13/03/2013

A proposito di dream pop

Yo La Tengo e Beach House: folto pubblico di milanesi (anche celebri) e qualche piccola parentela musicale

Succede a Milano, una domenica e un lunedì sera. Il double di concerti che ha attirato un discreto numero di appassionati ha visto esibirsi prima gli Yo La Tengo (domenica 10 al redivivo Lime Light di via Castelbarco) poi i Beach House (la sera dopo ai Magazzini Generali).
Non sono molti i chilometri che separano Hoboken (New Jersey), luogo di provenienza degli Yo La Tengo (anche città natale di Frank Sinatra) da Baltimore (Maryland), punto geografico che segna le radici dei Beach House. Entrambi in forma di duo + uno, entrambi con una figura femminile di spicco nella band (dopotutto l’odore poco accattivante della mimosa era ancora nell’aria in queste serate). E, se vogliamo trovare altre attinenze, entrambi accomunati da convergenze musicali nel cosiddetto “dream pop”, almeno nel territorio in cui le sempre eclettiche definizioni di genere stilate dagli amanti del “file under” mostrano i loro improbabili intrecci.

Infatti, è un dream pop sui generis  e sicuramente il “di cui” di uno spettro molto più ampio quello di Ira Kaplan e di sua moglie Georgia Hubley, declinato decisamente all’americana, quindi legato alla tradizione, anche se mascherato da elementi ludici, sia nella scrittura sia negli arrangiamenti. Sofficità raffinate, che gli Yo La Tengo hanno esibito in veste prevalentemente acustica, quasi sottovoce, aggregando i brani più adatti nell’apposito set che ha scandito la prima parte dello show (la seconda, dopo una pausa di una ventina di minuti su un totale di quasi 120, molto più elettrica e tirata).

Il dream pop di Alex Scully e Victoria Legrand, che ha attratto un folto e partecipe pubblico (con 15 anni di meno all’anagrafe rispetto alla media dei presenti della sera precedente) è invece più fighetto e convenzionale, e si rifà a piene mani alla stagione british degli shoegazer più eterei e liquidi, con quel filo di psichedelia che disegna abilmente paesaggi obliqui e onirici. Questa è però l’unica cifra dei Beach House, che non hanno modalità “altre” di scrittura e che dal vivo (complice la pessima resa acustica della location e il suono inspiegabilmente soffocato della chitarra di Scully) cedono sul terreno molta della loro dinamica, risultando nel complesso piuttosto piatti e noiosetti, a parte un impatto scenico di notevole livello e il discreto carisma, soprattutto per merito dell’imponente Victoria.

Nel set acustico degli Yo La Tengo si segnala una Ohm sorretta dalla dodici corde del corpulento bassista James McNew (ritroveremo poi il brano, in altra veste, nella seconda parte) e una delicatissima I’m On My Way dall’album “Popular Songs”. Tutt’altro feeling nella parte elettrica, in cui Kaplan dà ampio sfogo al proprio bagaglio chitarristico (in tutti i sensi), con brani garage punk e code psichedeliche, alternati nel repertorio (compresa l’immancabile e immutabile Sugarcube) e ben tre cover, due delle quali nei bis: la Little Honda dei Beach Boys rifatta un po’ da tutti; una Nervous Breakdown che pesca nel territorio hardcore dei Black Flag; e, subito appresso, come saluto finale, addirittura una canzone di Gene Clark (Tried So Hard) a suggellare ciò che si diceva a proposito del dream pop come “di cui” di una tavolozza molto articolata.

Gli affascinanti Legrand e Scully, enormemente cresciuti in popolarità e caratura artistica nel giro di poco tempo (chi se li ricorda alla Casa 139, appena quattro anni fa?) hanno spiattellato quasi tutte le cartucce sul nuovo album “Bloom”, in effetti una delle uscite discografiche migliori del 2012, disco stracolmo di belle canzoni un po’ per tutti i gusti. Consensi a pioggia per l’iniziale Wild, per le successive Troublemaker e Other People, ma anche per alcune scelte tratte dal precedente e fortunato “Teen Dream”. Come su “Bloom”, i Beach House salutano il devoto pubblico con la bella Irene.
Colti fra la gente delle ultime file, un po’ assonnati, Amedeo e Simone Pace dei Blonde Redhead (“siamo venuti a Milano a salutare la mamma”) che ci raccontano sinteticamente di un nuovo disco quasi ultimato a New York, senza fretta alcuna e senza vincoli con nessuna label.
A proposito di dream pop, appunto…            

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