“Meno è meglio, sapete? È più diretto. È quello che è. Ascoltatelo e basta. Abbiamo avuto la baldanza di metterci a nudo. Serge ha ridotto il nostro suono all’essenza. È incredibile”. Così l’istrionico Tom Meighan, frontman dei Kasabian, ha descritto il quinto album della band, intitolato semplicemente 48:13, proprio come la durata complessiva del lavoro. Sono passati dieci anni esatti da quando la band di Leicester, sulla scia di Primal Scream e Oasis, si fa notare grazie a un esordio omonimo contenente brani di grande impatto come Club Foot e L.S.F (Lost Souls Forever).
Dieci anni in cui Tom Meighan e Serge Pizzorno – la mente creativa dei Kasabian – sono stati al centro dell’attenzione dei media musicali, in particolare in patria, dove li hanno eletti grandi eredi della stagione del brit pop. Pulsioni rave e brit rock. Queste le grandi passioni del quartetto, che ha capitalizzato un successo enorme nel tempo con Empire (BMG/COlumbia, 2006), West Ryder Pauper Lunatic Asylum (RCA/Columbia, 2009) e Velociraptor! (RCA/Columbia, 2011), grazie anche a una serie di singoli orecchiabili e ammiccanti (Shoot The Runner, Fire, Underdog, fino alle più recenti Days Are Forgotten e Goodbye Kiss).
Con questo nuovo lavoro i Kasabian proseguono la strada tracciata dai precedenti; un electro-rock danzereccio fortemente debitore di quanto fatto in passato dai già citati Primal Scream (quelli di XTRMNTR più che Screamadelica, a questo giro) senza dimenticare le pulsioni neopsichedeliche di Madchester, i New Order e la musica da rave degli anni ’90 (Chemical Brothers e Underworld in primis). “Sento che abbiamo avuto la fiducia di essere più diretti e onesti con questo album. Ho cominciato a spogliare strati, piuttosto che aggiungerne altri” sostiene il chitarrista Pizzorno, il quale ha anche prodotto interamente l’album. Verità parziale dato che ogni singolo brano è iper-prodotto, con arrangiamenti spesso eccessivi e ridondanti e qualche leziosità di troppo. Interessanti in ogni caso gli intermezzi strumentali “morriconiani” (Pizzorno si è avvalso in studio della London Metropolitan Orchestra) che già emergevano nei lavori precedenti.
Per la verità non mancano nemmeno le buone canzoni, anche se non sono poi molte e così memorabili, e forse manca un’idea precisa e coerente. Spiccano su tutte Bumblebee e il suo basso sontuoso e potente, la trascinante cavalcata Stevie e soprattutto i quasi sette minuti di Treat, impreziosita da finale techno-pop degno dei migliori New Order, dove il quartetto prova a superare i propri cliché stilistici. Si salva poi solo la neopsichedelia di Glass e di Clouds: per il resto si fa largo una mediocrità e una scarsa ispirazione di fondo, come testimonia anche il “discutibile” singolo Eez-eh, ispirato a Giorgio Moroder e a certa dance anni ’90.
I fan tuttavia li premiano ancora una volta: nel Regno Unito il disco ha infatti venduto oltre 60.000 copie in meno di due settimane, ricevendo così la certificazione di disco d’argento. Successo rimarcato dalla partecipazione, in veste di protagonisti, all’edizione di Glastonbury che si sta svolgendo in queste ore. Poco importa quindi se l’ispirazione vacilla: il loro pubblico, davvero sterminato, è pronto ancora una volta ad accoglierli e a ballare, perché i quattro di Leicester sono oramai una colonna portante del “rock da stadio” di questi anni.