei vari paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Da qui l’esigenza di sostanziare le canzoni con sonorità che traessero dalla ricca mescolanza di strumenti popolari e suoni tipici dell’area mediterranea le suggestioni etniche necessarie allo scopo. Non solo: da un punto di vista lirico nell’idea originaria di De André la lingua stessa delle canzoni sarebbe dovuta essere una sorta di lingua «franca», non legata a un unico contesto nazionale, ma una commistione di vari idiomi mediterranei, in una sorta di lingua inventata che accomunasse idealmente le genti di cui l’album si riprometteva di narrare.
Incontrato casualmente Mauro Pagani nel 1981 agli studi di registrazione Stone Castle di Carimate, dove Pagani stava lavorando alle musiche del Sogno di una notte d’estate di Gabriele Salvatores, e De André, in stretta collaborazione con Massimo Bubola, stava ultimando il suo album Fabrizio De André, meglio noto come L’indiano dall’illustrazione di copertina, il cantautore genovese iniziava a imbastire con il musicista milanese – già conosciuto negli anni Settanta al tempo in cui militava nelle file della PFM – un discorso progettuale di collaborazione a quattro mani. Naturalmente Fabrizio avrebbe elaborato la parte lirica, tematica e testuale dei brani, mentre Mauro si sarebbe occupato della composizione di musiche originali ispirandosi alle tradizioni popolari dell’area mediterranea. Pagani, che da alcuni anni si interessava a fondo proprio delle culture musicali nordafricane, mediorientali, balcaniche, turca e greca, e aveva assorbito un’estesa ricerca sonora corroborata dalla raccolta e dall’ascolto di oltre mille dischi, si mise all’opera componendo brani musicali sui quali poi De André lavorava elaborando testi che si adattassero metricamente alle ritmiche e alle linee melodiche proposte.
La strettissima collaborazione artistica fra i due diede presto gli esiti auspicati e la trovata di De André di ricorrere al dialetto genovese – in cui già sono contenuti un migliaio di vocaboli di origine araba – anziché a una lingua inventata di sana pianta come si proponeva inizialmente, fu il tratto conclusivo decisivo a tre quarti del lavoro, che caratterizzò definitivamente lo straordinario risultato finale. L’unitarietà di Creuza de mä, il suo strabiliante equilibrio fra antico e moderno, il suo splendido ed efficace amalgama di strumenti acustici di origine popolare a contorno di storie altrettanto popolari, affatto colte, magnificamente cantate da Fabrizio De André in genovese – un dialetto che ha sfumature sia orientaleggianti sia affini a certe sonorità della lingua portoghese – lo rendono un album di grandissimo valore poetico e musicale, un disco assolutamente fuori del tempo.
I temi esplorati da De André sono, come sempre nella sua opera, un espediente poetico per prestare occhio e orecchio e dare voce ai diseredati e ai disgraziati della terra, con la parallela, sarcastica e fugace osservazione dei potenti e dei servi del potere – il faccendiere di Lugano, Sharon e Reagan, i soldati israeliani, la «pittima», esattore di crediti per conto terzi – messi alla berlina dalla loro stessa frigidità e aridità d’animo. Ben più vitali e passionali, umani e carnali, sono i personaggi incastonati nelle splendide canzoni dell’album, dall’omerico narratore seduto in un ristorante in riva al mare nell’iniziale Creuza de mä alle venditrici al mercato del pesce, dalla prostituta araba Jamin-a, in parte Circe incantatrice e in parte dolcissima Nausicaa, al padre palestinese a cui i soldati come «cani arrabbiati con la schiuma alla bocca» hanno ucciso il figlioletto, dal marinaio Cicala diventato poi il ricco Sinán alle puttane del porto, di riposo alla domenica, ma non meno disprezzate dalle autorità costituite, nonostante il loro ruolo di contribuenti.
Creuza de mä è un viaggio circolare, marinaro, che parte dalla Tracia evocata dal gruppo strumentale greco che apre l’album e dai gusti e gli odori della cucina ligure, per proseguire con la sensuale femminilità mediorientale di Jamin-a, con le atrocità storiche di Sidun, con la storia a lieto fine di Sinán capudán pasciá, per giungere infine alla malinconia conclusiva di Da a me riva, in cui una sorta di Odisseo finalmente tornato a casa si perde nei ricordi con languida nostalgia, fantasticando una nuova partenza «affacciato a questo baule da marinaio», su un tenue sottofondo di placide onde che si frangono sulla spiaggia. La straordinaria musicalità del genovese spurio utilizzato da De André si fonde mirabilmente con le suggestive e vibranti sonorità del bouzouki, dell’oud, della mandola e del mandolino, del saz e del violino, sostenute da una base percussiva molto ricca e variegata, oltre che da alcuni evanescenti effetti di tastiera elettronica «a tappeto», molto discreti e per nulla invasivi.
Le splendide trame musicali che pervadono tutto il disco, conferendogli un’omogeneità davvero esemplare, sono date in larga misura dagli strumenti a plettro, principalmente bouzouki e mandola, a cui fanno da contorno ritmico varie percussioni di matrice etnica. Splendido, per esempio, l’andamento di Jamin-a, che parte con le percussioni in sordina ed «esplode» magistralmente all’inizio della seconda strofa, caricandosi con il magnifico lavoro degli strumenti a plettro di un inebriante effetto di danza ipnotica. Al termine, Jamin-a viene sonoramente lacerata dall’invadente frastuono di un aviogetto militare, in uno stridente contrasto fra antico e moderno, e lascia il posto alla tragica, rassegnata tensione emotiva di Sidun, introdotta dalle voci di Sharon e Reagan su un tappeto di applausi e un minaccioso fracasso di mezzi cingolati e di carri armati. Ma gli effetti sonori lasciano presto spazio a un disperato, teso silenzio, che solo le note malinconiche di un solitario bouzouki e la mesta voce di un uomo in un campo profughi palestinese violato da una strage riescono a far vibrare ancora di un residuo di umanità. E c’è da notare come De André esprima con accorata empatia non tanto odio o rabbia o uno straziante lamento funebre, quanto una pacata, civile indignazione raccolta in un dignitoso lutto.
I colori del Mediterraneo vengono evocati poeticamente e musicalmente dalla bellissima Sinán capudán pasciá, con la vitale saggezza del pesce, il grembo protettivo e materno del mare, la storia marinaresca e levantina di Cicala, a cui i ritmi e le melodie originali di Pagani conferiscono uno spessore tradizionale ed etnico di straordinario fascino. Alla toccante confessione biografica dell’esattore di crediti, magnificamente cantata da De André ne A pittima facendo abilmente ricorso alle sue belle e profonde sfumature vocali, fa seguito la coinvolgente allegria di A dumenega, uno dei brani musicalmente più vicini alle tipiche ballate del cantautore.
Alla pubblicazione del disco nel 1984 seguì una lunga e trionfale tournée che riportò Fabrizio in contatto con il pubblico e gli fece riscoprire il gusto delle esibizioni dal vivo.
DISCHI DELLA MEDESIMA VENA ARTISTICA
Mauro Pagani / Mauro Pagani (Ascolto, 1979)
Inevitabile riconoscere in questo album, seppure in nucleo, l’ispirazione e la ricerca sonora all’origine della successiva collaborazione di Pagani con De André. Qui Pagani ricorreva già in alcuni brani al bouzouki, al flauto di canna e alla viola, accostandosi – come in Europa minor – al folclore balcanico o elaborando brani – come L’albero di canto – di chiara ispirazione popolare, colorando però il tutto con improvvisazioni strumentali. Fra gli ospiti accreditati di questo disco, purtroppo pressoché irreperibile, figuravano Demetrio Stratos e gli Area, Teresa De Sio, Mario Arcari all’oboe, Walter Calloni e Giorgio Vivaldi alle percussioni, Luca Balbo alla chitarra. Nell’unico brano elettrico dell’album comparivano anche i vecchi amici della PFM.
Nuova Compagnia di Canto Popolare / Pesce d’’o mare (EMI, 1998)
La riuscita commistione fra dialetto, in questo caso napoletano, e musica di moderna composizione che si ispira però alla tradizione popolare campana, qui contaminata da influenze etniche dell’area mediterranea, fa di questo recente album della NCCP uno dei pochi accostamenti possibili a Creuza de mä. Il glorioso gruppo capofila del recupero di canti e sonorità tradizionali, rimasto fedele nonostante i tanti cambi di formazione al progetto culturale degli esordi, amplia in questo disco le proprie potenzialità vocali e strumentali ed esplora tematiche contemporanee attinenti alle nuove realtà sociali, con soluzioni melodiche e armoniche di grande fascino.
Calicanto / Murrine (CNI, 1999)
Validissimo gruppo padovano che trae ispirazione dalla tradizione culturale e musicale veneta quattrocentesca e cinquecentesca, con pregevoli aperture a sonorità mediterranee, slave, nordeuropee e africane. Il materiale proposto nell’album è in parte tradizionale e in parte originale, fortemente caratterizzato dalle brillanti sonorità della mandola, del bouzouki e del mandolino di Roberto Tombesi, sopra le quali si innestano il canto e le percussioni di Rachele Colombo, contrappuntati dal basso e contrabbasso di Giancarlo Tombesi, dalla cornamusa di Gabriele Coltri e dagli strumenti tradizionali (bandonina e tapan) di Corrado Corradi.