01/09/2011

WHAT’S GOING ON

Dentro il capolavoro di Marvin Gaye

Frankie stava male. L’ingiustizia e l’orrore lo dilaniavano. Cercava di farlo capire al fratello. Lo metteva nero su bianco nelle lettere che gli spediva a Detroit, che lassù c’erano la crisi e il razzismo, ma mica era come stare con gli anfibi a mollo in una risaia del Vietnam. Frankie faceva l’operatore radio, ma quel che vedeva bastava e avanzava per riempire intere missive. «Vedrete che risponderà», ripeteva ai commilitoni. Quelli lo guardavano storto. Non credevano che il fratello di Frankie fosse Marvin Gaye, quel Marvin Gaye, quello dei dischi Motown. «Vedrete, vedrete», replicava lui. Però Marvin non rispondeva. In compenso leggeva. Leggeva dell’ingiustizia e ci rimuginava sopra. Forse provava un senso d’inferiorità per quel coraggioso fratello minore che stava dall’altra parte del mondo, mentre lui cos’era? Forse una star viziata. Un ingranaggio dell’industria pop. In tasca aveva canzoni che gli sembravano stonate, come quella che diceva «cara, quel che accade oggi nel mondo sei tu», dolci bugie che sapevano d’amaro. Perché nel mondo succedeva ben altro. Il militare l’aveva fatto anche Marvin, sì, ma negli anni 50. Era entrato in Aeronautica e s’era fatto cacciare. Troppa disciplina: quella vita non faceva per lui. Chi non aveva mollato ora combatteva con una bandiera americana cucita sulla spalla. Lui sospirava «honey» e «baby» nelle canzonette che i “sarti” della Motown gli cucivano addosso. E intanto un suo cugino, anche lui chiamato Marvin, crepava in Vietnam nel ’68.
Quando finalmente Frankie tornò, l’America che un tempo era stata sua gli pareva terra straniera. E forse così l’avevano vista i paracadutisti della 84esima e della 101esima Divisione Aerotrasportata che nel ’67 erano stati mandati a Detroit a sedare una rivolta epocale: 43 morti, 7 mila arresti, oltre mille fra abitazioni ed esercizi commerciali distrutti. Un Vietnam dentro casa che aveva sfiorato Hitsville, la sede della Motown. Perciò Frankie se ne stava seduto con Marvin e glielo spiegava quel che aveva visto nel sudest asiatico, come se le parole potessero dar forma all’orrore. A notte fonda, giù a parlare di vita e di morte, di soldati e di governo, di bianchi e di neri. Di reduci che tornavano a casa solo per farsi chiamare «assassini» e per scoprire che il loro posto di lavoro se l’era divorato la crisi economica oppure il pregiudizio. Parlavano e piangevano. Quanti afro-americani erano andati a combattere? E quanti erano morti? Quanti sapevano quel che facevano? E quanti sapevano leggere? Nel 1966 il presidente Lyndon Johnson, quello che tre anni prima aveva prestato giuramento sull’Air Force One con la mano sinistra sul messale di Kennedy e i piedi sul suo feretro, aveva ideato Project 100,000. Aveva abbassato gli standard necessari per entrare nell’esercito, facendo il pieno di neri illetterati e disperati.
Quella roba andava raccontata. Quella roba e anche gli scontri per le strade. E la frustrazione dei reduci. E i fratelli che si bruciavano il cervello con la roba. E le politiche sociali che affamavano i bambini. E la rabbia che saliva dalle strade del ghetto come un afrore mefitico. E l’amore divino che a tutto provvede. Che poi la domanda era una sola: che cosa sta succedendo all’America?
Averla, la risposta.

Era scoccata l’ora. Marvin Gaye non poteva nascondersi dietro canzoni d’amore convenzionali: doveva tradire la fama di maschio sexy di casa Motown e gettarsi nella mischia. Il 1971 era un buon anno per farlo, per ricominciare, per rinascere: dietro le spalle vedeva solo macerie. Aveva sposato la sorella del padre padrone della Motown, Anna Gordy. C’erano stati attriti fin dall’inizio fra i due, qualcuno giura di averli visti venire alle mani al ricevimento nuziale. Il matrimonio era stato un continuo braccio di ferro e ora stava andando in pezzi. C’era il fratello, coi suoi racconti dal Vietnam. E poi la sua partner artistica Tammi Terrell era collassata fra le sue braccia sul palco di un maledetto college in Virginia. Lui aveva assistito alla lenta consunzione di lei provocata da un cancro al cervello. L’aveva vista, oramai cieca e inabile, 42 chili d’impotenza inchiodati su una sedia a rotelle, lo spettro della ragazzina vitale che quando cantava ti faceva venir voglia di scendere per strada e metterti a ballare. Qualcuno sussurrava che Tammi, la voce frizzante dell’amore perfetto, era stata malmenata da un fidanzato violento e che il tumore ne era la conseguenza.
Mai più, s’era detto Marvin, mai più canterò facezie amorose. La vita gli stava chiedendo di fare un passo avanti. Di essere un artista maturo. Di «lasciare da parte le fantasie e parlare all’animo della gente». Quel che stava accadendo stimolava un uomo che, per dirla col biografo David Ritz, «per esaltare la creatività aveva bisogno della drammaticità». Ora ne aveva quanta ne desiderava. Era depresso. Scioccato dalla morte di Terrell, per quasi 4 anni smise di fare concerti. In compenso, le incisioni sarebbero diventate via via più sofisticate. Avrebbe messo a frutto lo spirito con cui aveva inciso una versione meravigliosa di Abraham, Martin And John, omaggio al progressismo e al martirio di Lincoln, King e dei Kennedy.
I pezzi cominciarono a incastrarsi quando Renaldo “Obie” Benson dei Four Tops gli parlò di una canzone che aveva abbozzato con Al Cleveland, l’autore di I Second That Emotion di Smokey Robinson e di altri pezzi di casa Motown. Tentavano di condensare in 3, 4 minuti le sensazioni provate da Benson guardando gli scontri tra polizia e studenti a Haight-Ashbury. I due si ritrovarono a perfezionare il concetto con Marvin dopo che la canzone – a quanto pare – era stata rifiutata da Joan Baez e dagli stessi Four Tops. Non è chiaro chi se ne uscì con quell’espressione, «what’s going on?». Forse Benson: lui dice che gli venne in mente guidando lungo il Lago Michigan. Mel Farr, giocatore di football e amico del cantante, giura di avere tirato fuori il «what’s going on» a casa di Marvin. Era un saluto diffuso fra gli afroamericani – l’equivalente di «com’è?», «come va?», «che si dice?» – ma strappato dal contesto gergale assumeva un significato più profondo. La domanda «che succede?» era la sintesi estrema dello smarrimento di Gaye di fronte ai destini della nazione. Venne fuori una strana canzone di protesta dove la rabbia era incanalata in un grido di velluto, in un richiamo compassionevole. Non era la riproduzione compiaciuta dell’urlo furibondo del ghetto. Era uno sguardo pieno d’amore gettato su un’umanità in crisi: le madri che assorbono il dolore della comunità, i figli che muoiono in Vietnam, i padri tentati di rispondere con violenza alla violenza. «Non punirmi con la brutalità. Parlami, piuttosto, e capirai che cosa sta succedendo»: parole semplici e illuminanti. La comprensione e la compassione come forma di lotta. La musica diceva la stessa cosa, un groove jazzato che nulla aveva dei canoni della protesta. La musica, lei sola, celava la risposta a quella domanda, a quel «what’s going on?». Era amore per la comunità che si faceva suono.
Marvin voleva darla agli Originals: alla fine i co-autori pur di convincerlo a tenerla per sé gli accordarono un terzo dei diritti d’autore. Lui ne fece il propulsore della sua ascesa artistica. Grazie ad essa si fece uomo. Telefonò eccitato a Gordy, che si trovava in vacanza alle Bahamas. Gli disse di questa canzone di protesta. «Marvin», rispose quello, «vuoi forse rovinarti la carriera?».
Il 1° giugno 1970 Gaye entrò nello Studio A della Motown per incidere la canzone coi Funk Brothers, i musicisti che assicuravano un sound uniforme ai 45 giri dell’etichetta. Questa volta c’era da rischiare. Marvin s’era ritagliato a fatica il ruolo di produttore, un evento straordinario per un cantante, una categoria considerata da Gordy alla stregua di un ingranaggio. Il boss della Motown aveva applicato la logica fordista alla produzione discografica, una catena di montaggio in cui autori, produttori, musicisti e in ultima battuta cantanti costruivano un prodotto di successo attenendosi a parametri rigidi la cui applicazione era supervisionata da un «controllo qualità». La creatività artistica non era contemplata. Gaye si stava smarcando da quello schema: voleva dire la sua, e dirla come gli pareva. «Non voglio più essere una marionetta manovrata da qualcun altro», andava dicendo. Perciò quel 1° giugno fece le cose a modo suo. Lo descrivono mentre dirige il gruppo da dietro il pianoforte, uno spinello fra le labbra. E quella musica nell’aria, quel groove sofisticato, gli archi finemente orchestrati, il tappeto di percussioni, il funk, la classica, il jazz, il gospel e il soul sintonizzati sulla stessa vibrazione: roba dell’altro mondo. Un fonico fece partire una traccia vocale mentre Marvin ne stava provando un’altra. Fu un errore provvidenziale. A Gaye piacque molto e l’effetto sfasamento – il canto e il controcanto, la voce principale e l’abbellimento – divenne una delle cifre dell’intero album. Un altro incidente fortunato avvenne quando Eli Fontaine suonò una parte di sassofono per riscaldarsi: venne tenuta quell’esecuzione, usata come formidabile introduzione alla canzone più originale mai incisa fino a quel momento in casa Motown.
Era un capolavoro? Non per Gordy. «Una schifezza», disse. Troppe cose s’agitavano in quel mix: gli sembrava confuso. Ed era spaventato dal contenuto politico: era roba da ghetto, inadatta all’etichetta che aveva venduto la musica nera ai bianchi. «È il peggior disco che abbia mai sentito», disse al suo vice Barney Ales. Negò la pubblicazione del 45 giri. What’s Going On sarebbe rimasto un gioiello di scioccante bellezza tenuto in cassaforte se Gaye non si fosse impuntato. Quella canzone era importante, per lui: se non fosse stata pubblicata, disse, avrebbe smesso di lavorare per la Motown. E così fece, sparendo per quasi un anno dalla circolazione, un periodo modesto per gli standard odierni, non per quelli dell’epoca. Nel frattempo lesse. Ad esempio Gli insegnamenti di Don Juan di Carlos Castaneda da cui apprese ad essere «un uomo di potere e conoscenza», qualità che avrebbe voluto usare «per migliorare il mondo» e per convincere le persone «a conoscere se stesse e diventare esseri superiori». Pregava, come gli aveva insegnato il padre predicatore, e faceva parecchio esercizio fisico. A un certo punto fantasticò di diventare un giocatore di football professionista. Affrontava il cambiamento combattendo e soffrendo fisicamente. Così, quando fosse arrivato il momento di entrare in azione, sarebbe stato un uomo migliore. Un uomo forte quanto il padre e quanto il «padre surrogato», ovvero il suocero.
L’empasse di What’s Going On fu superata dai collaboratori di Gordy. Nel gennaio ’71, mentre il capo era impegnato nel trasferimento di parte delle operazioni dell’etichetta a Los Angeles, fecero uscire di soppiatto il 45 giri: What’s Going On sul lato A, l’ode spirituale God Is Love sul B. Cominciò a vendere a una tale velocità da stupire tutti, Gordy per primo: 100 mila copie in una sola settimana. Arrivò in cima alla classifica dei singoli R&B e al secondo posto di quella pop.
La gente non era spaventata dalla politica dell’amore. La gente la voleva sentire, quella roba.

E ora? Il successo del singolo aveva legittimato Gaye nel ruolo di produttore di se stesso. Il belloccio aveva dimostrato di avere una testa, e un buon orecchio, e lungimiranza. Ora doveva entrare in studio, «l’unico posto in cui potevo controllare il caos che mi circondava». La musica avrebbe fornito una risposta agli interrogativi ancora irrisolti.
Marvin aveva continuato a scrivere, ma non da solo. La composizione e la lavorazione dell’album riflettevano lo spirito comunitario evocato dai testi, che per la prima volta nella storia della Motown vennero stampati all’interno della copertina, un riconoscimento della loro importanza e pregnanza anche se non avevano dignità letteraria. Furono composti con l’amico Elgie Stover, la moglie Anna Gordy, uno col percussionista Earl Derouen. Era un laboratorio. Oltre al brano guida, altri due furono scritti con Benson e Cleveland, altri persino con James Nyx, un impiegato della casa discografica senza grande esperienza alle spalle. «Sentivo che non poteva essere un’opera leggera. Doveva essere un concept», avrebbe detto Gaye ricordando quel periodo. «Per la prima volta sentivo di avere qualcosa da dire».
Le canzoni cercavano di catturare lo spirito dei tempi proponendo la rinascita spirituale come antidoto all’imbarbarimento della società. E così What’s Happening, Brother seguiva What’s Going On senza soluzione di continuità dando voce alla disillusione di un soldato appena tornato dal Vietnam. «Non potevo credere a quel che stavo ascoltando», ha scritto Frankie Gay a proposito della canzone. «Avevo ispirato Marvin, mio fratello, la star. Aveva scritto una canzone su di me e per me, una canzone sulle frustrazioni di un veterano del Vietnam, una canzone talmente personale e sentita che quando la sentii scoppiai a piangere». Non era un album solo sulla guerra: Flyin’ High (In The Friendly Sky), il cui titolo faceva il verso a uno slogan pubblicitario della United Airlines, era la confessione di un tossico schiavo del proprio vizio e del proprio spacciatore, un tema che il cantante avrebbe presto sentito molto vicino, ma che nel ’71 era un modo per fotografare i danni che l’eroina provocava nei quartieri neri; Save The Children incitava a «salvare un mondo destinato a morire» un bambino alla volta; Mercy, Mercy Me (The Ecology) era un inno ambientalista. Lo si dovette spiegare a Gordy, che non conosceva il significato della parola «ecologia».
La Motown era stata un ponte tra la musica bianca e la musica nera in un’epoca, come disse Gaye, in cui «era considerato inelegante per un bianco possedere dischi di cantanti di colore». What’s Going On rivoluzionava questo rapporto interrazziale senza cancellarlo: parlava il linguaggio della controcultura bianca, quella che aveva portato centinaia di migliaia di persone ai festival rock. Si apriva e chiudeva con un verso sorprendente cantato da uno come Gaye: «Chi sono loro per giudicarci solo perché abbiamo i capelli lunghi?», un ammiccamento a quegli hippie che «avevano il fegato di mandare l’establishment a farsi fottere». Qualcosa, però, distingueva queste canzoni dagli attacchi velenosi alla società borghese da parte dei cantanti bianchi. Le creazioni di Gaye possedevano un senso di compostezza compassionevole che si manifestava raramente nel repertorio dei musicisti rock. Del resto lui era cresciuto vicino alla chiesa. Persino l’ultima canzone, la spaventosa fotografia della vita nel ghetto chiamata Inner City Blues (Make Me Wanna Holler), annunciava il grido di rabbia del protagonista – il verbo «to holler», forma colloquiale per «urlare», era stato aggiunto da Gaye al testo scritto da Nyx -, ma la frustrazione era riscattata dalla pietas. Il senso di risoluzione positiva, di ascesa verso un futuro migliore, era consolidato da una serie di canzoni a tema religioso, quasi gospel moderni: con la fede, cantava Marvin, «possiamo scuotere le fondamenta del mondo, sì che possiamo, yes we can». Quel «yes we can», che il primo presidente di colore americano avrebbe usato quasi 40 anni dopo come slogan elettorale, era un richiamo all’azione e una condanna al cinismo. Nell’agenda di Gaye non c’era differenza fra l’amore per Dio e quello per i fratelli neri. What’s Going On non era un disco sulla fine del mondo: era un disco sulla redenzione e sulla strada per arrivarci. «Proclamiamo l’amore, la nostra redenzione», recita il testo di Wholy Holy.
Musicalmente, l’album riproponeva, variava, espandeva i temi di What’s Going On, la canzone. Era come una lunga suite, o meglio, una jam session, un’idea più vicina al rock bianco e al jazz che al soul e al rhythm & blues. Così facendo, Gaye traghettò la Motown nell’era degli album, oltre la soddisfazione effimera dei 45 giri. I tempi cambiavano: Stevie Wonder avrebbe preso esempio da Marvin affrancandosi da Gordy e rendendo più complessa la propria musica. Quella di Gaye aveva l’aura spirituale del gospel, il feeling del jazz, la sensualità del soul e la libertà creativa del nuovo rock. Marvin aveva passato i pezzi al direttore d’orchestra e arrangiatore David Van DePitte. «Aveva deciso di fare un album diverso dal solito e del resto non si curava», ha ricordato anni fa Van DePitte. «Avrebbe fatto quel che voleva e al diavolo tutto il resto. Sperava che il risultato sarebbe stato pubblicato, ma non ci contava. Nel materiale che mi passò c’era qualcosa di diverso. Gli accordi non erano quelli usati normalmente nei dischi della casa discografica. Avevano a che fare sia col gospel che col rhythm & blues, ma erano estesi (ovvero non semplici triadi, ma accordi più ricchi, ad esempio di nona, undicesima o tredicesima, nda) e la cosa li rendeva decisamente jazzy. Aveva ascoltato parecchio Miles Davis, Lester Young e Hank Crawford». Non c’era solo il jazz. Il fonico Ed Wolfrum l’aveva portato a vedere la Detroit Symphony Orchestra eseguire Tchaikovsky: «Ne rimase stregato, e fece l’abbonamento per la stagione successiva». Imparò a cantare in modo più rilassato e leggero ascoltando un disco di Lester Young. Secondo Steve Turner, che ha raccontato la storia dell’artista nella biografia Trouble Man. The Life And Death Of Marvin Gaye, il cambiamento avvenne invece dopo aver sentito Sweet Baby James di James Taylor. Lo scrittore afferma inoltre che «la scoperta più incredibile, alla luce della venerazione che è riservata all’album nel pantheon della musica popolare, è la casualità con cui What’s Going On fu assemblato: la sua qualità tematica e quasi operistica era il risultato di incontri casuali e di momenti eccezionali nella sua vita, e non di premeditazione, della volontà di produrre una grande dichiarazione artistica o il Sgt. Pepper nero».
Marvin partecipò agli arrangiamenti in prima persona: non sapendo leggere la musica, cercava di cantare ai musicisti le parti che sentiva in testa, un esercizio che talvolta era frustrante. Voleva espandere il proprio vocabolario musicale per trovare quelle che, parlando con Crawdaddy, definì «note esistenti in un altro mondo, in un’altra dimensione, forse nelle fessure fra i tasti del pianoforte». Il fonico Steve Smith lo ricorda «dittatoriale: qualsiasi cosa facesse, voleva il controllo totale». I musicisti, che negli altri dischi Motown dovevano limitarsi al compito che veniva loro assegnato, ebbero modo di far fruttare i propri talenti e – caso raro per l’epoca e per l’etichetta – videro riconosciuti i propri sforzi nei crediti, dov’erano riportati i loro nomi. Alla fine le canzoni furono legate fra di loro senza alcuno sforzo: in fondo erano già parte di un unico discorso tematico e musicale. In copertina e nel retrocopertina c’erano due foto del cantante scattate nel cortile di casa sua, su West Outer Drive, la strada di Detroit dove viveva chi ce l’aveva fatta. Il look pulito, da bravo ragazzo, era un ricordo. Marvin s’era fatto crescere la barba e ora sì che pareva un uomo. Pioveva.
Louvain Demps, uno dei coristi, descrive l’atmosfera in sala d’incisione come «spirituale». Gaye disse che si trattava di un progetto guidato dalla luce divina. «Queste canzoni me le ha dettate Dio», disse a Smokey Robinson in quei mesi. «Trovate Dio: dobbiamo trovare il Signore», scriveva nelle note di copertina. «Lasciamo che ci influenzi. Quali altre armi abbiamo per combattere le forze dell’odio e del male?».
Che questo abbraccio vada al mondo intero, era lo spirito dell’album. Che questo album entri nelle case degli americani, sperava Barry Gordy. Decise di pubblicarlo solo grazie alle insistenze della figlia Anna.

Fu un trionfo. Il 33 giri uscì nel maggio ’71, restò nella classifica pop per un anno, nel giro di 18 mesi fu comprato da 2 milioni di americani: diventò il best seller dell’artista e inaugurò una nuova fase nella carriera di Gaye e nella storia della Motown. Le paure di Gordy erano infondate. Rolling Stone lo nominò miglior album del ’71, Smokey Robinson era convinto che fosse il miglior 33 giri di sempre. Billboard assegnò all’artista il premio di «trendsetter» dell’anno, Cashbox ne lodò le doti di cantante. Solo la commissione dei Grammy lo ignorò. La National Association for the Advancement of Colored People fondata a inizio secolo da W.E.B. Du Bois, lo definì l’entertainer più importante dal punto di vista sociale dell’intera nazione. Jesse Jackson lo definì un «predicatore» che non aveva nulla da invidiare a chi teneva sermoni dai pulpiti delle chiese. La sua città, Washington DC, decretò che il 1° maggio 1972 sarebbe stato il Marvin Gaye Day. «Roba profonda», decretò Miles Davis.
Marvin andava dicendo che quella libertà se l’era guadagnata e che per la prima volta si sentiva un artista. Aveva veva vinto una battaglia, ma non aveva sanato i conflitti – quello col padre, ad esempio, geloso del suo successo, avaro d’affetto, ambiguo, a volte violento. Se non altro il successo di What’s Going On aveva reso l’artista più sicuro di sé. Incassati i diritti d’autore, fece visita nella casa paterna. Quando gli aveva regalato una Cadillac, il padre c’era andato in giro per il quartiere, ma agli amici e ai vicini non aveva detto che si trattava di un regalo del figlio. Quel giorno, in sfregio a quel genitore che non credeva nelle sue capacità e che continuava a gettare la sua ombra ingombrante su di lui, Marvin gettò sul letto una valigetta. Conteneva un milione di dollari. Guardò il padre con aria di sfida: «E adesso che dici, papà?».
Quello non trovò di meglio che citare il Vangelo: «Che gioverà all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l’anima sua?».

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