02/05/2011

DYLAN

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Bob Dylan giunge al traguardo dei 70 anni. Il prossimo 24 maggio si
aprirà per lui un’altra età da esplorare, da elaborare e probabilmente
da sintetizzare in musica. Sì, perché una persona come Dylan non va in
pensione, non appoggia la schiena su una poltrona davanti al camino e
nemmeno su una sedia a dondolo sotto il portico a cantare country music,
come aveva fatto pensare, nel lontano 1969, Nashville Skyline. Il suo
Never Ending Tour, iniziato nel 1988 e brevemente interrotto solo nel
1997 quando gli fu diagnosticata un’infezione al cuore che fece temere
per la sua sorte, è destinato a continuare ancora per un bel po’.
Secondo i calcoli del sito bjorner.com, Dylan ha suonato la sua
duemillesima data del tour il 16 ottobre 2007 a Dayton, Ohio, e da
allora non ha smesso. Di poco tempo fa è la notizia della sua prima
apparizione in Cina e in Vietnam, che ha fatto arrabbiare la stampa
americana – il New York Times ha intitolato il suo reportage “Blowin’ in
the Idiot Wind” – perché il musicista ha rinunciato, con un gesto di
acquiescenza verso Pechino, ad eseguire alcuni suoi inni libertari. Ma
ormai da una decina di anni Dylan suona sempre più pezzi del nuovo
repertorio lasciando ai nostalgici il piacere di alcune cose storiche,
quasi la sua filosofia stesse cambiando, staccando con il passato. Like A
Rolling Stone, Just Like A Woman o The Times They Are A-Changin’ non
sono più la parte preponderante dei suoi concerti, ma un esercizio quasi
onirico del proprio desiderio (necessità?) di essere sempre diverso.

Ma quale strada ha imboccato Dylan negli ultimi dieci, quindici anni?
A ben guardare sembra essere un percorso apparentemente non troppo
definito, ma in qualche modo coerente, con la convinzione che le cose
più belle siano già state fatte nel passato. Non solo in quello remoto
cui si rifaceva agli inizi di carriera, insomma non più Woody Guthrie o
la Carter Family, ma piuttosto tutto ciò che il rock’n’roll ha generato,
non solo coniugandosi con il folk o il country o nella sua forma più
appariscente del rockabilly, ma come idea di cambiamento, di
inglobamento di nuove realtà rispetto alle musiche originali e dunque il
soul come evoluzione del gospel, il be bop come distacco formale dal
jazz precedente, il rhythm’n’blues come modernizzazione del blues e così
via.
I suoi concerti vengono spesso annunciati con l’enfasi dei vecchi
soulmen e viene introdotto in un modo un po’ pacchiano con frasi del
tipo: «Signore e signori vi prego di dare il benvenuto al poeta laureato
del rock’n’roll, la voce della promessa della controcultura degli anni
60. Il ragazzo che costrinse il folk ad andare a letto con il rock, che
si è truccato negli anni 70 ed è sparito nella nebbia dell’abuso delle
sostanze. Che emerse per trovare Gesù. Che è stato cancellato come una
vecchia gloria dimenticata alla fine degli anni 80, che ha
improvvisamente liberato dagli ingranaggi un po’ della musica migliore
della sua carriera all’inizio degli anni 90. Signori e signore,
l’artista della Columbia, Bob Dylan». La scelta di una presentazione
così roboante, per lui generalmente tanto schivo da innervosire, forse
non è casuale e aiuta a capire una sorta di nostalgia che lo sovrasta,
un desiderio di recuperare cose eclatanti dal sapore rétro.
Difficile trovare un momento che sancisca il cambio di rotta, la volontà
di rigenerarsi musicalmente, ma se proprio si vuole individuare, lo si
deve cercare nel periodo immediatamente successivo a Under The Red Sky
del 1990. È da lì, infatti, che Dylan si è preso del tempo per ripensare
a quello che stava facendo, che è nata qualche perplessità sul suo
percorso professionale e si è chiesto che possibilità avesse di uscirne
rinforzato.
Dopo Under The Red Sky è stato necessario attendere sette anni prima di
rivedere un lavoro completamente costituito da suoi pezzi inediti. Time
Out Of Mind è del 1997 e anche i successivi “Love And Theft” e Modern
Times si sono fatti aspettare rispettivamente quattro e cinque anni, un
lungo intervallo in cui è plausibile individuare il momento cruciale di
qualche cambiamento di direzione (l’ultimo Together Through Life è
uscito dopo tre anni). È probabile dunque che in questo periodo qualcosa
lo abbia turbato: non tanto una crisi di scrittura quanto un desiderio
di rivisitare un passato che ancora lo eccita e con cui ha ancora voglia
di confrontarsi. Quando si assiste ai suoi concerti ci si stupisce per
gli arrangiamenti sempre diversi a cui sottopone le canzoni, ma a ben
guardare quei riff taglienti con cui le caratterizza derivano molto
spesso proprio dall’elaborazione di vecchi standard del rock e affini.
Nel 1991 Dylan aveva rilasciato un’intervista a Paul Zollo in cui aveva
detto: «C’è stato un tempo in cui le canzoni mi potevano uscire tre,
quattro alla volta, ma quei giorni appartengono al passato, forse sono
arrivato al punto di averne scritte abbastanza e allora bisogna lasciare
che le scriva qualcun altro». L’affermazione, più che di rassegnazione,
sapeva di consapevolezza, di strano equilibrio per una rock star che
non vorrebbe mai cedere lo scettro. Dylan probabilmente sapeva che la
creatività non funziona a comando e che per stimolarla sarebbe stato
necessario ricercare nuovi interessi, nuovi punti di vista e che dunque
bisognava prendersi del tempo.
Se si va a vedere cosa è successo nei sette anni di latitanza creativa
di cui si diceva, ci si accorge che Dylan recupera un patrimonio
tradizionale di grande importanza strategica per la sua scrittura. È un
fenomeno che si ripete costantemente a lunghi intervalli: è stato così
agli inizi della sua carriera, quando si pasceva di folk e blues
recuperato dai vecchi vinili presi in prestito; si è ripetuto
successivamente quando si è ritirato con The Band a Big Pink; è stato di
nuovo così all’inizio degli anni 90 con la pubblicazione di due dischi
che vanno completamente a pescare nella tradizione anglo-americana senza
lasciare spazio a nulla di veramente suo. Il primo, Good As I Been To
You (1992), è un album completamente acustico come non ne faceva dai
tempi di Another Side. È costituito da 13 traditional che in
un’intervista definisce «la musica che per me è autentica» e che
realizza, dopo diversi ripensamenti, nel proprio garage-studio buttando
via tutto il lavoro fatto precedentemente con David Bromberg che era
stato scelto inizialmente come produttore. World Gone Wrong (1993)
ripercorre la stessa strada dei traditional e viene registrato con sole
chitarra e armonica. Le tematiche sono più tetre e pessimistiche
rispetto al disco precedente, ma anche in questo caso la scelta è
orientata in modo deciso sulla componente popolare anglofona. La casa
discografica asseconda questo amore per la tradizione e dal 1991
comincia a pubblicare una serie di brani più o meno ufficialmente
inediti che vanno sotto il nome di Bootleg Series e che hanno in realtà
lo scopo di fermare la vendita dei medesimi pezzi sul mercato nero. Sono
incisioni per lo più dei primi tempi, realizzate sotto una forte
influenza folk e blues, che riscuotono un forte interesse tra il
pubblico. La Bootleg Series continuerà negli anni fino ad arrivare al
recentissimo volume 9 che riunisce i Witmark Demos realizzati tra il
1962 e il 1964 a cui si aggiunge il concerto alla Brandeis University
registrato nel 1963, due lavori di estremo interesse filologico che
riportano ancora una volta agli inizi di carriera e sanciscono
un’influenza che solo apparentemente è ancora acqua attinta dallo stesso
pozzo. Il rifarsi alla tradizione è in effetti una costante della
canzone dylniana e non desterebbe nessuna sorpresa se questa volta non
servisse a gettare le basi di un’ulteriore evoluzione verso una sorta di
folk contemporaneo che verrà riconosciuto e addirittura premiato nel
successivo Time Out Of Mind con tre Grammy Awards: miglior album di folk
contemporaneo, miglior performance vocale con Cold Irons Bound e
addirittura miglior album dell’anno.

Cosa significa folk contemporaneo? Forse ancora una volta una sua
coniugazione con il rock, come sembra in effetti avvenire in questo
lavoro prodotto da Daniel Lanois, che dopo l’ottimo sodalizio di Oh
Mercy ritorna alla corte dylaniana?
È ancora Dylan a suggerirci una risposta in un’intervista concessa a
Rolling Stone: «Suono sempre con la migliore band che ho a disposizione.
Quando ti esibisci con delle persone un centinaio di volte ogni anno,
sai quello che puoi fare, come utilizzarle se ne hai bisogno. Ci vuole
un sacco di tempo per trovare un gruppo composto da musicisti
individuali. La maggior parte dei gruppi sono delle gang. Sia che si
tratti di un gruppo rock, pop o metal c’è sempre quella mentalità da
gang. Io ho bisogno di non dovere insegnare niente a nessuno, di avere
nel gruppo persone in grado di afferrare qualsiasi cosa, addirittura in
grado di sorprendermi».
Ed è proprio questo, forse, il segreto del continuo cambiamento. Dylan
si sceglie i musicisti adatti per il progetto che ha in testa, un
progetto ancora vago, ancora da architettare nella sua complessità, ma
sono poi gli stessi strumentisti che lo aiutano, con l’esperienza
maturata e il loro gusto, a creare gli importanti contorni, a
sollecitare la direzione definitiva da prendere. La genialità di Dylan
sta ovviamente nella sua straordinaria sensibilità di compositore di
musica e testi, nella sua sempre fervida capacità di elaborare, ma è
anche quella di sapersi circondare delle persone giuste al momento
giusto. Dylan, con la propria band rumina le nuove tendenze durante i
suoi infiniti concerti fino a che ha chiaro dove andare a parare. A quel
punto si rende conto che può fare un disco nuovo che abbia senso. La
stessa band lo può accompagnare anche per tempi abbastanza lunghi, ad
ogni modo mai troppo in là nel tempo, perché l’interesse per quello che
sta facendo scema in fretta e bisogna ricominciare da capo.
Se per le session di Time Out Of Mind i musicisti furono scelti in parte
da Lanois e in parte da Dylan (quest’ultimo si portò dalla band con cui
era in tour il batterista Jim Keltner e si scelse l’organista tex-mex
Augie Meyers), già per il successivo “Love And Theft” le cose andarono
diversamente. È proprio con quest’album del 2001 che il suono diventa un
tutt’uno con ciò che Dylan mette in mostra nei suoi concerti.
La band del disco, intanto, è la stessa del Never Ending Tour, vale a
dire Larry Campbell a chitarra, violino, banjo e mandolino, Charlie
Sexton alla chitarra, Tony Garnier al basso e David Kemper alla
batteria, a cui si aggiunge l’organista già utilizzato precedentemente
in studio, Augie Meyers. Il gioco di squadra è perfetto e il sound che
ne esce è completamente indirizzato verso il blues, fregandosene
altamente del fatto che sia poco trendy, o anzi completamente fuori
moda. È lo stesso Dylan a dire senza mezzi termini: «Tutte le canzoni
sono variazioni sul tema delle dodici battute e su melodie basate sul
blues». I riferimenti musicali sono evidenti a tutti e oltre al blues
che appunto possiamo cogliere in Lonesome Day Blues, Honest With Me e
Cry A While, c’è anche lo swing in Bye And Bye e Moonlight, il
rockabilly in Tweedle Dee And Tweedle Dum e Summer Days, il country in
High Water e Po’ Boy, e a ben guardare molto altro ancora.
Le influenze si sono evolute e non ci sono più solo i tempi andati del
folk, ma a giganteggiare sono ora quei generi che dal mondo tradizionale
si sono nel frattempo sviluppati e che hanno silenziosamente
accompagnato Dylan nella sua crescita. Il blues è il denominatore
comune, il grande padre su cui inserire tutte le variazioni possibili,
ma poi c’è naturalmente il rock, il figlio degenere, che con la sua
elettrificazione ha permesso di debordare dalla campagna e misurarsi con
la nevrosi della città. Quando Greil Marcus, nel 1970, aprì la
recensione dell’album Self Portrait, uno degli album più contestati e
misteriosi di Dylan, con la famosa frase «Cos’è questa merda?», rimase
interdetto come gran parte dei suoi fan a sentir chiamare “autoritratto”
quelle canzoncine completamente prive di spessore esistenziale e avulse
dall’impegno sociale a cui Dylan ci aveva abituato. Forse si trattava
di un’avvisaglia, di un pensiero che per palesarsi in tutta la sua
complessità ha dovuto attendere trent’anni. Contrariamente a quanto si
possa pensare, Dylan non appartiene musicalmente al presente, la sua è
una continua ricerca del tempo perduto, un disperato tentativo di
trattenere quello che di più caro gli è passato vicino e l’ha ammaliato.
La sua musica evoca fotogrammi sgranati di un passato pieno di
nostalgia e in un processo di riappropriazione dei propri ricordi
giovanili cerca di ricreare le stesse atmosfere che era capace di
regalare la radio americana degli anni 40.
È probabilmente per questo motivo che si fa coinvolgere nel progetto
radiofonico Theme Time Radio Hour, trasmesso da XM Satellite Radio, che
lo impegna settimanalmente come deejay in un’ora di trasmissione
musicale dal maggio del 2006 all’aprile del 2009. Ogni puntata è
centrata su un tema particolare che può essere l’amore, il tempo, i
fiori, piuttosto che il danaro. All’interno di questo format trasmette
canzoni in tema pescando ampiamente in quel mondo da lui amato fatto di
rhythm’n’blues, rock’n’roll, soul, country, rockabilly e sostanzialmente
gli stessi generi che ormai inserisce nei suoi nuovi dischi. Dylan,
ovviamente non può presenziare settimanalmente, così registra la sua
parte mentre viaggia in tour, sa di potersi avvalere dell’enorme
collezione del produttore della trasmissione Eddie Gorodetsky che vanta a
suo dire più di 10 mila dischi di quel genere e oltre 140 mila file
digitali.
Modern Times del 2006, intanto, rimane in linea con il precedente “Love
And Theft”, anche se riesce a esprimere il gusto rétro in una forma più
elegante e suggestiva adattando la sua voce a profonde tonalità da
crooner: «Mi sono sentito dominato dalla voce di Louis Armstrong»
racconta in un’intervista. «Non so se il mio modo di cantare si ispiri
più al suo timbro di voce o a quello della sua tromba quando sembra
sussurrare un segreto all’orecchio». È un bel lavoro che osserva
disincantato e amaro gli ingranaggi senz’anima del nuovo millennio e il
titolo non è certamente estraneo alla pellicola girata da Chaplin nel
1936. Anche questa volta registra in studio con i nuovi musicisti del
tour che vedono come unico superstite dell’album precedente il fido
bassista Tony Garnier. C’è una strana atmosfera da Music Hall che
pervade molti pezzi del disco: «Mentre cantavo immaginavo quelle coppie
eleganti abbracciate e gli abiti da sera delle donne che seguivano i
passi leggeri dei loro cavalieri». Ancora una volta Dylan si lascia
conquistare dal fascino del bianco e nero ed è il sound delle grandi
orchestre a farla da padrone. Ma il disco non è proprio cosa da Tin Pan
Alley, l’immagine quasi da sogno delle ballrooms si alterna a quella più
stridente dettata dal blues e mentre scivola la rivisitazione di
Rollin’ And Tumblin’, il celebre brano di Muddy Waters che Dylan
ignobilmente si attribuisce, riemergono anche i fantasmi di Chicago.
La sua tecnica di scrittura sembra sempre più procedere per associazioni
mentali: un’immagine evoca una musica e quella diventa il tormentone
del momento che si dipana in mille rivoli e direzioni che insieme
disegneranno la geografia del lavoro successivo.
Together Through Life è la sua ultima fatica e già il retro di copertina
ci suggerisce la direzione. Un pugno di uomini di frontiera seduti in
una stanza spoglia con strumenti come la fisarmonica, la tromba e un
rullante di batteria fanno presagire qualche escursione oltre il confine
americano, in direzione messicana, e infatti scorrendo la lista dei
nuovi musicisti spunta il nome di David Hidalgo dei Los Lobos. Sarà
proprio lui a guidare la danza con il suo accordeon, insieme al
mandolino di Mike Campbell e la steel guitar di Donny Herron nei pezzi
dal sapore tex-mex che rievocano il fantasma di Desire. Dylan dal canto
suo regala una voce rotta e disperata, confezionando un altro pezzo da
museo per il suo pantheon personale. L’occasione arriva quando il
regista francese Olivier Dahan gli chiede di collaborare alla colonna
sonora del film My Own Love Song. La scrittura di Life Is Hard
evidentemente ha scatenato un processo creativo subitaneo che si è
materializzato in questo lavoro, legato ai precedenti dal filo rosso del
ricordo.
«C’è un momento in cui le vecchie cose ridiventano nuove, ma questo
momento deve essere un lampo», dice Dylan in This Dream Of You. Se
questo lampo può essere fermato in una canzone, allora si può costruire
un disco che faccia rivivere, nel breve spazio di pochi minuti, le cose
belle della vita. Un regalo meraviglioso, che Dylan potrebbe aver
concepito per evitare il trattamento inclemente del tempo che passa, una
specie di patto col diavolo alla rovescia che, contrariamente a quanto
succedeva a Dorian Gray, presenta pubblicamente un corpo segnato dalla
vecchiaia, ma mantiene, nella soffitta dell’inconscio, l’eterna
giovinezza.

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