03/10/2011

WYNTON MARSALIS & ERIC CLAPTON

PLAY THE BLUES (REPRISE / WARNER)

Non è sempre detto che quando due giganti si incontrano nasca una performance all’altezza delle aspettative. Così quando si è saputo che Wynton Marsalis ed Eric Clapton si sarebbero trovati per un concerto in comune al Lincoln Center di New York, le aspettative erano alte, ma rimaneva ancora qualche flebile paura per una riuscita che non fosse armonica, troppo sbilanciata da una parte o dall’altra. I due grandi artisti sono accomunati dall’amore per la musica e in particolare per il blues, ma non si può negare che il loro modo di esibirsi sul palco sia molto differente: come avrebbe potuto Marsalis integrare nel New Orleans sound della sua big band la chitarra di Clapton senza relegarla inevitabilmente in secondo piano, se non altro per via del diverso impatto sonoro?
La prima risposta è stata data lo scorso 12 settembre dalla proiezione del concerto nelle sale cinematografiche americane; l’altra, quella udibile nel resto del mondo, il giorno successivo grazie all’uscita di un cd+dvd dal titolo Play The Blues che raccoglie i momenti migliori del fatidico incontro. Il risultato è straordinario, un’esplosione di colori a cui la chitarra di Clapton contribuisce in modo determinante senza dare mai la parvenza di un corpo estraneo, ma anzi dimostra che ci sarebbe stata bene anche in una band come quella di King Oliver o dello stesso Louis Armstrong se solo si fosse inventata un po’ prima l’elettrificazione. Il denominatore comune scelto è stata la musica jazz e blues degli anni 20, un universo di formidabile impatto sonoro, capace di dare allegria, fare ballare e lasciare spazio a tanta improvvisazione. Ed è stata proprio l’improvvisazione la regina di questa performance visto che Clapton ha dovuto imparare 12 nuovi arrangiamenti in tre giorni e integrarsi con una band con cui non aveva mai suonato prima. Certo ci vuole classe, ma senza la possibilità di uscire dalle sbarre di una stretta gabbia sarebbe stata una cosa quasi impossibile. Marsalis è il vero ideatore del progetto e la scelta di Clapton come partner esterno nascondeva fin dall’inizio la grande stima e la conseguente aspettativa. Accanto alle due star si è raggruppata una band di straordinario valore che prevede Dan Nimmer al piano, Carlos Henriquez al basso, Ali Jackson alla batteria, Marcus Printup alla tromba, Victor Goines al clarinetto, Chris Crenshaw al trombone, Don Vappie al banjo e Chris Stainton alle tastiere, un ensemble che ha saputo esaltare il proprio New Orleans sound, ma anche lasciare i giusti interventi chitarristici che hanno virato il sound verso il blues senza snaturare nulla.
Il pezzo di apertura è Ice Cream e regala subito scintille: dopo un inizio in omaggio alla Crescent City, in cui i fiati la fanno da padroni, entra per un breve interludio la chitarra di Clapton che non si concede variazioni e viaggia parallela sullo stesso sound per lasciare nuovamente il posto al solo di banjo, all’incedere pulsante del contrabbasso e al ritorno dei fiati. Un assaggio delizioso di oltre 7 minuti che ci dà subito l’idea del programma. Il secondo brano, Forty-Four, scomoda il grande Howlin’ Wolf e inevitabilmente permette a Clapton di dare sfogo a tutto il suo amore per il blues: la big band lo segue con un tono più sfumato, ma appena i solo di Slowhand accennano a placarsi riprende con veemenza a dominare la scena. L’alternarsi è continuo e non permette iati o discrasie e anche i pezzi che seguono mantengono lo stesso schema. Arrivano uno di seguito all’altro Joe Turner Blues (omaggio al grande shouter di Kansas City), The Last Time, Careless Love, Kidman Blues per poi lasciare spazio a Layla, un brano che Clapton avrebbe volentieri evitato di eseguire se non fosse stato per le insistenze del bassista Carlos Henriquez e di tutta l’intera band. Più di 9 minuti di esecuzione con un crescendo formidabile che certifica di giustezza la grandezza di Eric e l’amore del gruppo nei confronti di questa canzone. C’è ancora spazio per Joliet Bound, un blues scritto da Joe McCoy e Memphis Minnie, al tempo marito e moglie, dall’andante veloce e dall’arpeggio intrigante che Clapton si concede eseguendolo in gran parte da solo come regalo.
Poi arriva la sorpresa della serata. Annunciato da un lento rullo di tamburo, che poi si struttura con l’aiuto degli altri strumenti in una specie di funeral song, sale sul palco Taj Mahal che intona con voce struggente Just A Closer Walk With Thee, un traditional dagli accenti gravi ed esistenziali, e poi Corrine Corrina, un altro classico che prevede una splendida sinergia strumentale di 10 minuti. Taj Mahal interpreta anche Stagger Lee, la storia del cattivone che uccide Billy The Lion solo perché gli aveva rubato il suo Stetson, ma quest’ultima canzone, probabilmente per motivi di durata, è stata tolta dal disco per lasciarla presente solo su dvd. Gran bel lavoro.

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