04/01/2011

FIGLIO DI UN HENDRIX MINORE

Nel nome di Jimi

Non ci sono più le famiglie di una volta. E forse nel girone del rock non sono mai esistite. La vicenda degli Hendrix è il tipico episodio di una saga americana, con battaglie senza esclusioni di colpi per giocare la partita dell’eredità: un romanzo d’appendice, un serial tv, un drammone cinematografico carico di pathos e cambi di scena, che alla fine lasciano sul terreno la soddisfazione dei vincitori e la frustrazione dei vinti.
Nella fattispecie, sovrastato da una storia più grande di lui, ecco a voi Leon Hendrix, perdente-tipo di una trama che nel corso del tempo – i quarant’anni trascorsi dalla morte del fratello Jimi – lo ha visto soccombere sempre e comunque, fino alle ultime delibere giudiziarie che di fatto lo hanno escluso da ogni diritto e richiesta di partecipazione agli utili di un giro di denaro che, possiamo solo immaginare, sia stratosferico, decine di milioni di dollari all’anno. Che vanno invece a favore della sorellastra Janie, oggi a capo della fondazione che ha avocato a sé tutte le decisioni e le scelte sullo sfruttamento della memoria. Sulle complesse (dis)avventure che hanno portato allo status quo, Leon, 63 anni ben portati, una netta somiglianza con Jimi, non si dilunga. Ha forse anche rimosso i particolari di passaggi e cause, ricorsi e avvocati: è tagliato fuori da tutto e questo basti. Tra fine novembre e inizio dicembre è stato in Italia per una serie di conferenze e di concerti del trio di Randy Hansen, chitarrista di Seattle che riproduce Hendrix con peculiare precisione stilistica: lo abbiamo incontrato per ascoltare la sua voce, solitamente pochissimo interpellata in proposito. Di Leon Hendrix si conosce poco: vagamente sappiamo di diversi impicci con la legge – piccoli reati per spaccio, furti, ricettazione – che gli hanno giocato contro nella fase di discussione sulla gestione del patrimonio. Nove figli, numero imprecisato di nipoti, vive tra Seattle e Los Angeles e non fa mistero della sua condizione: «Sono povero, ma non è un problema. Dio mi protegge, è dalla mia parte e mi ha affidato il compito di promuovere e valorizzare la memoria di Jimi. È vero, il conto in banca che se ne giova è di altri, ma io sono suo fratello: abbiamo lo stesso sangue nelle vene e questo nessun altro, a cominciare da Janie, può rivendicarlo. Lei ha avuto un’infanzia complicata, senza un’identità e questo modo di fare è il suo riscatto, una vendetta personale».
Nonostante tutto, non c’è asprezza nel tono, ma piuttosto rassegnazione: «In questi anni, progressivamente, lei ha fatto terreno bruciato intorno a sé e così anche i cugini e vari parenti sono stati allontanati. Si vuole occupare di tutto, circondata da persone cattive, che non hanno mai pensato al bene e all’interesse di Jimi e della sua musica, ma solo al proprio tornaconto. Di sicuro ho sbagliato qualcosa, visto che ho sempre risposto a tutti e spesso mi hanno coinvolto in operazioni che poi sono finite nel nulla. Ho collaborato alla stesura di trattamenti o sceneggiature cinematografiche, ma poi non ne ho saputo più niente. E anche le case discografiche si sono comportate male: volevano la mia musica, con cui cerco di continuare l’opera di Jimi, ma poi mi sembrava ci fosse poco di chiaro e così mi sono tenuto i nastri. Spero di farli uscire presto, insieme al libro che ho scritto, Jimi And Me, che sarà pronto in primavera: c’è la nostra storia e dopo sarà difficile per altri aggiungere qualcosa».
Cosa ha conservato di suo fratello?
«Tantissimi ricordi che ho riportato minuziosamente, visto che siamo cresciuti insieme. Mi ha insegnato un sacco di cose: ascoltavamo la radio, lo vedevo che imparava a suonare e mi portava spesso con sé, fino a quando è rimasto a Seattle. Di Jimi mi è rimasta una chitarra del 1964 che tengo in cassaforte, la considero una garanzia per il futuro dei miei figli. Poi ho anche qualche nastro con musica e video, ma non li posso usare, per le disposizioni che hanno destinato ogni tipo di sfruttamento alla società guidata da Janie. Appena andassero in circolazione verrebbero sequestrati. Ma non solo l’unico: in giro c’è tanta gente che ha raccolto materiali di estremo valore e qualità, e non può farci nulla. Aggiungo anche che alcuni disegni attribuiti a Jimi, in realtà sono miei».
Come giudica le figure dei personaggi che più hanno gravitato intorno alle riedizioni hendrixiane, Alan Douglas, Eddie Kramer e John McDermott?
«Tutti hanno approfittato e guadagnato montagne di denaro, speculando su di lui. Ho ancora negli occhi Douglas che faceva tappa fissa a casa nostra, sempre intorno a mio padre per fargli firmare carte, contratti, liberatorie appena dopo la morte di Jimi. Alan si offrì di tutelare l’opera di mio fratello, mettendo un sacco di vincoli a proprio beneficio: e sono sua responsabilità alcuni dischi degli anni 70 davvero scadenti, che tradivano il senso della musica originaria. McDermott ha invece vissuto nell’ombra di Janie, eseguendo gli ordini su quello che voleva lei, mentre Kramer ha sempre raccontato un sacco di balle. Ha fatto credere a tutti che sia stato lui a delineare il sound di Jimi… Macché, spesso veniva mandato via dallo studio: era soltanto un tecnico, uno come tanti. È dopo che si è inventato un ruolo e molti hanno abboccato alle sue storie».
Che idea si è fatto sull’ultimo, controverso periodo di vita e sulle modalità della morte?
«Di certo Jimi, che non ha mai sopportato gabbie e imposizioni di nessun tipo, aveva deciso di abbandonare un filone artistico che considerava esaurito. Aveva dato e ricavato tutto da un certo modo di fare canzoni e voleva prenderne le distanze, nonostante discografici e manager insistessero perché tutta la vita ripetesse Foxy Lady o Purple Haze. Lui voleva andare oltre e presto avrebbe suonato altra musica: aveva vere sinfonie che navigavano nella sua testa, sarebbe stato solo questione di tempo perché riuscisse a voltare pagina. Sulla morte ho studiato i referti e ci sono particolari che non tornano. Nei suoi polmoni c’era una quantità esagerata di vino rosso e sono convinto che Jimi mai l’avrebbe bevuto così tanto, volontariamente: credo che qualcuno abbia potuto forzarlo. L’idea di morire era quanto di più estraneo ci fosse al suo modo di pensare».

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