Kirk West si muove come uno che la sa lunga ed è a suo completo agio, ma al tempo stesso è circospetto come un cane da guardia che deve riportare nel recinto fino all’ultima le pecore dopo il pascolo. Strana la vita di chi deve tenere saldo ogni pezzo di un carrozzone rock: sorrisi e pacche sulla spalla per tutti ma mai una pausa, raramente un momento per te, anche se quella che vivi ogni giorno è la tua vita e gli artisti di cui ti occupi, pecorelle o lupi, a seconda dei casi, sono quelli che più ammiri e della cui musica ti nutri praticamente da sempre. West – road manager al servizio di Allman Brothers Band dalla notte dei tempi – ha il physique du rôle: capigliatura e baffi da sopravvissuto dell’era hippy sono imbiancati, la stazza è piccola ma solida, pantaloni e maglietta manco a dirlo sono neri, un grappolo di pass penzola dal collo.
A Chicago, nel backstage di una tra le band più amate della storia del rock, si respira aria da festival anni 70. Mancano del tutto quelle fastidiose sovrastrutture che ti accolgono quando attraversi il mondo delle stelline pop e rock dei giorni nostri. Nessuno sguardo minaccioso da parte di chi si occupa della security, una rilassatezza fuori dal comune, un clima da «saturday in the park» (la cantavano i Chicago, ed era tutto un «gente che parla, sorrisi veri, un uomo suona la chitarra per tutti noi, aiutiamolo a cambiare il mondo, abbiamo aspettato a lungo questo giorno»). Sopra alle nostre teste il cielo americano, che lo hanno raccontato registi, artisti e scrittori, ma poi quando sei lì è sempre meglio di come lo hanno dipinto.
Tracce di divismo nessuna, se non che il grande capo Gregg Allman è il primo a rintanarsi nel suo roulottone, una riproduzione fedele e migliorata di quegli RV argentati, a specchio, celebrati da molti cult movies americani. Allman, che un giorno scrisse «le mie canzoni sono sogni ad occhi aperti e anche incubi ad occhi aperti», è reduce da mesi travagliati che gli hanno imposto qualche stop e un controllo rigido della propria salute. Nessuno, tra i tanti che avrebbero voluto salutarlo, pensa che il suo sia un atteggiamento. E poi, diciamolo, la vera star del gruppo resta lui e ci può anche stare.
Chiusa la portiera dell’imponente camper, West si ferma a godersi quei momenti post concerto che spesso rivelano meglio della musica quale sia il clima intorno a una band. C’è poco da aggiungere quando vedi che i musicisti, i più giovani con i più vecchi ancora fradici, restano lì, a parlare di quel certo momento dello show in cui è successo qualcosa di speciale o della ragazza in prima fila che non smetteva di lanciare occhiatine dolci. Non può essere fraintesa e scambiata per routine la disponibilità a trattenersi con attempati fan e amici venuti da lontano per commentare la serata o fare ipotesi sul futuro. Già, il futuro. Ne parleremo.
Siamo in pieno tour 2008 degli Allman Brothers, si sarà capito. Ma quando Kirk West dà uno sguardo alla mia t-shirt grigia, consumata ma non abbastanza da nascondere un enorme fungo che di commestibile ha ben poco, si spalancano le porte del passato. «Come fai ad averla, è del nostro tour del 1990». «C’ero, nulla di più semplice», rispondo secco, «e se proprio vuoi saperlo quando l’ho comprata erano dieci anni che mancavo: la mia prima volta era stata a Detroit, al Pine Knob Center, anno 1980». Come quando tra reduci si parla dei ricordi al fronte e di quella certa sera, basta un attimo, un’occhiata e si riducono distanze e barriere linguistiche. Il resto lo fa la passione per certe cose. Perché se tre sole visite a una band in poco meno di trent’anni possono sembrare poche, in un attimo diventano un passepartout e una laurea in micologia. Così non importa se sono di passaggio perché diretto in un’altra città americana a “coprire” un altro evento, io e i miei amici fotografi Paolo Di Pietro e Giovanni Canitano possiamo aggirarci «liberi come uccelli», e che sia consentito in questa sede rubare il titolo a un altro miracolo di southern rock come Free Bird dei Lynyrd Skynyrd. A proposito di Skynyrd: al contrario degli Allman hanno trovato un promoter in grado di portare un po’ di classic rock nel nostro paese. Accadrà tra la primavera e l’estate, quando per i capostipiti del genere, Gregg e compagni, sarà invece tempo di grandi celebrazioni americane per il quarantennale della loro carriera. Eccolo il futuro, che però tanto sa di passato.
Sembra ieri ma sono già passati vent’anni da quando Dreams, cofanetto quadruplo (all’epoca si facevano ancora le scatole quadrate, formato album, con pozzetti per contenere i cd e libretto di dimensioni spettacolari) celebrava il ventennale dell’esordio della band dei fratelli Allman, nella formazione originale con Gregg e Duane (quest’ultimo scomparso nel 1971 a causa di un incidente motociclistico avvenuto a Macon, dove il gruppo è nato). È ancora un oggetto bellissimo, anche se superato, nella sua funzione antologica, dagli eventi (da quel 1989 altri album in studio, molti live, cambi di organico e importanti ramificazioni di cui andremo a dire). Cartone opaco che sembra cuoio, nome del gruppo scritto in bassorilievo, un concept vincente che pesca dagli anni degli Allman Joys e degli Hour Glass (quando i fratelli, non ancora protagonisti della scrittura, pescavano nel repertorio dei bluesmen come Robert Johnson e Willie Dixon e di un giovanissimo Jackson Browne), Dreams era già un bella summa di eventi ed emozioni. Attraversava gli anni di gloria, quelli dei primi album (da quello eponimo del 1969 al celeberrimo live At Fillmore East) e della consacrazione (Eat A Peach e Brothers And Sisters) e si allungava fino a tutti gli 80, stagioni in cui la band ha un po’ campato di rendita, vivacchiando tra pochissimi dischi in studio e una consistente attività on the road.
Guardi Butch Trucks, segaligno e incessante battitore di tamburi, e suo nipote Derek, che ha una vaga somiglianza con il giovane Duane Allman, e cogli il filo rosso che lega passato e presente di questo gruppo duro a morire. Insieme fanno novant’anni. Il primo ha fondato la band con i fratelli Allman, il secondo, che compirà trent’anni più o meno quando il primo album della band ne conterà quaranta, è sul carro da quasi dieci anni, dunque compleanno di carriera vicino anche per lui. Derek, biondo con i capelli raccolti in una coda di cavallo, chitarrista inserito nel 1994 da Rolling Stone tra i migliori 100 del panorama mondiale, affianca ora Warren Haynes e insieme fanno una coppia di chitarristi che riesce ad alleggerire il peso della mancanza, grave, di Dickey Betts, uscito dalla band nel 2000, anzi licenziato via fax prima del tour estivo del 2000, che coincise con l’ingresso ufficiale di Warren Haynes.
Di Betts, che durante gli anni 90 aveva saltato parecchie date della band ufficialmente per motivi personali (ma tutti sanno dei suoi problemi legati all’alcol), sembra vietato parlare nell’entourage, visto che all’epoca della separazione, lui, che era tra i fondatori, fece causa agli altri. Il suo è un passato fatto di luci e ombre all’interno del gruppo. Non va dimenticato che ha legato il suo nome alle composizioni più rappresentative della band (indimenticabili Jessica, Ramblin’ Man e In Memory Of Elizabeth Reed) e che suo figlio, che lo affianca oggi nel progetto Dickey Betts And Great Southern (prima c’era stata la Dickey Betts Band) si chiama Duane, come la prima chitarra degli Allman con cui fece coppia a cavallo tra i 60 e i 70. Col gruppo di Macon ha un rapporto di grande amore, ma anche di odio, scatenatosi negli ultimi anni.
Shelley Valfer, account del gruppo ma anche road manager di molti progetti laterali, non cita mai Betts direttamente, ma ci parla con entusiasmo delle «celebrazioni per il quarantennale che in primavera investiranno la nostra grande famiglia, vecchi e nuovi amici, ospiti eccezionali che saliranno sul palco per rendere omaggio a una grande storia rock americana». È simpatico e prodigo di informazioni sulla famiglia allargata Allman: «Siamo sempre in tour, appena finisco con i ragazzi si ricomincia con la band di Derek (Derek Trucks Band, nda) e con quella di Warren Haynes (Gov’t Mule, nda); non c’è sosta: è la mia vita, è la nostra vita, non li cambierei con nessuno, ho lavorato in passato con altri artisti ma lasciamo perdere, questa è musica». Lui che è dentro la macchina organizzativa da anni ha una spiegazione riguardo allo stop che il gruppo ha dovuto osservare all’inizio del 2008, compromettendo anche il consueto appuntamento con le multiple nights al Beacon Theatre di New York, ormai una tappa fissa nel rapporto forte tra ABB e i fan del nord del paese, ai quali si aggiungono quelli che dall’Europa provano a mantenere un contatto con una leggenda che dalle nostre parti si vede poco (qualche puntata di Derek Trucks e Haynes, anche in Italia, con le rispettive band, un tour quasi abortito per Gregg Allman che nell’estate del 2007 fu protagonista al Pistoia Blues Festival ma che vide due suoi show, a Milano e Roma, cancellati per scarsa prevendita): «Ci siamo fermati» spiega Valfer «perché Gregg non ce la faceva, è stato un sacrificio necessario ma recupereremo presto». Gli fa eco, e offre dati ancora più precisi, West: «Gregg ha contratto il virus dell’epatite C, cosa al giorno d’oggi curabile ma che richiede un attento trattamento. Nel suo caso sono stati gli effetti collaterali a bloccarlo, non ce la siamo sentita di spremerlo troppo. Avevamo fissato 15 date a New York per il mese di maggio, tutte al Beacon Theatre, ma abbiamo bloccato tutto. Meglio offrirgli tempo per il riposo necessario e ripartire quando era pronto».
Chiedere a Shelley di Allman è come interrogare un bambino sugli effetti della cioccolata: «Lui sa ancora essere un artista strepitoso, lo hai visto stasera, ma ha bisogno di essere al 110% per garantire certi risultati, così tutti noi rispettiamo le sue necessità e quando lui, che tra il 2007 e il 2008 è stato in cura per sei mesi, deve fermarsi ci fermiamo tutti noi, anche se il motore è sempre acceso con le altre band di casa».
A un certo punto il discorso torna spontaneo all’evento di cui abbiamo appreso dalla fonte migliore e che ormai tutti attendono, ovvero le serate del 2009 al Beacon che coincideranno con il quarantennale del gruppo. Quando azzardiamo un’ipotesi sulla carta impossibile, e facciamo il nome di Dickey Betts, qualcuno dice che «ci saranno grosse sorprese, si sta lavorando per rendere unici quegli spettacoli e i vecchi fan saranno soddisfatti». Lecito sperare che la grande famiglia, che oggi, dopo molti cambi di organico, conta di nuovo su ben tre membri originali (Allman, Butch Trucks e l’altro batterista Jai Johanny “Jaimoe” Johanson), torni in armonia sia pure per una sola sera.
Duane Allman e Berry Oakley sono morti da un pezzo, così come il bassista degli anni 80 Allen Woody. Chuck Leavell (entrato nel 1972 e per questo assimilabile agli “storici”) è ormai da troppi anni al seguito dei Rolling Stones per fare pensare a un rientro (ma chissà, le celebrazioni servono a forzare certe situazioni apparentemente compromesse). Resterebbe Betts tra gli invitabili del giro stretto, poi porte aperte a chissà quali e quanti nomi. Previsioni difficili perché solo i protagonisti possono sapere cosa bolle in pentola e quali sono le loro aspirazioni, ma il gioco è stimolante. Anni fa Sheryl Crow fece un bel po’ di date sul palco degli Allman dopo avere aperto per loro, Eric Clapton (che negli anni di Derek & The Dominos suonò con Duane Allman) è sempre stato vicino al gruppo e non va dimenticato che ha utilizzato Chuck Leavell nelle sue live band. Sono due nomi facilmente accostabili alla formazione di Macon, Georgia, ma non c’è limite all’immaginazione. Dalla grande famiglia delle jam band potrebbe arrivare anche l’ex Grateful Dead Bob Weir che nel 2008 ha spesso aperto i concerti di Allman e compagni con la sua formazione Rat Dog, un gustoso combo di musicisti che ha ospitato occasionalmente anche – guarda un po’– Dickey Betts e Warren Haynes. In estate, durante una delle tante date che Weir ha aperto per ABB, durante i bis di questi ultimi si è presentato l’ex Dead per una splendida versione a tre – lui, Derek Trucks e Warren Haynes – e tutti insieme hanno eseguito I Shall Be Released di Bob Dylan (di quest’ultimo il tour 2008 ha presentato anche It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry).
I più attenti alle vicende di questa carovana di southern rocker ricorderanno quando nel 2004, sempre al Beacon di New York, oltre alla blues girl Susan Tedeschi fu ospite nella stessa serata l’intera sezione fiati di Southside Johnny, gli Asbury Jukes. A dir poco brillante la selezione dei brani che la versione potenziata della Allman Brothers Band presentò in quell’occasione: Into The Mystic di Van Morrison, The Night They Drove Old Dixie Down di The Band e I’ve Been Loving You Too Long di Otis Redding. Più recentemente, esattamente la notte di Halloween, a fine ottobre scorso, la band si è superata in fatto di sorprese, confezionando uno show incredibile, il cui secondo set è stato riservato interamente al repertorio dei Pink Floyd.
Per quanto siano sei anni, da Hittin’ The Note (2003), che il gruppo non entra in studio per registrare nuove canzoni (ma c’è il precedente del tour per il ventennale, subito dopo il quale venne dato alle stampe l’ottimo Seven Turns) non siamo in presenza di una formazione statica e prevedibile.
Si attende presto l’annuncio ufficiale delle date newyorchesi e dell’intero piano di attacco dell’ABB 40th Anniversary che si dovrebbe estendere per buona parte del 2009, raggiungendo il suo culmine verso la fine dell’anno.
Prendete queste pagine come più di una promessa e se avete perso qualche puntata tornate sulle tracce di questa meravigliosa band partendo dal primo disco, che la gloriosa etichetta Capricorn Records (ci vorrebbe un articolo a parte per tracciarne la storia) pubblicava nel novembre 1969. C’era stato da poco il Festival di Woodstock, le tre J poi perdute del rock (Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin) erano ancora tra noi, mentre i primi cantori della me generation stavano attrezzandosi. Dall’altra parte dell’oceano i Beatles dovevano ancora vedersela con le voci che volevano Paul McCartney morto tre anni prima e sostituito da una controfigura. Dall’altra parte della musica, il jazz continuava a “liberarsi” e suggeriva le prime commistioni con il rock. I ragazzi di Macon avevano incrociato la canzone d’autore, stavano mescolando carte diverse e si guardavano parecchio attorno.
Erano quegli anni lì, ABB aveva basi salde nella terra rossa del sud ma era allo stesso tempo, il loro, un progetto futurista. Ci si sorprese quando il cofanetto Dreams, che tra breve potrebbe conoscere un’edizione aggiornata, vent’anni fa riportò al suo interno questa sapiente nota di John Swenson: «Gli Allman Brothers Band non hanno solo creato il southern rock, ma grazie alle virtuose invenzioni armoniche di Gregg Allman e Dickey Betts e alla sezione ritmica ha anticipato la direzione che il jazz americano stava per prendere. A loro modo, ABB sono stati l’equivalente rock del leggendario Miles Davis, la cui band presentava l’interazione tra i sassofonisti John Coltrane e Julian “Cannonball” Adderley».
Non si entra per caso nella Rock’n’Roll Hall Of Fame e non accade con facilità che quattro chitarristi che hanno abbiano fatto parte della stessa formazione (Allman, Betts, Haynes e Trucks) vengano inseriti tra i 100 migliori di tutti i tempi.
Miracoli del sud.