Folk, sudore e passione. Questo sono i Mumford & Sons. Hanno all’incirca 25 anni, sembrano sbucati dalle pagine di Furore e sono il fenomeno musicale del momento. Il secondo album Babel ha conquistato le classifiche di mezzo mondo, i biglietti per i loro concerti vanno letteralmente a ruba e ovunque suonino fanno il tutto esaurito. Chi l’avrebbe mai pensato, quando uscì il debutto Sigh No More nel 2009, che nel giro di tre anni questo quartetto folk inglese sarebbe arrivato a riempire per due sere consecutive il prestigioso Red Rocks Amphitheatre, in Colorado?
Alla base di questo straordinario successo c’è un’esplosiva miscela musicale che possiede al contempo il fascino della tradizione folk inglese e americana, l’energia contagiosa del bluegrass e la forza d’urto del rock. Ogni concerto dei Mumford & Sons è una specie di rito collettivo celebrato per rendere omaggio agli dei della musica. L’energia incontenibile della band e la sua maestria nel creare coinvolgenti dinamiche vengono elevate all’ennesima potenza dalla risposta emotiva del pubblico, dando vita a un’esperienza unica nel suo genere. Se n’è accorto perfino Robert Plant… durante la conferenza stampa tenuta a Londra per presentare Celebration Day, quando gli è stato chiesto se secondo lui c’è qualche nuova band che possiede la magia dei Led Zeppelin, ha risposto: «Mi eccitano i Mumford & Sons per come riescono a galvanizzare il pubblico».
«Abbiamo aspettato con ansia di suonare a Red Rocks», ha detto Ben Lovett ai microfoni di Radio KBCS. «Per noi è un traguardo importante». «Se esci dai soliti percorsi inizi a interrogarti», dice Marcus, «perché ovviamente i posti in cui si può andare sono limitati, specialmente per una band come la nostra. Non abbiamo mai ambito a riempire gli stadi o diventare la più grande band del mondo. Le cose, però, si sono evolute in modo inaspettato e ora stiamo cercando di capire fino a che livello ci sentiamo di arrivare».
Dal modo in cui hanno fatto tremare le imponenti rocce rosse del Colorado si direbbe che non c’è luogo in cui questi quattro ragazzi non possano suonare: prova ne è il dvd The Road To Red Rocks, diretto da Frederick Scott e Nicholas Jack Davies. La band non si risparmia, come sempre, regalando una performance tirata e incredibilmente energica. A dargli man forte, sul palco, la forza propulsiva di Nick Etwell, Dave Williamson e Ephraim Owens ai fiati più Ross Holmes al violino. Dall’iniziale
Lovers Eyes alla conclusiva The Cave, i Mumford ci danno dentro come pazzi, passando in rassegna dodici brani del loro (per ora) limitato ma prezioso repertorio. Ogni canzone possiede la forza evocativa di un inno e la semplicità di un’antica ballata. La voce di Marcus Mumford è ruvida come l’asfalto macinato tra una data e l’altra di quello che la band ha battezzato Gentlemen Of The Road Tour: «Dopo aver preso parte a molti festival», spiega Winston Marshall, «abbiamo pensato di fondere le migliori idee che ci hanno ispirato e organizzare dei festival di una giornata che abbiamo ribattezzato “scali”. In America ne abbiamo fatti quattro». Alcune immagini della tranche estiva del tour si alternano a quelle della performance a Red Rocks, fornendo il ritratto di una band in costante movimento, che ama collaborare e trarre nuova energia dallo scambio creativo con altri gruppi. Come i californiani Dawes per esempio, ospiti in Awake My Soul.Ne hanno fatta di strada i Mumford da quando si sono formati sul finire del 2007. Sono diventati una perfetta macchina da concerti. Il palco è il loro elemento, e quando si accendono i riflettori sanno di dover dare il cento per cento, come se ogni show fosse l’ultimo. Nessun risparmio energetico o emozionale sembra essere ammesso. La strada e il palco regalano esperienze preziose e ricordi indelebili che poi si trasformano in canzoni, ma chiedono in cambio onestà, impegno, perseveranza, fedeltà. Questi quattro giovani musicisti l’hanno capito, e sembrano intenzionati a dare tutto ciò che hanno pur di continuare a viaggiare, scrivere e suonare. È da questa consapevolezza che sgorga il selvaggio flusso energetico di Dust Bowl Dance, alimentato dalla follia pianistica di Ben Lovett, dagli spietati colpi inflitti da Marcus alle pelli, dalle pulsioni acrobatiche del contrabbasso di Ted Dwane e dalle frustate elettriche della chitarra di Winston. Little Lion Man corre all’impazzata tra le corde della chitarra acustica di Marcus, mentre le armonie vocali di Ghosts That We Knew si alzano lievi come i versi di una preghiera. Ogni canzone è come un viaggio sulle montagne russe: un attimo prima stai risalendo in tutta calma le rotaie di un’affascinante melodia e un momento dopo sei lanciato a tutta velocità in un folkeggiante giro della morte. In Roll Away Your Stone le raffiche di banjo si fanno micidiali: “Country” Winston cavalca compiaciuto il suo strumento come se fosse un indiavolato toro da rodeo. Il pubblico grida, batte le mani a tempo e salta creando onde umane anomale che si infrangono con forza sulle monumentali rocce rosse dell’anfiteatro.
Red Rocks è stato conquistato. E ora, cosa succederà?
«Domattina, quando ci sveglieremo, ci penseremo», dice Ben. «Siamo in fase di esplorazione, alla ricerca di nuovi posti che ci emozionino, nuovi traguardi da raggiungere».