21/05/2014

Damon Albarn

Nel suo primo album solista, l’arguto leader di Blur e Gorillaz filtra le proprie esperienze musicali in dodici ballate dai sapori autunnali
Sono passati vent’anni dalla pubblicazione dell’epocale Parklife (Food, 1994), l’album che proiettò i Blur verso il successo mondiale e che mostrava tutto il talento dell’arguto leader Damon Albarn, capace di cogliere attraverso le sue liriche satiriche lo spirito di un’epoca e di una generazione come pochi altri. 
 
In una carriera pluri-ventennale, Albarn ha travalicato i confini della musica pop inglese, dando prova di un’ecletticità fuori dal comune, dal trip hop al dub, dalla world music alla musica contemporanea, collaborando con una schiera sterminata di artisti del calibro di Michael Nyman, Bobby Womack, Neneh Cherry, De La Soul, Lou Reed, Paul Simonon (per citarne alcuni). Un’artista orgogliosamente britannico fino al midollo, figliol prodigo di Ray Davies, ma che al contempo ha provato a misurarsi con mondi lontanissimi rispetto a quelli più canonici e “tradizionali” da cui era partito. Basti pensare ai Gorillaz stessi – il primo gruppo “cartoon” della storia – o alle recenti colonne sonore delle opere teatrali Monkey: Journey To The West e Dr. Dee, passando per lo strambo afro-beat di Rocket Juice & The Moon con gli amici Flea e Tony Allen.
 
E’ cambiato molto Albarn, dal 1994, ed è cambiato (quasi) tutto quello che descriveva con perspicace ironia. E’ fuggito dal brit pop, dai Blur – per un bel po’ di tempo – e si è rifugiato prima in Islanda e poi in Africa, in Mali e nella Repubblica Democratica del Congo, non per un semplice capriccio “terzomondista” di una rockstar annoiata ma per un sincero amore che egli nutre per una terra ricca di suoni e tradizioni da cui attingere e trarre insegnamenti. Nel 2014 l’artista inglese è – soprattutto – un autore di serie A, elegante e raffinato. 
 
Ecco quindi che arriviamo a Everyday Robots (Parlophone/WB/XL), primo (ufficiale) album solista di Damon Albarn, figlio diretto dell’esperienza accumulata in tutti questi anni e che rappresenta, senza alcun dubbio, la piena maturità dell’artista. Un album composto perlopiù da malinconiche ballate dove emergono tutte le influenze di cui il nostro ha fatto tesoro, dalla musica africana, all’elettronica, fino alla tradizione britannica. Un disco estremamente minimale e dai sapori “soul”, seppur non nel senso propriamente stilistico e storico del termine. C’è grande spazio per delicati intrecci pianistici e arrangiamenti soavi, come nel caso dei primi due singoli Everyday Robots e Lonely Press Play, che ricordano altre produzioni targate XL dove Albarn aveva collaborato recentemente – le ultime uscite discografiche di Bobby Womack e Gil Scott-Heron – e in cui il surplus sono i migliori testi della carriera: “Siamo robot ogni giorno/al telefono/mentre torniamo a casa/sembrando delle pietre impalate lì fuori da soli”. 
Everyday Robots è un lavoro intimo e personale, dove riaffiorano ricordi dell’adolescenza, vecchie (e per fortuna) superate dipendenze con l’eroina (You & Me), il difficile rapporto con la tecnologia e la conseguente alienazione che essa esercita su tutti noi.

Tra i solchi di un disco crepuscolare e autunnale, londinese nell’anima, c’è spazio per qualche raggio di sole tipicamente africano come la spensierata Mr.Tembo – alla maniera di Paul Simon – la quale fa dimenticare per un attimo la sensazione di tormentata malinconia che aleggia instancabilmente in ogni nota e in ogni testo di questo nuovo lavoro (e oltretutto sarà il prossimo singolo dopo Hollow Ponds, uscito pochi giorni fa). 
 

Il momento più alto del disco è probabilmente segnato dalla splendida The Selfish Giant, electro-soul d’autore con ospite Natasha Kahn dei Bat For Lashes, un algido quadretto intimista che riporta alla memoria brani come Bettery In Your Leg (Think Tank, 2003) o Strange News From Another Star (Blur, 1997). Se Photographs (You Are Taking Now) e The History Of Cheating Heart avrebbero potuto essere parte integrante di Dr. Dee, quantomeno per lo stile pacato e classico, la conclusiva Heavy Seas of Love, – cantata in coppia con Brian Eno – è il migliore dei finali possibili, scandita da un ritmo esotico e trascinante: e dopo un vortice di emozioni di questo pregio ed entità anche una lacrima, a questo punto, potrebbe scendere. 

 

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