18/05/2007

Fabrizio De André

Creuza de mä (Ricordi, 1984)

Fra le numerose  collaborazioni che hanno distinto l’opera del grande cantautore  genovese, già magistrale traduttore di Brassens e di Cohen, una delle  più prestigiose e riuscite è stata sicuramente quella con Mauro  Pagani, ex membro della Premiata Forneria Marconi, musicista di  spiccata sensibilità e di vasta cultura musicale.

All’alba degli anni Ottanta  De André cominciò a covare l’idea di realizzare un album a tema  sulle vicissitudini di un marinaio, tornato a casa dopo trent’anni e  dopo infinite peregrinazioni, influenzato a fondo dai suoni, dalle  atmosfere, dalle lingue e dai dialetti conosciuti in tutto il  Mediterraneo. Una serie di ricerche estemporanee avevano fatto  imbattere De André nella suggestiva figura storica di Cicala, un nostromo genovese fatto prigioniero dai turchi ottomani nella seconda  metà del XV secolo e che, avendo salvato la vita al Bey, era stato  fatto addirittura pascià. Le canzoni dell’album avrebbero dovuto rappresentare il senso del viaggio, del partir per mare e ritornare,  così intimo nell’animo marinaresco ed erratico dei genovesi, e  trasmettere in senso più ampio lo spirito indomito e avventuroso di  tanti viaggiatori e marinai dei vari paesi che si affacciano sul  bacino del Mediterraneo. Da qui l’esigenza di sostanziare le canzoni  con sonorità che traessero dalla ricca mescolanza di strumenti  popolari e suoni tipici dell’area mediterranea le suggestioni  etniche necessarie allo scopo. Non solo: da un punto di vista lirico  nell’idea originaria di De André la lingua stessa delle canzoni  sarebbe dovuta essere una sorta di lingua «franca», non legata a un  unico contesto nazionale, ma una commistione di vari idiomi mediterranei, in una sorta di lingua inventata che accomunasse  idealmente le genti di cui l’album si riprometteva di narrare.

Incontrato casualmente Mauro  Pagani nel 1981 agli studi di registrazione Stone Castle di Carimate,  dove Pagani stava lavorando alle musiche del Sogno di una notte d’estate  di Gabriele Salvatores, e De André, in stretta collaborazione con  Massimo Bubola, stava ultimando il suo album Fabrizio De André,  meglio noto come L’indiano dall’illustrazione di copertina, il  cantautore genovese iniziava a imbastire con il musicista milanese –  già conosciuto negli anni Settanta al tempo in cui militava nelle  file della PFM – un discorso progettuale di collaborazione a quattro  mani. Naturalmente Fabrizio avrebbe elaborato la parte lirica,  tematica e testuale dei brani, mentre Mauro si sarebbe occupato della  composizione di musiche originali ispirandosi alle tradizioni popolari  dell’area mediterranea. Pagani, che da alcuni anni si interessava a  fondo proprio delle culture musicali nordafricane, mediorientali,  balcaniche, turca e greca, e aveva assorbito un’estesa ricerca  sonora corroborata dalla raccolta e dall’ascolto di oltre mille  dischi, si mise all’opera componendo brani musicali sui quali poi De  André lavorava elaborando testi che si adattassero metricamente alle  ritmiche e alle linee melodiche proposte.

La strettissima  collaborazione artistica fra i due diede presto gli esiti auspicati e  la trovata di De André di ricorrere al dialetto genovese – in cui  già sono contenuti un migliaio di vocaboli di origine araba – anziché a una lingua inventata di sana pianta come si proponeva  inizialmente, fu il tratto conclusivo decisivo a tre quarti del  lavoro, che caratterizzò definitivamente lo straordinario risultato  finale. L’unitarietà di Creuza de mä, il suo strabiliante  equilibrio fra antico e moderno, il suo splendido ed efficace amalgama  di strumenti acustici di origine popolare a contorno di storie  altrettanto popolari, affatto colte, magnificamente cantate da  Fabrizio De André in genovese – un dialetto che ha sfumature sia  orientaleggianti sia affini a certe sonorità della lingua portoghese  – lo rendono un album di grandissimo valore poetico e musicale, un  disco assolutamente fuori del tempo.

I temi esplorati da De André  sono, come sempre nella sua opera, un espediente poetico per prestare occhio e orecchio e dare voce ai diseredati e ai disgraziati della  terra, con la parallela, sarcastica e fugace osservazione dei potenti  e dei servi del potere – il faccendiere di Lugano, Sharon e Reagan,  i soldati israeliani, la «pittima», esattore di crediti per conto  terzi – messi alla berlina dalla loro stessa frigidità e aridità d’animo.  Ben più vitali e passionali, umani e carnali, sono i personaggi  incastonati nelle splendide canzoni dell’album, dall’omerico  narratore seduto in un ristorante in riva al mare nell’iniziale Creuza de mä alle venditrici al mercato del pesce, dalla prostituta  araba Jamin-a, in parte Circe incantatrice e in parte dolcissima  Nausicaa, al padre palestinese a cui i soldati come «cani arrabbiati  con la schiuma alla bocca» hanno ucciso il figlioletto, dal marinaio  Cicala diventato poi il ricco Sinán alle puttane del porto, di riposo  alla domenica, ma non meno disprezzate dalle autorità costituite,  nonostante il loro ruolo di contribuenti.

Creuza de mä è un viaggio  circolare, marinaro, che parte dalla Tracia evocata dal gruppo  strumentale greco che apre l’album e dai gusti e gli odori della  cucina ligure, per proseguire con la sensuale femminilità  mediorientale di Jamin-a, con le atrocità storiche di Sidun, con la  storia a lieto fine di Sinán capudán pasciá, per giungere infine  alla malinconia conclusiva di Da a me riva, in cui una sorta di Odisseo finalmente tornato a casa si perde nei ricordi con languida  nostalgia, fantasticando una nuova partenza «affacciato a questo  baule da marinaio», su un tenue sottofondo di placide onde che si  frangono sulla spiaggia. La straordinaria musicalità del genovese  spurio utilizzato da De André si fonde mirabilmente con le suggestive  e vibranti sonorità del bouzouki, dell’oud, della mandola e del  mandolino, del saz e del violino, sostenute da una base percussiva  molto ricca e variegata, oltre che da alcuni evanescenti effetti di  tastiera elettronica «a tappeto», molto discreti e per nulla  invasivi.

Le splendide trame musicali  che pervadono tutto il disco, conferendogli un’omogeneità davvero esemplare, sono date in larga misura dagli strumenti a plettro,  principalmente bouzouki e mandola, a cui fanno da contorno ritmico  varie percussioni di matrice etnica. Splendido, per esempio, l’andamento  di Jamin-a, che parte con le percussioni in sordina ed «esplode»  magistralmente all’inizio della seconda strofa, caricandosi con il  magnifico lavoro degli strumenti a plettro di un inebriante effetto di  danza ipnotica. Al termine, Jamin-a viene sonoramente lacerata dall’invadente  frastuono di un aviogetto militare, in uno stridente contrasto fra  antico e moderno, e lascia il posto alla tragica, rassegnata tensione  emotiva di Sidun, introdotta dalle voci di Sharon e Reagan su un  tappeto di applausi e un minaccioso fracasso di mezzi cingolati e di  carri armati. Ma gli effetti sonori lasciano presto spazio a un disperato, teso silenzio, che solo le note malinconiche di un  solitario bouzouki e la mesta voce di un uomo in un campo profughi  palestinese violato da una strage riescono a far vibrare ancora di un  residuo di umanità. E c’è da notare come De André esprima con  accorata empatia non tanto odio o rabbia o uno straziante lamento  funebre, quanto una pacata, civile indignazione raccolta in un  dignitoso lutto.

I colori del Mediterraneo  vengono evocati poeticamente e musicalmente dalla bellissima Sinán  capudán pasciá, con la vitale saggezza del pesce, il grembo  protettivo e materno del mare, la storia marinaresca e levantina di  Cicala, a cui i ritmi e le melodie originali di Pagani conferiscono  uno spessore tradizionale ed etnico di straordinario fascino. Alla  toccante confessione biografica dell’esattore di crediti, magnificamente cantata da De André ne A pittima facendo abilmente  ricorso alle sue belle e profonde sfumature vocali, fa seguito la  coinvolgente allegria di A dumenega, uno dei brani musicalmente più vicini alle tipiche ballate del cantautore.

Alla pubblicazione del disco  nel 1984 seguì una lunga e trionfale tournée che riportò Fabrizio  in contatto con il pubblico e gli fece riscoprire il gusto delle  esibizioni dal vivo.

DISCHI DELLA  MEDESIMA VENA ARTISTICA

Mauro  Pagani / Mauro Pagani (Ascolto, 1979)
 Inevitabile riconoscere in questo album, seppure in nucleo, l’ispirazione  e la ricerca sonora all’origine della successiva collaborazione di  Pagani con De André. Qui Pagani ricorreva già in alcuni brani al bouzouki, al flauto di canna e alla viola, accostandosi – come in  Europa minor – al folclore balcanico o elaborando brani – come L’albero  di canto – di chiara ispirazione popolare, colorando però il tutto  con improvvisazioni strumentali. Fra gli ospiti accreditati di questo  disco, purtroppo pressoché irreperibile, figuravano Demetrio Stratos e  gli Area, Teresa De Sio, Mario Arcari all’oboe, Walter Calloni e  Giorgio Vivaldi alle percussioni, Luca Balbo alla chitarra. Nell’unico  brano elettrico dell’album comparivano anche i vecchi amici della PFM.

Nuova Compagnia di Canto  Popolare / Pesce d’’o mare (EMI, 1998)
La riuscita commistione fra dialetto, in questo caso napoletano, e  musica di moderna composizione che si ispira però alla tradizione  popolare campana, qui contaminata da influenze etniche dell’area mediterranea, fa di questo recente album della NCCP uno dei pochi  accostamenti possibili a Creuza de mä. Il glorioso gruppo capofila del  recupero di canti e sonorità tradizionali, rimasto fedele nonostante i tanti cambi di formazione al progetto culturale degli esordi, amplia in  questo disco le proprie potenzialità vocali e strumentali ed esplora  tematiche contemporanee attinenti alle nuove realtà sociali, con  soluzioni melodiche e armoniche di grande fascino.

Calicanto / Murrine (CNI,  1999)
Validissimo gruppo padovano che trae ispirazione dalla tradizione  culturale e musicale veneta quattrocentesca e cinquecentesca, con  pregevoli aperture a sonorità mediterranee, slave, nordeuropee e africane. Il materiale proposto nell’album è in parte tradizionale e  in parte originale, fortemente caratterizzato dalle brillanti sonorità  della mandola, del bouzouki e del mandolino di Roberto Tombesi, sopra le  quali si innestano il canto e le percussioni di Rachele Colombo,  contrappuntati dal basso e contrabbasso di Giancarlo Tombesi, dalla  cornamusa di Gabriele Coltri e dagli strumenti tradizionali (bandonina e  tapan) di Corrado Corradi.

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