«Credo che niente mi possa separare dall’amore per il mio Dio, mia moglie e la mia musica. La vita è straordinariamente ricca quando, dopo ore di duro lavoro in studio di registrazione, torno a casa e trovo June, pronta a sostenermi. È in quei momenti che mi rivolgo a Dio per dirgli “Grazie mille, Capo”».
Johnny Cash pensava che American IV sarebbe stato il suo ultimo disco: il suo stato di salute non prometteva niente di buono, lo aveva detto a Rick Rubin. The Man Comes Around risuonò nell’etere come il testamento definitivo dell’Uomo in Nero, quella creatura mitologica che ormai da tempo camminava tenendo un piede sulla Terra, tra i mortali, e uno nella leggenda. Ma Johnny sapeva benissimo che finché fosse rimasto in vita non sarebbe stato possibile abbandonare la musica, e nelle note di copertina di American IV aveva scritto: «La mia giornata si conclude nel momento in cui torno a casa dallo studio e racconto a June quello che ho fatto. Ma la musica non si ferma mai. È come un loop infinito che mi attraversa il cervello, ancora e ancora. Poi, finalmente, la mia mente si sintonizza su una canzone in particolare, e io so che non me la lascerò scappare». Anche Rubin lo sapeva: da quando avevano iniziato a lavorare agli American Recordings nel 1994, si era creata una sintonia perfetta tra lui e quello straordinario artista che aveva «migliorato in modo inestimabile la mia vita». Così, nel giorno in cui American IV era stato completato, Rubin aveva consigliato a Cash di rimettersi subito al lavoro, e quello stesso giorno era nato American V: A Hundred Highways. Cash non godeva certo di ottima salute, ma c’era la sua incredibile forza di spirito a sostenerlo quando il fisico vacillava: «In studio c’erano sempre un tecnico e un chitarrista», ricorderà Rubin. «Ogni mattina, quando John si svegliava, non doveva far altro che chiamare e dire se se la sentiva di registrare». Quelle session avrebbero prodotto molto materiale, parte del quale è confluito in questo capitolo finale, American VI. E durante quelle session, l’Uomo in Nero avrebbe ricevuto il colpo più duro di tutta la sua intensa e travagliata esistenza: il 15 maggio del 2003 la sua amata June se n’era andata, lasciando solo a percorrere l’ultimo tratto di strada. «Oh Signore, aiutami a percorrere un altro miglio, solo un altro miglio, sono stanco di camminare da solo» cantava Cash in Help Me, e ancora una volta la musica si intrecciava inscindibilmente alla sua vita, sostenendola e amplificandola all’infinito. «A quel punto Johnny mi disse che registrare era rimasta l’unica ragione per continuare a vivere», dirà Rubin. «Vi furono un sacco di pause in quelle registrazioni, il tutto dovuto alla sua salute. Ma lui voleva a tutti i costi lavorare, anche se i dottori dell’ospedale erano preoccupati e non volevano che si affaticasse». Cash sapeva che non c’era tempo da perdere: ormai non c’entravano più né il suo stato di salute né i dottori. Era una questione fra lui e il suo “Capo”: Johnny lo sapeva benissimo, molto presto avrebbe raggiunto June, e fino a quel momento avrebbe continuato a cantare e registrare.
Rubin parlò con lui subito dopo la morte di June: «Mi disse: “Per tutta la vita ho sofferto tantissimo, ma non mi sono mai sentito così male”. Gli chiesi: “Credi di poter avere ancora fede in qualcosa?”. Quando sentì quella frase ricevette come una scossa e mi rispose con la sua voce che era tornata fiera: “La mia fede è incrollabile”». Circa quattro mesi dopo, il 12 settembre 2003, John raggiunse sua moglie: il suo lavoro era finito, era finalmente libero di ricongiungersi alla sua anima gemella.
È strano come anche American VI: Ain’t No Grave sia idealmente cominciato lo stesso giorno in cui Cash se n’è andato, mettendo la parola fine ad American V. La notte tra l’11 e il 12 Rubin si trovava a Los Angeles, stava cenando con alcuni artisti dopo un concerto commemorativo in onore delle vittime delle Torri gemelle. Solo qualche giorno prima Johnny gli aveva detto che l’avrebbe raggiunto a Los Angeles per dare qualche ritocco finale ad American V, e adesso la sua segretaria Lindsay gli stava comunicando al telefono che John era partito, aveva raggiunto June. «Decisi di non condividere la notizia con nessuno», ricorderà Rubin. «Ricordo solo che cercai di tornare a casa il prima possibile, per digerire la notizia nella pace e nel silenzio della mia camera da letto. Ricordo anche di aver sentito l’urgenza di fare qualcosa immediatamente, anche se non sapevo cosa…». Si trattava di un regalo di compleanno, American VI, uscito lo scorso 26 febbraio, il giorno in cui Cash avrebbe compiuto 78 anni. Anche questa volta l’Uomo in Nero è riuscito a spiazzarci con un disco memorabile, che esordisce con i versi lapidari di Ain’t No Grave: «Non c’è tomba che possa trattenere il mio corpo». Non pensate quindi che la morte abbia avuto la meglio… Cash ha semplicemente deciso di andare. Prima, però, ci ha lasciato un’altra manciata di preghiere in musica, da recitare ogni qualvolta ci sentiremo smarriti lungo il cammino: come l’evocativa Redemption Day di Sheryl Crow, la sognante For The Good Times dell’amico Kris Kristofferson, oppure la commovente Where I’m Bound di Tom Paxton. Ma soprattutto c’è la solenne I Corinthians 15:55, una delle ultime canzoni che ha scritto. Insieme a lui, i fidati Mike Campbell (chitarra) e Benmont Tench (tastiere) degli Heartbreakers di Tom Petty, e poi Matt Sweeney, Jonny Polonsky, Smokey Hormel e due giovani pupilli di Rubin, gli Avett Brothers.
American VI non è un disco qualunque: contiene il segreto della vita e il mistero della morte, è l’estremo saluto di un uomo divenuto leggenda. John R. Cash si congeda con stile, sulle note del traditional hawaiano Aloha Oe: «Un ultimo abbraccio, prima che me ne vada. Fino a quando ci rincontreremo». E a noi piace immaginarcelo finalmente sereno e libero dai vincoli di un corpo mortale, mentre passeggia su una spiaggia deserta, mano nella mano con June, rigorosamente vestito di nero.
01/04/2010
JOHNNY CASH
American VI: Ain’t No Grave (Lost Highway / Universal)