01/07/2010

JAMES TAYLOR & CAROLE KING

OLD FRIENDS

Novembre 1970. È trascorso poco più di un anno da quando James Taylor ha fatto il suo debutto solista al Troubadour di Los Angeles. Ora ritorna per sei serate esclusive, ed è in ottima compagnia: al suo fianco c’è l’amica Carole King, che dopo aver preso parte alle registrazioni del suo secondo album, Sweet Baby James, si è unita a lui in qualità di pianista ufficiale della band e opening act.
Niente di strano, verrebbe da pensare, anche Taylor ha contribuito a Writer, il primo album di Carole: siamo all’inizio degli anni 70 e nella nascente comunità di songwriter che gravita intorno al celebre club di Los Angeles è normale amministrazione per un artista prendere parte alle esibizioni di amici e colleghi. Questa volta, però, si tratta di un caso molto particolare, se non addirittura eccezionale, considerata l’incredibile timidezza di King e la sua innata ritrosia a salire sul palco. Solo un anno fa si è rifiutata di far seguire un tour promozionale alla pubblicazione di Now That Everything’s Been Said, album uscito a nome The City, il gruppo formato insieme al bassista Charles Larkey e al chitarrista Danny “Kootch” Kortchmar. «Scrivo canzoni, non sono una cantante», dice Carole a chi cerca di convincerla a esibirsi dal vivo.
Nel mondo del music business il suo nome è inscindibilmente legato alla favola del Brill Building, quel posto magico che per anni ha sfornato senza sosta piccoli gioielli pop che hanno fatto da colonna sonora alla gioventù americana. Le dita di Carole danzano sulla tastiera di un pianoforte da quando era solo una ragazzina: quel grande strumento è sempre stato in qualche modo la sua naturale estensione, e quando sta seduta lì si sente protetta, al sicuro. Il piano è sempre stato il suo migliore amico fin dai tempi della scuola quando, già fermamente decisa a dar prova del proprio talento perseguendo una carriera di successo nel mondo della musica, aveva deciso di cambiare il proprio cognome da Klein in King, nominativo in cui si sarebbe imbattuta sfogliando un elenco del telefono. E ci è riuscita Carole a realizzare il suo sogno: le hit forgiate in coppia con l’ex marito Gerry Goffin hanno conquistato le classifiche di tutto il mondo e lei è diventata un’autrice di successo. A partire dalla metà degli anni 60, però, la società americana ha cominciato a cambiare, e con lei l’industria discografica: la figura dell’autore che si guadagna da vivere cesellando brani pop sta cedendo sempre più il passo a quella del songwriter o della band che scrive da sé le proprie canzoni. Un esempio per tutti? I Beatles.
Carole è stata tra i primi ad accorgersene: dopo il divorzio da Goffin ha lasciato New York e, con le due figlie e il nuovo fidanzato e bassista Charles Larkey, si è trasferita a Los Angeles, prendendo casa nel nuovo epicentro della creatività, Laurel Canyon. Lì ha avuto modo di fare nuove stimolanti conoscenze, da Mama Cass Elliot a Joni Mitchell, da Frank Zappa a James Taylor, e soprattutto ha cominciato a reinventare se stessa, come donna e come artista. Eppure, in tutto questo turbinio di eventi, la paura del palco non l’ha mai abbandonata: Carole è convinta che il suo posto sia dietro al pianoforte, sì, ma in studio di registrazione, non sotto i riflettori. Sembra quasi la personificazione in carne ed ossa e al femminile del protagonista di Stage Fright, la celebre canzone di The Band. E proprio come il personaggio creato dalla penna di Robbie Robertson, anche Carole ha un dono: non mente quando dice di aver paura, ma la sua voce, pur non essendo perfetta come quella di un usignolo, sarebbe in grado di toccare il cuore di milioni di persone se solo lo volesse, e chi la conosce lo sa bene.
Sono molti i colleghi che l’hanno invitata a salire sul palco ma Carole, con estrema gentilezza, ha sempre declinato le numerose offerte. James Taylor, però, non è uno qualunque. Tra i due si è instaurato fin dal primo incontro un legame particolare, una sorta di affinità umana e artistica sfociata in ciò che gli amici più stretti definiscono una «società di reciproca ammirazione». Come dirà Taylor, «Carole stava solo aspettando il momento giusto per spiccare il volo. Dylan aveva dato il via a un nuovo modo di fare musica, aveva in un certo senso creato la figura del cantautore… Anche se in verità io credo che sia stato Woody Guthrie il vero pioniere. Comunque sia, per lei era ormai tempo di uscire allo scoperto».
Questa volta Carole non può proprio rifiutare, così tira un bel respiro e, benché terrorizzata, accetta la proposta dell’amico. Dopotutto ha già pubblicato un primo disco a suo nome (Writer), e a breve inizieranno le session di registrazione di Tapestry: è ormai giunto il momento di superare le proprie paure, e chi meglio di James Taylor potrebbe farle da compagno di viaggio in questa avventura? Insieme a loro c’è una delle migliori band di Los Angeles, The Section, la sezione ritmica per eccellenza: Danny “Kootch” Kortchmar alla chitarra, Leland Sklar al basso e Russell Kunkel alla batteria.
«James era solito presentare Carole al pubblico come “La leggenda che ha scritto Loco-Motion e Natural Woman”» ricorderà Kortchmar «e immediatamente sulle facce della gente si stampava un’espressione di stupore misto a grande ammirazione». Tuttavia, stare al fianco di una superstar in ascesa come James Taylor non è cosa facile e Carole dovrà imparare ad affrontare anche delle serate difficili, in cui i fan del songwriter, impazienti di ascoltare il proprio idolo, la fischieranno o assisteranno indifferenti alla sua performance. Ma questo servirà a temprarla: «Una cosa che mi aiutava psicologicamente» dichiarerà «era pensare che non salivo sul palco per “cantare” le mie canzoni, ma per “portarle” alla gente. Questo in qualche modo mi tranquillizzava, perché sapevo che le canzoni avrebbero fatto da sole il grosso del lavoro».
E sarà proprio così: nel 1971, a distanza di un anno, dopo l’esplosione di Fire And Rain e il miracolo di Tapestry, i due tornano sul palco del Troubadour acclamati entrambi come vere e proprie star.

Il Troubadour, per dovere di cronaca, è un music club fondato da un abile imprenditore di nome Doug Weston nell’autunno del 1957 su La Cienega Boulevard; dal 1961 ha trovato la sua sede definitiva al 9081 del Santa Monica Boulevard, all’angolo con Doheny Drive, proprio nel cuore di West Hollywood. Il club è diventato negli anni una vera e propria istituzione nel mondo della musica, servendo come trampolino di lancio alle carriere di molti artisti tra i quali Buffalo Springfield, Jackson Browne, Eagles e Joni Mitchell.
Nel caso specifico di James Taylor e Carole King, però, il Troubadour sembra aver giocato un ruolo davvero particolare, attraversando come un sottile fil rouge le loro straordinarie carriere, e anche le loro vite: proprio lì, il 6 aprile del 1971, Taylor incontrerà per la prima volta la futura moglie Carly Simon dopo aver assistito alla sua esibizione in apertura del concerto di Cat Stevens.
Così, quando nel 2007 è arrivato il momento di festeggiare il 50° anniversario del locale, Brian Smith, il direttore artistico, non ha avuto dubbi: «James Taylor ha contribuito a definire il profilo artistico del Troubadour, facendolo diventare uno dei più famosi night club degli Stati Uniti. Per intere generazioni queste mura sono state testimoni di una parte importante della storia della musica ed è quindi un grandissimo onore riavere sul nostro palco James e Carole insieme per festeggiare degnamente i nostri primi 50 anni e inaugurare i prossimi». Così dopo trentasette anni, Taylor e King sono tornati sul palco dove in qualche modo tutto ha avuto inizio, nello stesso luogo in cui James sentì per la prima volta Carole cantare You’ve Got A Friend durante un soundcheck e se ne innamorò a tal punto da volerla fare quella sera stessa insieme a lei. Pensare che dopo aver scritto quella canzone, Carole l’aveva fatta sentire alle amiche/colleghe Toni Stern e Cynthia Weil, le quali però non erano rimaste impressionate dal brano: a Toni era sembrato un po’ banale, mentre per Cynthia era troppo lungo ed era rimasta più che altro colpita dal fatto che Carole avesse incominciato a camminare da sola anche come autrice dei testi. Ma quella non era affatto una canzone banale, era la voce di una giovane donna e madre che si era trovata a fare i conti con se stessa, con una vita sentimentale e artistica che non era andata esattamente secondo le sue previsioni, spiazzandola e costringendola a decidere cosa fare da grande. Là fuori c’erano milioni di persone pronte a identificarsi con lei, le sue parole, con l’incredibile coraggio che aveva dimostrato mettendo a nudo le sue più intime emozioni attraverso la musica. Una di quelle persone era sicuramente James: quel giovane cantautore che stava imparando a proprie spese le regole del music business, quella star in erba che aveva tutta l’aria di un misterioso e malinconico cavaliere romantico nascondeva un’adolescenza difficile, tormentata dall’ombra della depressione, e un presente complesso e minacciato dalla tossicodipendenza. Chi meglio di lui avrebbe potuto sintonizzarsi sulle frequenze più profonde di You’ve Got A Friend? Gli erano bastati pochi secondi per capire che Carole, scrivendo quella canzone, aveva trovato qualcosa di speciale, una chiave d’accesso a milioni di vite, milioni di cuori tormentati che non aspettavano altro che una mano amica cui aggrapparsi per riuscire a rialzarsi e trovare di nuovo la forza di camminare con le proprie gambe. In quel preciso momento Taylor aveva capito che quella canzone non l’avrebbe più abbandonato: ne avrebbe registrata una sua versione, trasformandola in una specie di mantra spirituale cui fare ricorso nei momenti più bui, un porto sicuro, un po’ quello che il pianoforte era sempre stato per Carole.
Nell’arco di tre serate – 28, 29, 30 novembre 2007 – due vecchi amici si sono quindi ritrovati a condividere le proprie canzoni, ormai divenute dei veri classici, con la stessa passione di un tempo, lo stesso talento e anche gli stessi compagni di viaggio: The Section. Un evento imperdibile, i cui biglietti sono andati a ruba nel giro di poche ore e che lo scorso 11 maggio, per tutti coloro che non hanno potuto prendere parte alla festa, è stato pubblicato in formato cd + dvd da Hear Music/Concord.
«Capita spesso di incontrare persone che si conoscono, amici o colleghi, e dirsi “Ehi, dobbiamo fare qualcosa insieme… C’è un progetto di cui ti voglio parlare”. Non sempre è possibile farlo, ma noi siamo riusciti a tornare sulla scena del delitto in occasione di questa triste ricorrenza, il 50° anniversario del Troubadour», ha dichiarato Taylor con la sua solita ironia nel corso di un’intervista rilasciata insieme all’amica. «Il Troubadour non ha segnato esattamente l’inizio delle nostre carriere, ma ha rappresentato per entrambi un passo molto importante. Quando ci siamo ritrovati su quel palco è stato come se il tempo si fosse fermato alla nostra ultima esibizione. Niente era cambiato».
«La cosa ancor più significativa» secondo King «è che la nostra intesa musicale e umana continua a trascendere il tempo e lo spazio. Quando siamo insieme si crea una specie di magia e sono immensamente grata per il privilegio di condividere questa splendida esperienza con James, i ragazzi della band e tutti i nostri fan. Se davvero si è trattato di un delitto… allora è stato un delitto perfetto».
Basta ascoltare le parole usate da Carole King per introdurre So Far Away all’inizio del disco per farsi un’idea dello spirito con cui i due artisti hanno affrontato questo nuovo capitolo della loro carriera: «Suonavamo questa canzone all’inizio degli anni 70. Quando abbiamo deciso di fare questi show l’ho riascoltata per vedere se riuscivo ancora a ricordarla: il mio cervello ha vacillato, le mie dita un po’ meno… il mio cuore niente affatto».
«Il Troubadour ha avuto diverse vite» ha detto Taylor ricordando i vecchi tempi. «È stato un club di cabaret, poi c’è stata la fase punk, quella heavy metal, ma ai nostri tempi era davvero aperto a ogni tipo di musica: Elton John era una delle maggiori attrazioni, e poi c’erano Jackson Browne, Delanie & Bonnie, Linda Ronstadt, Lowell George, i Little Feat, Valerie Carter… Una volta ho descritto il Troubadour come il capovolgimento di una fossa scavata nel terreno, in cui si fa musica dal vivo. Insomma il posto giusto dove commettere quel genere di errore che ti cambia la vita».
«Ancora oggi se ne parla, si scrivono articoli» gli fa eco King. «La gente si stupisce ripensando a quei tempi e ci chiede cosa si provava a far parte della scena musicale del Troubadour… Ma noi non ne eravamo consapevoli, non avevamo la percezione di essere parte di una scena musicale… Ci eravamo dentro e basta. Certo, ci rendevamo conto che era un ambiente fantastico, in cui ci si aiutava a vicenda e c’era molta collaborazione tra i musicisti: non c’erano problemi di ego o cose del genere, sembrava di partecipare a una jam session infinita».
Come sottolinea Taylor, «a quei tempi si tendeva a vivere il momento, la gente non faceva piani per il futuro, al massimo ti chiedevi cosa sarebbe successo alla fine della settimana… Quello era già il futuro».

«Adesso che il futuro è arrivato» dice un’incredula Carole King «ringraziando Dio siamo ancora in salute e in grado di fare musica ed esibirci insieme con la stessa passione di un tempo». Una passione tale da spingere i nostri eroi a trasformare questa nuova avventura in una tournée mondiale, The Troubadour Reunion World Tour: «Non avrei mai pensato, a 62 anni suonati, di ritrovarmi ancora on the road» dice Taylor. «È fantastico».
Una volta che lui e King si sono riuniti alla loro storica sezione ritmica, il divertimento è stato tale che nessuno dei musicisti coinvolti voleva smettere di suonare. Forse Carole ha addirittura ripensato a quando nel 2004, dopo più di dieci anni di assenza dalle scene, ha intrapreso il suo Living Room Tour: l’idea le era venuta dopo essersi esibita in compagnia del suo chitarrista Rudy Guess in posti molto piccoli se non addirittura all’interno di abitazioni private per raccogliere fondi destinati a progetti benefici. Era rimasta così affascinata dall’atmosfera intima che veniva a crearsi con il pubblico da mettersi in testa di provare a ricreare questa magia in un vero e proprio tour. A quei tempi «un sacco di gente era scettica, non facevano che domandarmi: “Come pensi di poter ricreare l’intimità di un soggiorno sopra i palchi dei teatri e degli anfiteatri all’aperto in cui ti esibirai?”. A me sembrava semplice, avremmo semplicemente dovuto portarci dietro i mobili, trasferendo il nostro soggiorno di palco in palco, di città in città».
A questo punto, allora, se l’esperimento era riuscito con un soggiorno, perché non trasportare anche il Troubadour in giro per il mondo? Detto, fatto: «Ci premeva riuscire a catturare l’atmosfera di un’intima conversazione» ha spiegato Taylor. «Io e Carole ci sentiamo più a nostro agio quando suoniamo in posti piccoli… Quindi la vera sfida era dar vita a uno show intimo in grandi spazi come le arene, organizzando gli spazi in modo tale da avere almeno una parte del pubblico a stretto contatto con il palco, proprio come in un piccolo locale. Così ci siamo rivolti a Roy Bennett affinché disegnasse le scenografie per questo tour. Ho avuto modo di conoscere lui e il suo magnifico lavoro in occasione di uno show che ho fatto al Beacon Theater nei primi anni 90 e ho subito pensato che sarebbe stato fantastico poter collaborare di nuovo». L’idea era semplice: «Ogni sera, l’arena avrebbe ospitato un piccolo club con un numero limitato di posti “speciali”, situati in posizione privilegiata rispetto a quelli degli altri spettatori».
Inutile dire che anche questa volta un esercito di scettici ha cominciato a sollevare dubbi in merito alla riuscita del progetto. E per quanto riguarda quei posti in posizione privilegiata… a chi sarebbero stati assegnati? A quale prezzo? E come l’avrebbero presa tutti gli altri spettatori? «Per noi è stato subito chiaro che non solo i posti ma anche i biglietti sarebbero stati “speciali”: i soldi ricavati dalla loro vendita sarebbero stati devoluti in beneficenza». I due artisti hanno deciso di finanziare due gruppi impegnati nella difesa dell’ambiente con cui collaborano da anni: Taylor l’Nrdc (Natural Resources Defence Council) e King l’Alliance For The World Rockies, «un gruppo che si adopera per preservare le Northern Rockies, che è anche il posto in cui vivo».
«Allo stesso tempo, però, ci teniamo molto a finanziare anche delle associazioni benefiche operanti a livello locale» spiega Taylor «ossia all’interno di tutte le comunità che ci ospiteranno, in cui andremo a suonare». E così all’incirca una novantina di altre organizzazioni più piccole ma non meno importanti beneficeranno dei fondi raccolti dalla vendita dei biglietti “speciali” reperibili solo sul sito www.ticketsforcharity.com: il pacchetto VIP Stage Seat comprenderà un tavolino per due persone a bordo palco, uno speciale pass per assistere al soundcheck, un buffet di benvenuto prima del concerto, una targa e un libro commemorativo del tour. Il Troubadour Reunion World Tour, partito lo scorso 27 marzo da Melbourne, in Australia, per poi spostarsi in Nuova Zelanda e Giappone, sta ora girando per il Nord America e infine arriverà anche in Europa. «Abbiamo davvero bisogno di un pubblico col quale interagire e per cui suonare stando a stretto contatto» ha spiegato James Taylor. «Questo è il nostro modo di concepire la musica live… Il pubblico è parte integrante dello spettacolo: chi compra i biglietti ci regala una parte del proprio tempo e questo ci onora. Noi stiamo sul palco, è vero, ma le persone che partecipano agli show giocano un ruolo di uguale importanza, perché sono parte attiva di questa grande raccolta fondi».
«Certo, sarebbe fantastico avere tutto il pubblico vicino» ci tiene a puntualizzare Carole King «ma non essendo possibile per ovvi motivi, trasformare quei biglietti in qualcosa di speciale ci è sembrata la cosa più ovvia. Roy Bennett, però, è riuscito a realizzare ciò che sembrava impossibile: ha disegnato il palco in modo tale da ridurre al massimo la distanza tra noi e la gente». Il palco infatti avrà una forma circolare, sarà posizionato nel centro delle arene e durante lo show ruoterà molto lentamente, permettendo agli artisti di entrare in contatto con tutto il pubblico e non solo con una piccola parte di esso. Sarà come assistere a una specie di magia, che ogni sera prenderà vita dall’unione di due straordinari artisti ed esseri umani: un incantesimo in grado di infondere a un’enorme, fredda e impersonale arena tutto il calore e l’intimità di un piccolo club, trasformando al contempo un’esperienza già di per sé unica in qualcosa di più alto e utile anche per quelle persone che non avranno la possibilità di prendervi parte, tendendo loro idealmente una mano per dire: «You’ve got a friend».

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