La copertina di per sé è abbastanza eloquente. L’immagine esoterica, sdoppiata come davanti a uno specchio, di tre monaci barbuti intenti in chissà quale misterioso rituale, immersi nella quiete pagana di una natura che appare incontaminata, ineluttabilmente distante dal nostro tempo. Sfoderato il vinile dall’involucro, al rumore della puntina che cade sul solco segue un intricato arpeggio di chitarre acustiche, rigorosamente in tonalità minore. L’incedere del brano è epico, solenne, sacrale, tremendamente malinconico. Il canto, sommesso, recita: «Quando le azioni dell’uomo aprono una breccia nel suolo / Oh, lasciami entrare, lasciami entrare, non farmi attendere (…) Grandioso è il suono di tutto ciò che vive / E di tutto ciò che l’uomo può avere». La melodia viene doppiata da un flauto, mentre la strumentazione resta prevalentemente acustica.
No, non è un oscuro e ammuffito lp di folk progressivo inglese, ripescato da chissà quale negozietto di Soho. È un (gran bel) disco del 2010. Di una band americana. Texana, per la precisione. Qualcosa non torna?
Beh, chi conosce già i Midlake non resterà molto stupito. Pur provenendo da Denton, Texas, sin dagli esordi nel lontano 2001 i cinque non sembrano aver mai mostrato grande interesse verso la tradizione musicale della loro terra d’origine, tanto meno sono apparsi necessariamente ancorati alla cosiddetta modernità. Quello che li ha contraddistinti, piuttosto, è stata la sistematicità e metodicità con cui hanno assecondato la propria musa. Se l’ep di debutto Milkmaid Grand Army recitava a suo modo la lezione dei Radiohead, l’esordio su lunga distanza del 2004 Bamnan & Slivercork virava verso un indie pop sintetico, psichedelico e fantasioso in stile Flaming Lips/Grandaddy, condito da una buona verve letteraria e una certa padronanza del linguaggio musicale in oggetto (tutti i membri hanno studiato musica all’Università del Texas).
Fin qui tutto normale, direte voi: l’iter di una qualsiasi band americana con velleità indie, pur munita di innegabili qualità e di un gusto leggermente al di sopra della media. Eppure c’è un motivo per cui Simon Raymonde, ex bassista dei gloriosi Cocteau Twins e boss della Bella Union (etichetta ormai di culto che tiene sotto la sua ala Fleet Foxes e Beach House, giusto per nominare due degli acquisti più recenti), aveva fortemente voluto i Midlake alla sua corte, o per cui l’attore Jason Lee (star del telefilm cult My Name Is Earl) li sponsorizza da tempi non sospetti. Con The Trials Of Van Occupanther (2006), ciclo di canzoni-storie che ruotano intorno alla figura di uno strambo e solitario inventore che ama indossare una maschera da pantera, diventa immediatamente evidente che il combo texano ha qualcosa di unico. Che l’unicità non coincida necessariamente con la novità è uno dei grandi dogmi della musica pop (anche qui vale la regola d’oro «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma»), e infatti il disco non fa altro che riprendere – benissimo – certi stilemi del rock leggero degli anni 70, dai Fleetwood Mac agli America passando per il Neil Young classico e altri artisti “soft” della West Coast. In breve Roscoe, la canzone di apertura dell’album, diventa un piccolo caso grazie al passaparola su Internet: da qui il nome dei Midlake passa di bocca in bocca fino a diventare uno tra i più chiacchierati di quell’anno. Tra gli apprezzamenti unanimi di ascoltatori e critica, il disco finisce in più di una top 10 annuale. Non male per un gruppo che ha scelto, più o meno consciamente, di suonare musica tremendamente fuori moda.
«Forse qualcuno può pensare che siamo dei passatisti, ma non è un nostro problema», commenta Paul Alexander, bassista della band. «È indubbio che attingiamo molto dal passato, e che non siamo molto influenzati da quello che accade oggi. In realtà è molto semplice: quando suoniamo cerchiamo di rappresentare al meglio la musica che ci piace e, come gruppo di persone e non solo come singoli musicisti, riflettiamo i nostri ascolti. Alla fine, quello che conta, è evolverci».
Un’evoluzione, in effetti, c’è stata; soltanto, la strada è stata imboccata contromano. The Courage Of Others, il monolito brit folk che segna il loro atteso ritorno dopo quasi quattro anni, è la dimostrazione che per i Midlake il passato è non tanto un approdo sicuro (o una scelta facile e un po’ snob, magari), ma una nuova frontiera da esplorare, una terra fertile da conquistare. Una pagina ancora da scrivere. E in questo viaggio a ritroso non sono certo i soli: basti citare i Decemberists, anch’essi tutt’altro che immuni da tentazioni letterarie e fascinazioni folk made in England, o gli Espers, bucolici divulgatori del verbo psichedelico nonché uno dei dichiarati punti di riferimento del nuovo suono dei nostri (è interessante notare che anche queste band sono americanissime; un fenomeno “distopico” che, se non altro, è segno della realtà globalizzata in cui viviamo). D’altronde, già anni fa il leader e songwriter Tim Smith non nascondeva di avere un sogno nel cassetto: riuscire a scrivere canzoni come quelle dei Jethro Tull. Per quanto la componente prog risulti parecchio attenuata rispetto a quel modello, ad ascoltare The Courage Of Others sembra che si sia parecchio avvicinato al risultato sperato. L’inevitabile rovescio della medaglia consiste nel costante rischio di incappare in determinati cliché musicali. «Di questi tempi, quando prendi in mano uno strumento, ci sono altissime probabilità che qualcuno abbia già suonato la stessa cosa. Negli anni 60 o 70 circolava molta meno musica di oggi, era tutto più semplice. È anche per questo motivo che abbiamo impiegato più di due anni per questo disco: ci vuole tempo per raggiungere il posto dove vuoi andare in termini musicali, e noi amiamo muoverci con cautela».
Come per Van Occupanther e gli altri lavori che lo hanno preceduto, in The Courage Of Others Tim Smith e i suoi hanno fatto proprio un determinato linguaggio musicale, scegliendo con estrema cura l’abito che ritenevano più adatto alle loro canzoni; ma non si tratta di un mero e freddo esercizio stilistico. È, semmai, l’espressione di un mood specifico, la ricerca di un ambiente preciso in cui immergersi all’atto dell’ascolto. Non è un caso se la maggior parte dei brani sono in tonalità minore e trasudano malinconia ad ogni nota.
«C’è sicuramente un’emozione che abbraccia tutto il disco nel suo complesso. È per questo che li chiamano album, no? Soprattutto, volevamo che fosse un lavoro coeso, con un’identità precisa e in grado di veicolare determinati sentimenti. E nelle canzoni c’è sicuramente del… dolore, qualcosa che Tim provava nel momento in cui scriveva», spiega Paul.
Pur senza l’impianto narrativo di Van Occupanther, i brani dell’album sono tematicamente legati da un nostalgia verso un passato lontano e ormai perduto, a cui si accompagna il desiderio di un ritorno alla natura (in Core Of Nature si cita persino Goethe), a un’innocenza ritenuta irraggiungibile; tutto suona mistico, quasi irreale (proprio come la copertina, ispirata al film Andrei Rublev del regista russo Andrei Tarkovsky), eppure immediatamente riconducibile a uno stato d’animo condivisibile. Un balzo in avanti come autore per Smith, a cui si accompagna il progresso di una band in grado di unire con assoluta naturalezza ispirazione e rigore compositivo. Con l’approccio degli apprendisti volenterosi, i Midlake perseguono un metodo di lavoro che li distingue da molte altre band in circolazione e li accosta semmai a stakanovisti del calibro dei Radiohead, veri perfezionisti dello studio di registrazione.
«Dopo il tour di Van Occupanther abbiamo scritto e registrato un intero album, che poi abbiamo scelto di non pubblicare. Non che non ci piacessero le canzoni, anzi alcune erano molto buone; volevamo soltanto progredire rispetto al nostro vecchio suono. Siamo molto critici verso noi stessi, e anche se non sempre è un fattore positivo, riteniamo che alla fine sia meglio aspettare che arrivi il migliore dei risultati».
01/04/2010
MIDLAKE
Il passato non è scritto