Il chitarrista Jim Campilongo ci racconta di quando ha lasciato il sole della California per trasferirsi nella folle New York. Della sua passione per gli strumenti vintage. Di quella data con Norah Jones fissata per l’11 settembre 2001. E ci spiega perché i Little Willies potevano nascere solo nella città che non dorme mai.
Nel 1953 John Steinbeck ha detto: «New York è una città brutta, sporca. Il clima è insopportabile. La politica serve solo a spaventare i bambini. C’è un traffico pazzesco e una competizione micidiale. Ma una volta che ci hai vissuto abbastanza a lungo da farne la tua casa, non troverai mai un posto migliore».
A 59 anni di distanza, queste parole incarnano ancora il credo di ogni newyorchese doc. Poco importa essere nati all’ombra della Statua della Libertà o essere uno dei suoi tanti figli adottivi perché, come ha detto una volta il comico Jackie Mason, «a New York chi parla un inglese impeccabile sembra uno straniero».
Ce lo conferma Jim Campilongo, chitarrista sopraffino nato e cresciuto a San Francisco, dove si è fatto le ossa suonando in una moltitudine di formazioni, sfornando diversi album solisti (il primo, Jim Campilongo & The 10 Gallon Cats del 1996, è un omaggio strumentale alla tradizione country iniettato di rockabilly e western swing) e collaborando con una lunga schiera di colleghi, da JJ Cale ai Bright Eyes, passando per Cake, Gillian Welch & Dave Rawlings e Martha Wainwright.
In una piacevolissima chiacchierata telefonica, Jim ci racconta di quando ha lasciato le certezze della Bay Area per ricominciare tutto da capo nella Grande Mela, dove la musica ti sorprende ad ogni angolo di strada e permea ogni istante della tua vita, aprendoti il cuore e la mente. Ci racconta di quando l’amico chitarrista Adam Levy l’ha introdotto alla corte di una giovane musicista di talento in procinto di conquistare il mondo armata solo di un pianoforte e di una voce irresistibile. E ovviamente ci racconta For The Good Times, secondo lavoro dei Little Willies, progetto nato dalla comune passione per la musica country di cinque musicisti di talento: oltre alla Jones e Campilongo ci sono Lee Alexander (contrabbasso), il songwriter Richard Julian (voce e chitarra acustica) e Dan Rieser (batteria).
Jim, vorrei iniziare con qualche domanda su di te… So che sei cresciuto a San Francisco. Quali sono state le tue prime influenze musicali?
«Probabilmente la musica che ascoltava mia sorella maggiore… Dan Hicks And His Licks, Incredible String Band, la colonna sonora di Easy Rider… Quando avevo 8 anni mi elettrizzava ascoltare quel tipo urlare a squarciagola God damn the pusher man dalle casse dello stereo [si riferisce al brano di Hoyt Axton The Pusher, nel film è stata usata la versione degli Steppenwolf]. Poi sono arrivati i Beatles… Tutto questo prima ancora che compissi 10 anni, e grazie a mia sorella, che era una tipa in gamba, alla moda».
Parlando di moda, so che tu invece sei un tipo all’antica in fatto di strumenti musicali. È verò che usi solo strumentazione anni 50?
«Sì, è vero. Nel 2011 la Fender ha messo in commercio la Telecaster Jim Campilongo Signature ’59, realizzata secondo le mie indicazioni. A parte questa, uso quasi esclusivamente strumenti e amplificatori vintage. Ho gli stessi da circa vent’anni, anche se in effetti non erano vintage quando li ho acquistati… siamo invecchiati insieme [ride]. Qualunque cosa invecchia… praticamente tutto ciò che posseggo è vintage, tranne lo spazzolino da denti».
So che non ami utilizzare pedali, effetti e cose del genere. La tua chitarra è collegata direttamente all’amplificatore, ma questo non ti impedisce di creare una grande varietà di suoni. Mi verrebbe da dire che la tua arma segreta non è certo la tecnologia, quanto piuttosto l’approccio fisico che hai con lo strumento…
«Il fatto è che i musicisti che amo ascoltare, Chet Atkins, Jimmy Bryant, Roy Buchanan, Merle Travis, riuscivano a tirar fuori dalle proprie chitarre una grande varietà di suoni, atmosfere e colori senza ricorrere a trucchetti tecnologici. Ciò dimostra l’enorme potenziale insito in questo strumento… c’è un’infinita gamma di sfumature e combinazioni sonore da esplorare. Molta gente, invece, tende a seguire la moda del momento e cerca di imitare il sound degli U2 o della band che va per la maggiore. Queste cose non fanno per me… i chitarristi che amo collegano la chitarra direttamente all’ampli, senza filtri o effetti, come Joe Pass ad esempio, e riescono lo stesso a simulare il fischio di un treno o cose del genere. Non è un’impresa titanica. Al contrario, trovo più difficile suonare utilizzando gli effetti. Certo, la tecnologia permette di ottenere suoni molto particolari, e per questo la apprezzo, ma il più delle volte il segreto sta nella capacità del musicista di sfruttare le dinamiche, nel tocco, nell’utilizzo di strani accordi e via dicendo».
Passando ai Little Willies, ci racconti come è iniziata questa avventura?
«È una lunga storia, cercherò di farti un riassunto [ride]. Dunque, ero amico del contrabbassista Lee Alexander, ci eravamo conosciuti a San Francisco. Nel 2001 sono andato a New York e ci sono rimasto per un po’ prima di trasferirmi definitivamente l’anno successivo. Un giorno mi ha chiamato Adam Levy, mio amico e chitarrista di Norah Jones, per chiedermi se mentre ero in città potevo sostituirlo in alcune serate, una delle quali al fianco di Norah. Questo prima dell’uscita di Come Away With Me, degli otto Grammy e del successo mondiale. Ovviamente ho accettato. All’epoca conoscevo solo Lee, non avevo mai incontrato Norah, così mi hanno fatto avere un cd con i brani che sarebbero finiti sul suo primo album. Li ho trovati fantastici ed è stato un piacere imparare a suonarli… di solito non mi piace “fare i compiti a casa”. Ricordo di aver chiamato un amico a Boston per fargli ascoltare Don’t Know Why al telefono, dicendo: “Questo, secondo me, è un hit”… Tornando a noi, a New York io e Norah ci siamo incontrati per una prova a due prima del concerto che, purtroppo, era stato fissato per l’11 settembre 2001 alle 11 del mattino. Inutile dire che la data è saltata. È stato un incubo, l’intera città era in preda al panico e regnava il caos più totale. La mia prima reazione è stata quella di tornare in California, ma una volta là ho capito che era troppo tardi… ormai New York mi era entrata dentro, si era creato un legame troppo profondo… dovevo tornare. Quasi senza conoscermi, Norah mi ha invitato a sistemarmi nell’appartamento che condivideva con Lee, e vivendo assieme abbiamo scoperto di essere tutti amanti della musica country… io la suono da sempre. Così, insieme a Richard [Julian, voce e chitarra] e Dan [Rieser, batteria] abbiamo deciso di riprovarci e sono nati i Little Willies. Tra di noi si è creata fin da subito un’ottima alchimia… molti giornalisti hanno scritto che siamo buoni amici, ed è così: siamo ottimi amici. Ma ti posso assicurare che suonerei con loro anche se non mi piacessero, perché sono grandi musicisti! Il rapporto d’amicizia è semplicemente un bonus».
Ho sempre pensato che tra musicisti di diversa estrazione si può facilmente instaurare un dialogo stimolante e produttivo, ma a una condizione: bisogna essere dotati di una mentalità aperta, libera dai pregiudizi, che consente di ragionare e operare fuori dagli schemi comuni…
«Sono d’accordo. Infatti tra noi si è instaurato subito un rapporto molto collaborativo. Siamo estremamente tolleranti, anche perché ognuno porta avanti una serie di collaborazioni anche molto diverse fra loro. Chiunque porta un contributo reale e sincero al gruppo è il benvenuto. Non succede mai che qualcuno mi dica cosa fare e come farlo. Spesso il mio modo di suonare è abbastanza “selvaggio” e difficilmente potrebbe adattarsi a quella che viene definita musica country commerciale. Nei Little Willies, però, è tutta un’altra storia: a ognuno di noi non è richiesto altro che essere se stesso, quindi è stato semplicissimo mescolare i rispettivi approcci musicali instaurando un dialogo costruttivo. E questo è uno degli aspetti positivi di vivere a New York: acquisisci una mentalità aperta, come dicevi tu prima, impari a tollerare e rispettare le altre persone… e succede senza che tu nemmeno te ne renda conto».
Com’è suonare e registrare con Norah Jones?
«È fantastico, Norah è dotata di grande musicalità. In studio non facciamo mai più di tre take e ognuna viene diversa. Non suona mai una canzone due volte nello stesso modo, aggiunge sempre una nuova sfumatura. Quando abbiamo registrato il primo album dei Little Willies questa cosa mi ha un po’ spiazzato, perché sono abituato a studiare un arrangiamento fissando dei punti fermi, per poi svilupparli in modo da ottenere il miglior risultato. Norah invece ha un approccio più jazz e istintivo… c’era una canzone del primo disco che facevamo in Sol e tutt’a un tratto ha detto: “Proviamola in La bemolle”. Alla fine abbiamo tenuto quella versione, senza averla mai provata prima. Suonare con Norah è molto stimolante, la sua saggezza e profondità sono un’ottima fonte d’ispirazione».
Dove avete registrato?
«A New York. Norah ha un grande appartamento e una delle stanze è stata adibita a studio. È molto carino, con il pianoforte, eccetera. È stato divertente, c’era sempre un’atmosfera rilassata, con il suo cane che gironzolava mentre lavoravamo. Abbiamo piazzato la mia attrezzatura in un bagno dotato di un’ottima acustica, e ogni volta che qualcuno andava a fare pipì doveva prima assicurarsi che i microfoni fossero spenti se non voleva essere ascoltato in stereofonia. Certo, non Abbey Road, ma ho trovato il suono giusto e sono molto soddisfatto del risultato».
In molti hanno scritto che Norah ha un approccio vocale diverso, più libero ed espressivo quando si esibisce con i Little Willies. Cosa ne pensi?
«Secondo me Norah sa il fatto suo, sa cos’è meglio per ogni canzone. Se un brano parla di una rissa fra donne o di mettere in riga il proprio uomo, lo canterà in modo completamente diverso rispetto a una romantica canzone d’amore. A parer mio, il segreto sta nei testi. Il repertorio dei Little Willies è diverso da quello solista di Norah, e questo la spinge a sperimentare nuove soluzioni vocali e interpretative».
Entrambi gli album pubblicati dai Little Willies sono costituiti per lo più di cover, ad eccezione di un paio di brani firmati da te. C’è sempre un buon mix di grandi classici e gemme nascoste, come per esempio I Worship You di Ralph Stanley. In questo modo contribuite a tramandare l’eredità di grandi autori sconosciuti alle nuove generazioni. Mi chiedevo, però, se c’è una possibilità che in futuro i Little Willies si concentrino maggiormente sulla composizione?
«Mi piacerebbe… Per l’ultimo album ho scritto un paio di pezzi: lo strumentale Tommy Rockwood e Pennies On The Floor, uscita come bonus su iTunes. Ad oggi ho pubblicato nove dischi a mio nome, per un totale di 95 brani originali. Sembrerà strano, ma per me non fa alcuna differenza suonare un pezzo di Jim Hall, uno di Burt Bacharach o uno di mia composizione. E credo sia lo stesso per gli altri membri della band. Suonare una grande canzone è sempre gratificante, a prescindere da chi l’ha scritta. Forse la penso così perché ho scritto molto… comunque sia, mi piacerebbe comporre altri brani originali. Parlando del prossimo album con Norah e i ragazzi, ho suggerito che sarebbe una sfida stimolante provare a realizzare qualcosa di diverso dai due lavori precedenti».
Hai una tua canzone preferita nel nuovo disco?
«Cambio idea a seconda dei giorni, ma al momento è For The Good Times… Adoro il modo in cui Norah la canta».
Qual è la differenza principale tra For The Good Times e il primo lavoro?
«I rapporti tra noi si sono notevolmente approfonditi, il che ci ha arricchito sia come persone che come band. Allo stato attuale delle cose, siamo già un gruppo migliore di quello che ha registrato For The Good Times, perché abbiamo suonato tantissimo insieme. Settimana scorsa abbiamo fatto I Worship You al David Letterman Show e quando ho rivisto il filmato su YouTube mi sono detto: “È meglio di quella sul disco!”. Questo perché l’avevamo già suonata una ventina di volte nei club, davanti alla gente, ed è in quella dimensione che la band prende il volo. Siamo decisamente migliorati, e vorrei tanto poter continuare a suonare… partire per un tour di sei mesi e venire anche in Italia… sarebbe fantastico».
Noi vi aspettiamo a braccia aperte…
«Adoro l’Italia… negli scorsi anni ho suonato nel vostro Paese come solista e tornarci con i Little Willies sarebbe il massimo».