Non proprio il fenomeno del momento, ma quasi. Arrivano da Londra, ma soprattutto da quella parte oscura degli anni ’80, la new wave o, se preferite dal post punk che ebbe come epicentro la periferia di Manchester. Da quella musica che, per assonanza, fino a qualche tempo fa riconduceva rapidamente al concetto di “indie”, prima dell’avvento del pop finocchio, del folk glamour e del revival guitar glitch.
Per i neofiti, per gli hipster stanziali o migranti, per gli ultimi paracadutati nello sconfinato mondo del nuovo underground, una vera manna. Voce dark, melodie incompiute d’assalto, sezione ritmica poderosa e una chitarra sporca e tagliente a riempire gli spazi; insomma, gli ingredienti giusti. Per quanti hanno alle spalle un minimo di prospettiva storica reale (ascolti veri, non info da Wikipedia), niente di nuovo.
Il disco di debutto, Silence Yourself, è però ben confezionato, molto calibrato e gode di una produzione impeccabile (John Best ha lavorato sul suono dei Sigur Ròs, tanto per dire). Ci è piaciuto parecchio, al di là delle questioni legate all’originalità o meno, e a una certa filologia che le riconduce direttamente al punk scuro di Siouxie e via discorrendo. Il gioco dei contrasti è tenuto sapientemente attivo: le contraddizioni apparenti alimentano l’immaginario senza mai sciogliere le dicotomie (donne e muscolarità, citazionismo senza sudditanze, rigore e appeal commerciale…) e questi aspetti tengono viva la curiosità.
Tutto questo ben di Dio è approdato in settimana al momento giusto e al posto giusto: martedì 21 al Circolo Magnolia. L’occasione era appunto quella di sperimentarne la consistenza live ed eventualmente godere di un “primo passaggio” che ne testasse le prospettive, anche perché le ragazze giocano molto nei video sulla dimensione d’impatto on stage.
Dal vivo però qualcosa manca (o, paradossalmente, c’è qualcosa di troppo). Le ragazze partono invero bene, l’amalgama sonoro è pressoché omologo all’album ma l’aria è fresca e la figura androgina della cantante Jehnny Bet che si muove a scatti in controluce fa davvero pensare a Ian Curtis (tornato alla memoria collettiva di Facebook proprio in questi giorni, per le consuete personali celebrazioni nell’anniversario della scomparsa).
Dopo alcuni brani però, la frontman tira il fiato, assecondando la voglia di rumore e “bastardità” proveniente da un pubblico caldo che, a nostro parere, si sarebbe scaldato comunque mantenendo il tiro calibrato dell’album. E’ da lì che, a volume più alto e in totale balia di un’audience affamata come pochi, le Savages proseguono il concerto sopra le righe. Pezzi troppo tirati ed eccesso di energia finiscono per appiattire le sfumature che rendono accattivanti i brani sul disco.
Il pubblico si connota per la presenza di fan attenti più che di hipster con fissa dimora al Magnolia e l’escursione anagrafica è notevole. Allarmano un po’ certi discorsi captati al banco del bar (“Ma sono lesbiche o no?” – “Certo che lo sono”).
All’uscita discorriamo sulla facilità di attecchimento di certa musica quando proveniente dall’estero (da New York o Londra non fa dfferenza), mentre gruppi italiani del genere non sono proprio profeti in patria. E’ il caso dei ravennati Doormen, ma in maniera molto più esplicita, dei romagnoli Soviet Soviet , entrambi più aprezzati fuori dai nostri confini. Provate a cercarli su Youtube e valutarne le differenze…