Los Angeles, 1975. La città del sole. Non per tutti però. C’è una villa in Doheny Drive, dalla non troppo pretenziosa forma cubica, dove la luce viene nascosta per tutto il tempo da tende piuttosto spesse. L’unica illuminazione proviene da una serie di lugubri candele nere; nella penombra si possono distinguere le sagome di sinistre sculture egizie. Sul pavimento e sulle pareti, astrusi disegni di pentacoli, dell’Albero della Vita e di altri simboli occulti. Nel frigo, insieme a una discreta riserva di cartoni di latte e peperoni verdi e rossi, diverse bottiglie contenenti urina. Sul piatto del giradischi, gli ultimi 33 giri di Kraftwerk, Neu!, Can. Sugli scaffali della libreria, White Stains di Aleister Crowley, l’opera omnia di Nietzsche e una sfilza di volumi su cabala, nazismo e altri argomenti insoliti come l’effetto Kirlian. David Bowie, una delle maggiori superstar del pianeta, vive così da settimane. La sua reclusione non è una scelta razionale: è la diretta conseguenza di una dipendenza dalla cocaina che, come ricorderà il biografo David Buckley, ha ormai assunto proporzioni astronomiche. È in grado di restare sveglio per sei, sette giorni di fila. L’anoressia lo ha praticamente ridotto a una larva umana (il contenuto del frigo, fluidi corporali a parte, è la sua dieta esclusiva), ma ancora peggio è riuscita a fare la paranoia: crede che le groupie con cui si intrattiene siano in realtà streghe che vogliono rubare il suo seme, che la sua urina possa essere utilizzata dai suoi nemici per malefici e che Jimmy Page, altro famoso adepto di Crowley, brami per la sua anima. Come sia sopravvissuto in tali condizioni fisiche e mentali, riuscendo persino a dar vita a una delle sue opere più significative, è ancora oggi uno dei misteri più oscuri e affascinanti dell’intera vicenda bowiana. Uscito da quella casa, David inciderà Station To Station, uno dei suoi capolavori nonché effettivo punto di partenza della fase più creativa, sperimentale e rivoluzionaria della sua carriera.
Facciamo qualche passo indietro. Dismessi definitivamente i panni di Ziggy Stardust, smantellato senza pietà l’ormai patetico teatrino del glam rock, Bowie era partito alla conquista definitiva degli States con lo show più ambizioso dei suoi tempi: il tour di Diamond Dogs, una coraggiosa quanto costosissima messa in scena che lo aveva progressivamente avvicinato al funk e al soul, forme musicali “autoctone” di cui aveva subito il fascino e che non aveva anzi tardato ad assimilare completamente. Ecco che nel giro di qualche mese si era trasformato nella perfetta star americana: borsalino ben piantato in testa, con movenze sinuose e una nuovissima voce calda e baritonale aveva presentato al pubblico del Dick Cavett Show la sua ultima canzone, Young Americans. L’album eponimo uscito di lì a poco era così un sofisticato e levigato distillato di Philly soul, pop e funk al calor bianco; il pubblico a stelle e strisce aveva gradito al punto da regalargli il suo primo numero 1 in classifica, quella Fame nata quasi per caso, da un’improvvisazione in studio con un John Lennon di passaggio tra una pippata e l’altra. Già, la fama. Quella puttana bramosa e lasciva che ti mangia l’anima e ti rende schiavo, senza scampo. È così che Bowie, lontano anni luce dalla sua Inghilterra, dal mondo intero e da se stesso, era sprofondato in quell’abisso losangelino di follia e alienazione.
Ma alla fine, più che la fama poté la fame. Fame d’arte, di conoscenza, di sublimazione: quella dote che ne ha sempre spinto le azioni e lo ha distinto dai più, portandolo sempre un passo avanti. Ancora una volta David non resiste all’impulso superomistico di trasformare la propria vita in opera d’arte, plasmando sulla propria figura – e sulle proprie miserie – un nuovo personaggio. The Thin White Duke: una creatura algida, elegantissima e distante, a metà tra cabaret tedesco e il cinema muto di Buster Keaton. Non ha sentimenti umani: il suo sguardo è distaccato, le sue emozioni sono vuote; sono pose, interpretazioni, forme prive di sostanza. Un alieno, insomma. Proprio come Thomas Jerome Newton, il protagonista de L’uomo che cadde sulla terra di Nick Roeg, il debutto cinematografico in sci-fi di un Bowie mai così in parte: il personaggio è stato infatti totalmente plasmato su di lui (il regista aveva pensato di scritturarlo subito dopo aver visto Cracked Actor, documentario di Alan Yentob sul Diamond Dogs Tour), e non è quindi un caso se la copertina di Station To Station (così come quella del successivo – e altrettanto seminale – Low) riprenda un fotogramma della pellicola. Mai come in questo periodo della vita di David, i confini tra vita e arte, tra uomo e maschera sono stati tanto labili.
Come ha candidamente ammesso anni dopo, Bowie non ricorda assolutamente nulla delle session di registrazione di Station To Station. Secondo le note di copertina del disco, dovrebbero essersi tenute nell’autunno 1975 (chi dice in dieci giorni, chi in due mesi) ai Cherokee Studios di Los Angeles, sotto la supervisione dello stesso David e di Harry Maslin (il fido Tony Visconti si trova in Europa per lavorare ad altri progetti). «Il disco suona un po’ annebbiato… per ovvie ragioni! Le sedute duravano ore e ore… per notti intere», ha ricordato il chitarrista solista Earl Slick. Per Carlos Alomar, chitarrista ritmico e bandleader (nonché braccio destro di Bowie per buona parte della carriera), «la cocaina era al servizio dell’ispirazione». La polvere bianca serviva cioè a far girare il motore costantemente, per tenere il passo della spinta e dell’urgenza artistica, altresì stimolata dalle possibilità offerte dalle allora innovative macchine a 24 piste. Le visioni dell’Esile Duca Bianco, in tutta la loro complessa, tetra e immaginifica oscurità, confluiscono allora integralmente nella torrenziale ed epica traccia omonima: 10 stupefacenti minuti in cui il rigore marziale del kraut rock si fonde con la sinuosità del funk, in un crescendo adrenalinico che è impossibile non associare agli effetti di quelle stesse sostanze che giravano in studio. Una volta presentato il Thin White Duke (un sadico cupido che «lancia dardi negli occhi degli amanti») ed evocate immagini dalla cabala («Un movimento magico da Kether a Malkuth», ovvero le tappe iniziali e finali dell’Albero della Vita) e dal Vangelo (le stazioni del titolo sarebbero quelle della Via Crucis), Bowie arriva a cantare uno dei suoi versi più sagaci, schietti e memorabili («Non sono gli effetti collaterali della cocaina, credo che si tratti di amore»), prima di invocare definitivamente l’Europa come patria artistica e non solo («Il canone europeo è qui»). Se è vero che avrebbe in seguito definito L.A. come «un fottutissimo posto da cancellare dalla faccia della terra», tuttavia David non ha ancora smesso di giocare al «giovane americano», conquistando anzi il riconoscimento da lui più ambito: il singolo apripista Golden Years (pensato addirittura per Elvis, che però lo rifiuta) gli apre le porte di Soul Train, programma tv sino ad allora riservato esclusivamente ad artisti di colore. D’altronde la sezione ritmica – composta dal citato Alomar, il bassista George Murray e il batterista Dennis Davis, l’ossatura della band di Bowie fino al 1980 – è “colorata” ed è una vera e propria bomba, come dimostra il groove irresistibile e sanguigno di Stay, funk elettrico dai toni quasi hard rock, trasudante desiderio, carnalità e disperazione. Sentimenti che evolvono in necessità di redenzione in Word On A Wing, la cosa più vicina a una preghiera che David abbia mai scritto: «Signore, mi inginocchio e ti offro la mia parola su un’ala / Sto facendo di tutto per rientrare nei tuoi schemi». Sarebbe certo il suo disco più personale e cupo, se non ci fossero a compensare il romanticismo languido di Wild Is The Wind (classico di Nina Simone arricchito da una prestazione vocale magistrale) e la goliardia beffarda di TVC 15, numero da cabaret ispirato da un bizzarro sogno dell’amico Iggy Pop (dove la fidanzata viene risucchiata dallo schermo di una tv a colori) guidato dal piano frizzante di un Roy Bittan in libera uscita dalla E Street Band.
Se sulla carta oggi può risultare un lavoro non facile e certo poco commerciabile, la superstardom di Bowie garantisce invero a Station To Station un terzo posto nella classifica di Billboard, il massimo piazzamento raggiunto da un suo lp dall’altra parte dell’Atlantico. Ma il Duca Bianco ha già volto il suo sguardo altrove.
Prima dell’agognato e fatale ritorno in Europa, è però il momento di effettuare un ultimo giro da costa a costa. Il tour parte il 2 febbraio 1976 da Vancouver, ad appena un mese dalla pubblicazione dell’album; le prove si erano svolte in Giamaica, nella villa prestata dall’amico Keith Richards, dove David aveva radunato un ensemble composto dalla fidata sezione ritmica più l’ex Yes Tony Kaye alle tastiere e il debuttante Stacey Heydon alla chitarra solista (in sostituzione del dimissionario Slick). Quello a cui assiste (o meglio, è sottoposto) il pubblico non è il solito spettacolo. A una riproduzione integrale di Radioactivity dei Kraftwerk (supporter ideali e in effetti designati, ma purtroppo impossibilitati per difficoltà tecniche e costi) segue la proiezione del capolavoro surrealista Un chien andalou di Luis Buñuel; dopo la visione disturbante di bulbi oculari tagliati a metà, decine di neon investono gli astanti di un’accecante luce bianca, per tutta la durata del concerto (un espediente provocatorio mutuato dal teatro brechtiano). Dopo la lunga introduzione strumentale della title track, in mezzo al chiarore emerge in tutta l’austerità l’inconfondibile sagoma del Thin White Duke: bellissimo, irraggiungibile, distaccato eppur dotato di un carisma quasi divino. La lunga dipendenza non sembra aver minato le straordinarie capacità d’intrattenitore di Bowie, che adesso appare anzi estremamente rilassato e persino divertito; nella sua mente ancora provata, però, continuano a susseguirsi pensieri oscuri e controversi. Nelle interviste comincia ad esporre con insistenza idee totalitariste, lanciando provocazioni come «Adolph Hitler è stato la prima rockstar. Quasi meglio di Jagger!» e «Mai come oggi l’Inghilterra avrebbe bisogno di una dittatura fascista. Io potrei essere primo ministro». Dichiarazioni che non tarderà di lì a poco a ritrattare con vergogna e a riconoscere come deliri di onnipotenza dettati dalla coca, che tuttavia contribuiscono a creare un caso mediatico che tocca il suo apice quando, durante l’arrivo in limousine alla stazione Victoria alla vigilia della sezione inglese del tour, un fotografo di NME lo coglie nel bel mezzo di quello che sembra proprio un saluto nazista («Stavo soltanto agitando la mano per salutare», è la versione del diretto interessato).
Montatura o meno, è il punto di arrivo del Thin White Duke. Qualche mese dopo, Bowie si farà crescere i baffi e si ritirerà al 155 di Hauptstraße, quartiere di Schöneberg, Berlino Ovest, nel più completo anonimato. Un nuovo esilio, che partorirà nuovi capolavori. Un’altra storia.