01/07/2010

LA PENNA PIÙ AFFILATA DEL ROCK – RALPH J. GLEASON

San Francisco, 2 giugno 1975. Jann Wenner, editore di Rolling Stone, è appena rientrato da un viaggio. La segretaria gli comunica che il suo vecchio amico Gleason ha appena avuto un infarto. Wenner, dopo un primo momento di terrorizzante stupore, crolla in lacrime. Durante la notte, nella sua casa di Spruce Street (sulle colline di Berkeley), assistito dalla moglie Jean e dai tre figli, colui che era stato definito «la voce più autorevole di jazz, blues e rock nella California degli anni 50 e 60», parte per il suo ultimo réportage. Aveva 58 anni.
Ma chi è stato veramente Ralph J. Gleason?  E perché, in quegli anni, il mondo della musica non poteva prescindere dalla sua penna affilatissima?
Nato a New York nel 1917, quando ha 18 anni e frequenta la Columbia University viene colpito da una grave forma di rosolia: il medico gli prescrive riposo assoluto in una stanza buia. L’ascolto della radio lo porta a contatto con il jazz, musica di cui si innamora perdutamente. «Ricordo» scriveva Gleason di quei brutti momenti «lunghe nottate insonni durante le quali miei unici compagni erano strani suoni che provenivano da una vecchia radio che mia madre mi aveva lasciato in camera». Superata la malattia, Ralph torna agli studi universitari. Nel 1939, New York è la capitale mondiale del jazz e il campus della Columbia è a pochi isolati da Harlem, quartiere che ospita i concerti di Billie Holiday, Lionel Hampton, Count Basie. «Quando ho scoperto che si potevano vedere questi artisti all’Apollo, al Savoy, allo Strand o al Renaissance, stentavo a crederci», scrive nelle note di copertina di uno dei tanti album che ha impreziosito con le sue argute riflessioni. Già, perché dopo aver lavorato per Cbs e Abc e aver organizzato alcuni concerti, Gleason lascia Manhattan per la California. Alla fine degli anni 40 è a San Francisco dove collabora per il Chronicle: ha una rubrica quotidiana, intervista le grandi star, fa recensioni di dischi e concerti, segnala club, locali e teatri. All’inizio, lo pagano 15 dollari per articolo ma ben presto diventa apprezzato e conosciuto: nessuno, prima di lui,  ha saputo dare al jazz, al blues e alle musiche di origine popolare lo stesso spazio e la medesima dignità riservati alla musica classica o ad altre forme di espressione artistica. Nel 1950 viene assunto dal Chronicle diventando, di fatto, il primo giornalista musicale della storia. La sua passione per il jazz non svanisce ma Gleason ha le orecchie tese verso tutte le novità del mondo delle sette note: intervista Hank Williams, è il primo a riconoscere i talenti di Nat King Cole e di Frank Sinatra, non si fa cogliere impreparato dalla rivoluzione rock. Le sue interviste a Fats Domino, Big Joe Turner e Elvis Presley sono leggendarie.
Americano di origini irlandesi, dotato di spiccata vis polemica, Ralph è uno spirito libero, sensibile alle cause dei più deboli e intollerante nei confronti delle ingiustizie: non ci pensa un attimo a scendere in campo per difendere Lenny Bruce. Si schiera a fianco degli organizzatori del Monterey Jazz Festival e con loro porta all’aria aperta, in un contesto socializzante e ecologico, una musica che sino ad allora era sempre vissuta nei club bui e fumosi delle grandi metropoli americane. A metà degli anni 50, la sua voce anima uno show radiofonico che si trasforma, negli anni 60, in un favoloso programma televisivo (Jazz Casual). Qui, Gleason (che era solito salutare da un’immaginaria Never Neverland) diventa visibile per tutti. Il suo look è inconfondibile: alto, magro, capelli pettinati all’indietro, baffoni all’insù, giacche di tweed e cravatta, pipa e copricapo alla Sherlock Holmes. Il tutto coperto da un immancabile trench che oggi campeggia nella Rock And Roll Hall Of Fame a Cleveland. «L’aspetto di mio padre» mi spiega Toby Gleason, uno dei suoi tre figli «era parte essenziale del suo carattere». La sua attività nella carta stampata non scema: oltre al Chronicle, la sua penna impreziosisce il New York Times, la rivista jazz Downbeat, il magazine progressista Rampart. A metà anni 60, si accorge che a San Francisco sta nascendo qualcosa di importante. Sebbene sia di 25 anni più grande della media di quei giovani hippie, scrive meraviglie della prima band cittadina: The Jefferson Airplane. È lui a dare il benestare a Lou Adler e a John Phillips dei Mamas & Papas per l’organizzazione del Monterey International Pop, il primo festival rock della storia. È sempre lui a sostenere l’idea di un suo giovane epigono, Jann Wenner, quando questi gli spiega (estate del 1967) di voler creare un magazine rock chiamato Rolling Stone. «I suoi articoli erano temutissimi», mi dice Joel Selvin che al Chronicle avrebbe sostituito Gleason, «ma i musicisti lo rispettavano».
«Ho imparato tutto da lui», ci tiene a comunicarmi Greil Marcus, forse il più stimato storico del rock, uno che nei primi anni di Rolling Stone era fianco a fianco di quello che ha sempre considerato il suo maestro.
«Mio padre frequentava gli artisti», mi racconta Toby Gleason, «era amico di Duke Ellington e Miles Davis (ha scritto lui le note di copertina di Bitches Brew) conosceva bene Janis Joplin e tutti i musicisti di San Francisco ma non ha mai fatto parte del movimento hippie. Non prendeva droghe, era diabetico e girava sempre con un cartone di latte». Negli ultimi tempi, ha lavorato anche alla Fantasy Records, a Berkeley.
Sino al 5 maggio 2009, giorno della morte dell’amata moglie Jean (la sua prima redattrice, come me l’ha descritta Toby), la sua collezione di vinili, nastri e libri era rimasta intatta. E così pure l’arredamento e lo spirito di tutta quella casa di Berkeley frequentata ai tempi dal gotha della musica. Lo ha raccontato benissimo la nipotina di Ralph, Kehala nel documentario sul nonno (che non ha mai conosciuto) Remembering Ralph J. Gleason.
«Sai cosa ha scritto di lui Miles Davis il giorno in cui è morto?», mi spiega Toby Gleason. «Solo 5 parole: give me back my friend, ridatemi il mio amico».
«Non è stato un grande scrittore», diceva di lui l’adorata moglie Jean, «ma scriveva cose interessanti».

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