Ribelle, anticonvenzionale, indipendente. Dall’aspetto ruvido e allo stesso tempo sensuale, con l’immancabile frangetta che ne distingue il look da femme fatale del punk-rock, unisce lo spirito di un maschiaccio alla più pura sensibilità femminile (contraddizioni incluse). Un giornalista, nel descriverla, l’ha definita una donna con «corazza d’acciaio e disarmante vulnerabilità emotiva». È Chrissie Hynde dei Pretenders, che abbiamo intervistato telefonicamente con JP Jones, cantautore proveniente dal Galles. I due hanno pubblicato il loro primo album scritto a quattro mani, Fidelity!. Sarà stata la stanchezza della giornata (li abbiamo raggiunti dopo una lunga serie di interviste), aggiunta alla scarsa qualità della linea telefonica che non ha aiutato la comprensione reciproca, ma la chiacchierata è fatta di risposte brevi e battute spigolose. Le poche frasi che ci sono arrivate dall’altra parte dell’oceano tuttavia non hanno fatto altro che aggiungere entusiasmo e interesse per questo nuovo progetto, che prende il nome di JP, Chrissie And The Fairground Boys.
In oltre trent’anni di carriera la Hynde ha sempre pubblicato dischi con il nome dei Pretenders, anche quando era lei l’unico membro costante della band. Secondo una leggenda, non ama essere avvicinata né toccata: il suo manager chiedeva a chi si apprestava ad incontrarla di non provare a stringerle la mano. Cos’è, quindi, che ha fatto cadere le barriere difensive della regina del post punk, sulla soglia dei 60 anni? Che cosa l’ha portata a pubblicare un disco con altri musicisti?
La storia ha inizio nel novembre del 2008. Chrissie siede ubriaca al banco di un bar quando uno sfrontato e coraggioso giovanotto di nemmeno 30 anni le si avvicina porgendole un simpatico saluto in gallese. John Paul Jones, questo il nome del ragazzo, è un musicista che ha inseguito invano il successo con due band, The Grace prima e Big Linda poi. Probabilmente mai avrebbe predetto che quell’improbabile tentativo d’abbordaggio l’avrebbe portato, pochi mesi dopo, a dividere una stanza d’albergo a Cuba e a scrivere canzoni con uno dei suoi idoli adolescenziali. «Quando ci siamo conosciuti eravamo entrambi ubriachi», racconta Chrissie, «e il posto era parecchio rumoroso. Il poco che ci siamo detti mi è bastato per capire che anche lui era un musicista, da poco scaricato dalla propria etichetta discografica. Poi mi ha detto di essere cresciuto in un luna park e qualcosa dentro di me si è acceso. Per me le giostre hanno sempre avuto un fascino magico. Ho sempre associato il luna park all’idea di libertà. Adoravo le giostre che comparivano una mattina nel parcheggio di un centro commerciale. Ho sempre amato la loro natura nomade, la trovavo molto romantica. E sapevo che anche io dovevo stare sempre in movimento allo stesso modo. Me ne sono andata dall’Ohio quando avevo 22 anni per trasferirmi a Londra. Sono semplicemente partita. E sento che lo sto ancora facendo». Così gli lascia il numero di telefono e il giorno successivo parte con i suoi Pretenders per il tour promozionale del loro ultimo disco, Break Up The Concrete. Nei mesi che seguono JP le manda diversi messaggi, finché una sera, prima di salire sul palco, lei ne riceve uno che le augura «all the fairground luck», letteralmente «tutta la fortuna dalle giostre». Per tutta risposta lei lo invita a scrivere un brano con quel titolo. Che due giorni dopo è già nella sua casella di posta. «La sua voce mi ha colpito moltissimo», ricorda la Hynde, «non avevo mai sentito una canzone così prima. Sono stata totalmente sedotta dalla sua musica e dal suo modo di scrivere».
I due continuano a scriversi anche durante il successivo tour dei Pretenders. Jones le spedisce brani in continuazione. «Non ho mai avuto molta confidenza con il computer», ha dichiarato lei, «mentre ero in tour le canzoni che mi mandava JP erano l’unica cosa che potevo ascoltare, e più le risentivo, più me ne innamoravo. A un certo punto uno dei suoi messaggi diceva: credo che potremmo scrivere un grande album insieme. Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere». Così, una volta finito il tour, Hynde propone inaspettatamente a Jones di partire per Cuba. Lì, nella suite dell’Hotel Nacional all’Avana, tra fogli pieni di appunti, bottiglie di rum e sigari, ha preso vita Fidelity!.
«JP si era portato una chitarra», racconta Chrissie, «scrive in continuazione, è molto produttivo. Dopo un paio di giorni abbiamo pensato: ok, ci piacciamo un sacco ma non abbiamo un futuro come coppia. Abbiamo quasi trent’anni di differenza. Così abbiamo iniziato a cantarci delle canzoni, dedicandole l’una all’altro». Non ci è dato sapere cosa sia successo veramente in quella camera d’albergo: «Stavamo semplicemente seduti, guardandoci negli occhi, scrivendo testi, trovando melodie e accordi, le canzoni sorgevano spontanee», è il racconto ufficiale. Quello che possiamo affermare con certezza è la loro perfetta chimica a livello musicale: le 11 tracce del disco, nella loro semplicità, sono cariche di empatia e pregne di significato. Ciò che traspare da ogni singola nota dell’album è una totale sincerità e perché no, vulnerabilità. I due si espongono senza timore, è evidente fin dalle prime battute, quando la Hynde canta: «Ho trovato il mio amante perfetto / Ma ha la metà dei miei anni / Stava imparando a stare in piedi / Quando io mi sposavo per la prima volta».
Questo, ha spiegato Hynde, «è un disco su qualcosa che non può accadere. Molte persone si innamorano di qualcuno con cui non possono stare. Il disco riguarda questo, è fatto di canzoni strazianti e strappalacrime, ma sono tutte vere. La prima che abbiamo scritto si intitola If You Were My Age e ha dato origine a tutto l’album, anche se è l’unica che non ne fa parte. Camminavamo per Cuba dicendo: se avessi la mia età mi sposeresti e faresti dei figli con me? Il fatto è che se fossimo stati coetanei saremmo scesi nel campo di battaglia e avremmo iniziato la nostra vita assieme. Ma non possiamo. In genere le altre coppie fanno programmi per il futuro. Io e JP possiamo solo programmare il tempo che ci serve per fare qualche disco. Lui vuole una famiglia e io non gliela posso più dare ormai. È troppo tardi per me». Certo, pensando alla sua burrascosa vita sentimentale, dalla relazione con Ray Davies a due matrimoni falliti (uno con Jim Kerr dei Simple Minds, l’altro con l’artista Lucho Brieva), non possiamo non commuoverci di fronte alla storia di questo amore impossibile. Dal canto suo, JP ha affermato: «Il fatto che non possiamo stare assieme è straziante. La connessione tra noi e le circostanze che l’hanno creata sono tutte sul disco. È la cosa più onesta che abbia mai fatto. Ci sono state persone ai nostri concerti che si sono messe a piangere. Ma non vogliamo farvi star male. C’è molta speranza, nel senso che siamo ancora assieme per fare musica, ed essere in una band è una cosa fantastica. Se non avessimo quest’album probabilmente non ci rivolgeremmo nemmeno la parola». La Hynde a tal proposito ha detto: «La musica è un distillato di amore e dolore. Ognuno soffre per un qualche motivo. Mentre scrivevo alcune di queste canzoni stavo piangendo. Ma non è una cosa così tragica. La natura del rock, soprattutto ai concerti, dovrebbe essere il divertimento. Non abbiamo fatto un disco per deprimere la gente». E la positività è quello che rimane alla fine dell’ascolto.
Fidelity! è nato dall’elettricità scattata tra due anime: è musicalmente stimolante, fatto di canzoni che si apprezzano sia per la loro qualità musicale, sia per il loro contenuto, profondamente emotivo e sincero. L’impronta personale di entrambi è sempre riconoscibile, i loro stili sono in perfetta sintonia. La grinta vocale di lei è intatta, il suo timbro pop-rock interagisce ottimamente con le tinte di folk britannico della scrittura di lui. Ma ciò che colpisce maggiormente è la carica emozionale e passionale dei singoli brani. C’è il loro incontro («Di solito i tipi come te mi dicono addio», canta la Hynde in Australia), l’innamoramento e il desiderio (Meanwhile, Your Fairground), il dubbio («Mi porteresti via? Baceresti queste labbra ogni giorno?», Fairground Luck), la disperazione («Non puoi biasimare un uomo se lascia una donna che non è più nel fiore degli anni, lasciami se devi», sono le terribili liriche di Leave Me If You Must). Ma ci sono anche molta forza, grinta e un grandissimo coraggio: «Sfiderò il mondo intero, farò in modo che tu mi ami, se me lo permetti» (If You Let Me), o ancora, «Si sbagliavano quando dicevano che per noi era finita» (Courage Love). L’ultima traccia che dà il titolo al disco parla di una bambina: «Mentre camminavamo per Cuba vedevamo tutte queste immagini di Fidel, e pensavamo, se mai avessimo potuto avere una bambina, di chiamarla Fidelity», spiegano i due. «Questo disco è come se fosse il bambino che non potremmo mai avere».
Chrissie e JP sono positivi riguardo al loro futuro, sicuramente continueranno a fare musica assieme. «A differenza delle altre collaborazioni, in Fidelity! ho scritto solo per JP, per nessun altro», ha dichiarato Chrissie. «Di solito prendo in mano la chitarra di tanto in tanto, se mi viene un’idea ci torno su qualche settimana dopo. Ma JP mi ispira a tal punto che credo potrei scrivere una canzone su di lui ogni giorno, se ne avessi il tempo». Nel corso della sua carriera Hynde ha collaborato con Frank Sinatra, Cher, Sheryl Crow, Morrissey, Emmylou Harris e l’ex compagno Ray Davies, tuttavia sempre rimanendo nella sua band originaria. «Sono sempre stata fedele all’etica dei Pretenders», ha affermato, «probabilmente anche più del dovuto, perché ho perso due membri nel giro di un anno (il chitarrista James Honeyman-Scott e il bassista Pete Farndon, morti per overdose tra l’82 e l’83, nda), e come tributo a loro ho voluto mantenere viva la musica. Non avrei mai pensato di collaborare con un altro cantante, ma ora posso tornare sulla scena con una nuova band senza essere sempre incasellata in ciò che la gente si aspetta da me. Questa volta è diverso perché c’è una storia tra noi, quindi scriviamo canzoni su di noi, siamo uno l’ispirazione dell’altro. E quando hai una musa, hai qualcosa da coltivare, una cosa su cui focalizzarti e su cui scrivere. Non ho mai fatto niente di simile. A volte mi sento un po’ come Joan Baez quando ha presentato Bob Dylan al resto del mondo», ha ammesso. «Il prossimo anno la gente si chiederà che ci faccio ancora qui, mi allontaneranno. Lui continuerà a fare musica a lungo dopo che mamma sarà andata via».
Da canto suo, JP è prodigo di adulazioni per la compagna: «L’incontro con Chrissie mi ha completamente cambiato, perché ora so qual è la mia strada. Mi ha fatto capire che bisogna essere se stessi e non bisogna permettere ai discografici di manipolarti». La sua prima band, The Grace, era finita sotto l’ala protettrice della Emi che ne voleva fare i nuovi Snow Patrol, ma sono stati abbandonati poco dopo a fronte di uno scarso successo commerciale. Dopo questa prima delusione, JP si è unito ai Big Linda. «La Universal mi aveva da poco proposto un contratto con altri dieci cantautori. Volevano avere il controllo del mio look, che mi tingessi i capelli e cose simili. Poi con Chrissie abbiamo scritto questo disco, ed è stato tutto molto più naturale. Musicalmente ho scoperto me stesso attraverso di lei». Anche da un punto di vista discografico, Fidelity! mantiene intatta la loro etica di indipendenza: oltre ad avere scritto e arrangiato ogni singolo brano, i due hanno fondato una propria etichetta, La Mina (Animal al contrario, tributo agli ideali animalisti e ambientalisti da sempre portati avanti da Chrissie, vegetariana convinta). Citazione a parte va ai musicisti che hanno accompagnato la coppia in studio di registrazione, tutti membri dei Big Linda (Patrick Murdoch alla chitarra, Sam Swallow al piano, Vezio Bacci al basso e Geoff Holoryde alla batteria). L’album è in tutto e per tutto un lavoro puro e coraggioso dall’inizio alla fine. Come ha detto Hynde, «abbiamo dimostrato che due persone possono amarsi, superare i loro desideri primari e distillare il loro amore in qualcosa di musicale ed elevato. Qualcosa di rock’n’roll».
In fondo, quel fairground luck si è rivelato un augurio davvero di buon auspicio.