09/12/2010

TIRED PONY

SNOW PATROL + R.E.M.

Di supergruppi, la storia del rock ne è piena. Più o meno riusciti, certo, ma sempre con dietro quel carico inevitabile di aspettative, spesso direttamente proporzionale alla somma dei componenti. Che poi, a voler essere un filino maliziosi, più altisonanti sono i nomi coinvolti più il rischio bufala si fa concreto: non c’è niente di più facile per artisti affermati e con largo seguito di pubblico che imbandire collaborazioni estemporanee e magari artisticamente poco consistenti, ma dall’esito non men che sicuro. Non è certo questo il caso dei Tired Pony. Per diversi motivi. In primis perché il loro The Place We Ran From (recensito sullo scorso numero di JAM) è un album sorprendentemente ispirato, tutt’altro che posticcio o costruito a tavolino. Poi perché, per quanto sulla carta una band composta da membri di R.E.M., Belle And Sebastian, Snow Patrol, Editors e She & Him suoni senz’altro appetitosa, è pur vero che la ciambella non sempre riesce con il buco, nonostante la qualità degli ingredienti. Insomma, proseguendo con la metafora culinaria, ci vuole un buon cuoco. Meglio ancora due, come in questo caso: Gary Lightbody, voce, mente e cuore degli Snow Patrol (oltre che deus ex machina dell’intero progetto) e il produttore irlandese Garret “Jacknife” Lee, già al lavoro con big come U2 nonché responsabile della rinascita dei R.E.M. di due anni fa con Accelerate. E se a questa coppia si affiancano un veterano come Peter Buck e una vecchia volpe come il suo inseparabile compare Scott McCaughey (Minus 5 e Young Fresh Fellows, oltre che chitarra aggiunta di Michael Stipe e compagni da ormai quindici anni), sulla bontà del risultato non dovrebbero rimanere molti dubbi. Quanto agli altri motivi che fanno di Tired Pony una delle più gradite sorprese dell’anno, è lo stesso Gary a svelarceli nel corso di un’amabile conversazione telefonica.
«Non so come verrà accolto questo album, non so nemmeno se mi importa. So solo che mi è davvero piaciuto farlo. Anzi, ne ho proprio avuto bisogno: non mi piace restare troppo attaccato agli Snow Patrol, e avevo sinceramente la necessità di prendere aria, lasciarmi un po’ di spazio per respirare. È stato un sollievo, se proprio devo dirlo».
Non saranno famosi quanto i R.E.M., ma negli ultimi cinque anni gli Snow Patrol sono diventati una delle band di maggiore successo del Regno Unito, in grado di riempire stadi e vendere migliaia di copie grazie alle loro canzoni indie pop ad alto tasso emotivo. E dire che soltanto una decina di anni fa, quando muovevano i primi passi sotto l’egida della scozzese Jeepster (la stessa etichetta dei Belle And Sebastian), avevano rischiato più volte il tracollo principalmente a causa dei mancati riscontri commerciali. Cruciale sarebbe stato proprio l’incontro con Jacknife Lee, artefice dell’album che nel 2003 li avrebbe finalmente lanciati, The Final Straw, trainato dal singolo pigliatutto Run; non a caso, è stato lo stesso Lee a favorire, oggi, la collaborazione con l’amico Peter Buck. «È piuttosto bizzarro, se penso al me stesso che a 15 anni ascoltava Out Of Time e Automatic For The People… Se devo essere onesto, il mio primo disco dei R.E.M. è stato proprio Out Of Time, quindi non posso nemmeno dire di essere così cool da averli seguiti sin dai tempi di Murmur. Insieme ai Nirvana sono stati una grande parte della mia vita, quindi è facile immaginare la mia emozione alla sola idea di suonare con Peter e Scott. Eppure, crediatici o no, è semplicemente bastato chiedere, ed ecco che al primo giorno di registrazione erano davvero lì, come dei musicisti qualunque. Peter non è certo una megastar, percepisci la sua grandezza esclusivamente dal talento che riesce a mettere in ogni cosa. Per questo, registrare l’album è stato un processo veramente facile… Certo, all’inizio era strano voltarsi e trovare Peter Buck laggiù, che suona la tua canzone… Col tempo però ci si abitua, e il tutto diventa semplicemente quello che dovrebbe essere: una band».
In effetti, si è trattato proprio di un lavoro di squadra. Su suggerimento di Buck, le session si sono tenute ai Type Foundry Studios di Portland, Oregon, un grande loft ricavato da un’ex stamperia; l’ideale per permettere ai musicisti di suonare dal vivo, a stretto contatto l’uno con l’altro. Tutte le 10 canzoni del disco sono state completate nel giro di appena una settimana lo scorso gennaio; alcune di esse erano già state scritte da Gary durante le pause dell’ultimo tour degli Snow Patrol, altre sono state improvvisate e registrate sul momento, spesso in non più di tre riprese, rigorosamente in presa diretta (più qualche sovraincisione). Oltre a Lightbody, Lee, Buck e McCaughey, a completare il nucleo della band sono intervenuti il polistrumentista Troy Stewart, il chitarrista e cantautore nordirlandese Iain Archer (già collaboratore degli Snow Patrol e autore di I Am A Landslide, una delle più belle canzoni del lotto) e lo storico batterista dei Belle And Sebastian, Richard Colburn (anch’egli una vecchia conoscenza della band principale di Gary sin dai tempi degli esordi); le apparizioni del duo She & Him (ovvero M Ward e Zooey Deschanel) e di Tom Smith degli Editors, oltre ad arricchire ulteriormente la gamma espressiva, rendono The Place We Ran From un lavoro realmente collettivo.
«Non siamo un supergruppo, almeno non nel senso negativo del termine», commenta Gary. «Detto altrimenti, non c’è stato nessun conflitto di ego: sin dall’inizio abbiamo lavorato come una vera band. Ciascuno di noi ha semplicemente preso in mano il proprio strumento, senza che nessuno ordinasse cosa andava fatto: abbiamo suonato tutti e sette in contemporanea, già dalla prima canzone, in maniera del tutto naturale, seguendo il nostro istinto; con le sovraincisioni, poi, siamo arrivati a diventare un insieme di 14 elementi. La cosa più importante da subito è stata creare il suono complessivo, non le parti individuali. È stato fantastico. Personalmente, non conosco nessuna band – anche se sono sicuro che ne esisterà qualcuna – che lavori in questo modo. Garret ha lavorato con tanti artisti, Peter ha suonato in un sacco di dischi, ma entrambi sostengono di non aver mai provato un’esperienza tanto libera e liberatoria».
Nonostante si sia trattato in ultimo luogo di uno sforzo collettivo, il progetto Tired Pony è nato per dar vita a un’idea che da un po’ frullava nella testa di Gary: scrivere un disco di canzoni sull’America, in uno stile influenzato dal folk – ma non per questo necessariamente folk. «Non avevo intenzione di realizzare un album country. Sin da ragazzo, i miei contatti con quella musica sono stati piuttosto trasversali, a partire proprio dal mandolino di Losing My Religion. Ad ispirarmi in primo luogo sono stati artisti come Smog, Bonnie Prince Billy, Palace, Lambchop, Wilco. Sono band moderne, contemporanee, che nelle loro canzoni parlano di cosa significa vivere oggi».
Le canzoni del disco, in effetti, sanno più dell’alt country delle band citate – con punte rock, noise e persino shoegaze – che del songwriting folk classico americano. Nessuno scimmiottamento: il folk qui è inteso nel suo significato più autentico e genuino, come uno spirito da rievocare, uno stato d’animo che prende vita dalla collettività dei musicisti. «Ciascuno di noi ha portato nel disco la propria sensibilità, in un processo molto simbiotico. All’inizio temevo avremmo avuto delle difficoltà: dato il poco tempo che avevamo a disposizione a causa degli impegni dei vari membri, se non avessimo subito trovato un’intesa sarebbe stato tutto vano. E invece siamo arrivati a scrivere, registrare e completare tre canzoni in un giorno solo. Il primo singolo, Dead American Writers, è stato scritto, provato e registrato in un’ora, dall’inizio alla fine, testo compreso. Non c’è stato bisogno di limare, anzi ho voluto lasciare tutto molto spontaneo e diretto, anche i testi, su cui di solito lavoro ossessivamente».
Descritte dall’autore come una serie di «contorte lettere d’amore per l’America», le canzoni di The Place We Ran From si propongono come piccoli bozzetti di vita randagia, storie i cui protagonisti sono alla costante ricerca di qualcosa. «Avevo quest’idea di storytelling alla Springsteen, di parlare di determinate cose attraverso dei personaggi. Anche quando canto in prima persona, in questo album non parlo mai delle mie esperienze, ed è la prima volta che lo faccio. Volevo rievocare un certo tipo di folclore americano moderno, alla Badlands… È una sorta di tema che lega alcune canzoni del disco, da Northwestern Skies a The Good Book passando per Get On The Road. Si tratta di gente che lotta per avere una vita migliore, che si affanna a cercare un’America che forse ancora non esiste o non è mai esistita, gente che è in fuga, o magari finisce con il separarsi. Non è un disco pieno di speranza, ma d’altronde la vita moderna è questa».
Peter Buck ha detto che «sarebbe una follia non continuare con questa band». Con queste premesse, difficile dargli torto.

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