26/04/2010

COURTNEY LOVE

Il manuale di sopravvivenza di Miss Controversia

C’è una lacrima che scende lungo Pacific Coast Highway. Ha la vacuità bionda di Marilyn Monroe, il sapore di plastica dei sacchetti di Wal-Mart e l’odore pestato del Sunset Strip. Scivola giù lungo la china delle colline, curva dopo curva, una vita a spirale, per ricongiungersi finalmente all’oceano, e fermarsi a piangere: «Mi sono completamente smarrita, sono così abbattuta e in disgrazia che mi vergogno troppo a farmi vedere. Quel ragazzo mi ha lasciata così malmessa. Sopravvivrò nonostante il successo, le droghe e i tormenti del mondo. Sto affogando», confessa Courtney Love in Pacific Coast Highway. Ma poi, invece di lasciarsi morire, di dissolversi nella madre primordiale, si dice: «Sono troppo giovane per essere così vecchia. Sono stata tradita, coperta di diamanti e sporcizia, ma sto ancora respirando» (For Once In Your Life). Si mette ad inalare l’aria densa di salsedine e decide di scrivere un pugno di canzoni, perché la musica è sempre stata la sua vita e la sua missione, ancora di più dei compagni famosi (l’amico e collaboratore Billy Corgan, il marito Kurt Cobain, l’attore Edward Norton con il quale aveva realisticamente recitato in Larry Flynt – Oltre lo scandalo, il produttore Jim Barber della cui casa si era trovata a spaccare i vetri venendo arrestata per l’ennesima volta durante uno dei periodi duri della sua tossicodipendenza), ancora più della figlia Frances Bean Cobain, per la cui custodia è in lotta fin dal momento della sua nascita quando venne scritto su Vanity Fair che aveva fatto uso di droghe pesanti durante la gravidanza (e l’ha persa nuovamente a causa del patatrac finanziario e dell’uso di stupefacenti).
La questione della maternità è pregnante per Courtney. È un Cancro (è nata il 9 luglio 1964), il segno astrologico più legato alla ciclicità della luna e al nutrimento muliebre. Eppure lei, di se stessa e della figlia Frances, ha sempre saputo prendersi poco cura. Sarà quell’infanzia girovaga e frammentata spesa al seguito della madre psicologa e separata dal padre Hank Harrison in varie comunità hippy dell’Oregon, o l’adolescenza passata in collegio mentre la madre se ne andava in Nuova Zelanda con un altro uomo. Già allora fu la musica a salvarla: si innamorò del punk, partì per l’Inghilterra e si mise a seguire Julian Cope e Joe Strummer (fece da baby sitter ai suoi figli). Tutti presto la conobbero: un vulcano di ambizione sempre alla ricerca di conferme, un po’ groupie e un po’ artista, disposta a tutto pur di raggiungere i propri scopi (per un periodo fece pure la spogliarellista). Però anche lei, tra un letto sfatto e un backstage fumoso, nell’anima continuava a restare la figlia di nessuno. Nobody’s Daughter, madre e figlia unite dallo stesso ineluttabile destino: già Linda Carroll, la nonna di Frances, dovette intraprendere cause legali per ottenere la custodia di Courtney. «Non sono stupida, ho solo bisogno di molto aiuto. Giaccio sul fondo dell’oceano, nessuno arriva, io continuo ad affogare, e nessuno potrà fermare la mia rovina. La figlia di nessuno, mai è stata e mai sarà. Non capisci quanto siamo realmente danneggiate, quanto male realmente abbiamo dentro. E scaverò la mia fossa, dormirò per sempre, anestetizzando l’orrore, vivendo dentro questa ragnatela oscura. La bambola rotta, la devastata puttana mondiale. Non cercare di vincere, finirà in disgrazia. Tutto è andato in putrefazione» (Nobody’s Daughter, che la Love paragona a Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle dei Nirvana).

È un nuovo inizio. Lo dice Courtney catturata al telefono dopo un’odissea durata una settimana. Risponde con la voce roca e sicura di sé, dolce ma allergica ai convenevoli: «Hello darling. Sono felice di aver fatto questo album, lo sento come un nuovo inizio. Soltanto quattro anni fa pensavo che mi sarei ritirata. È stata una gestazione durissima, piena di battaglie. Uscivo a pezzi da una storia d’amore contorta che mi aveva devastata. Per fortuna Frances è meno ingenua e più furba di me alla sua età, e gestisce meglio i ragazzi e anche il senso di abbandono che può condurre alla compulsione affettiva. Io do tutto e poi mi ritrovo depredata e stanca. Per cinque anni non ho avuto relazioni né sentimentali, né sessuali, ed è stato per scelta. Avevo bisogno di chiudere con una grossa fetta del mio passato, ma ha rappresentato un lutto psicologico e di vita tremendo.  Dovevo ritrovarmi,  guarire e purificarmi».
Questo disperato bisogno di purezza e poi la capacità di sporcare di nuovo tutto in un attimo, luci e ombre, caduta e rinascita, un fato di antagonismi che condivideva con il marito. «Kurt voleva guadagnare milioni di dollari e fare il tossicodipendente. Questo era il suo scopo nella vita. Comunque non è figo ammazzarsi», ha recentemente dichiarato a Mojo. Lei è stata la reginetta sfatta della scena alternativa agli inizi degli anni 90 (l’album del 1994 Live Through This, scritto con lo zampino di Kurt che si sarebbe sparato il 5 aprile dello stesso anno, venne considerato una perla del grunge al femminile), ma non era veramente una riot grrrl, se non per la voglia di equità di genere e di riscatto, perché in realtà mirava alla celluloide patinata di Hollywood. Cantava dissidente e sguaiata, con il trucco sbavato e i tutù strappati da bambola stuprata, ma ora non esita a ostentare un viso così devastato dalla chirurgia estetica che i suoi 45 anni sanno di benzodiazepine e botulino. Inscenava la vulnerabilità e trasmetteva forza, quando spesso era il contrario. Fin dai tempi in cui aveva cantato brevemente nei Faith No More, era riuscita a rompere con tutti i suoi partner artistici, e pure rivendicava in continuazione la mancanza di comprensione altrui e il bisogno d’amore. Si mormora che anche con Kurt ai tempi del suo suicidio le cose non filassero troppo lisce. Ad ogni modo è riuscita a litigare con tutti: amici e parenti, con gli ex membri dei Nirvana (che sono notoriamente brave persone) sui diritti della band, con la famiglia di Kurt (per la custodia della figlia durante le sue fasi di danza con le sostanze stupefacenti), con gli ex fidanzati accusati di averle rubato denaro, così come gli ex manager e assistenti. Ha litigato anche con i giornalisti, gli editori, persino con i suoi avvocati; con la ex batterista delle Hole Samantha Maloney (cui ha dedicato il brano Samantha), con il partner di sempre nonché co-fondatore del gruppo Eric Erlandson (perché ha fatto uscire con il trademark comune Hole le canzoni composte per quello che doveva essere un suo disco solista). Ha avuto da dire anche con la dolcissima Melissa Auf Der Maur (che a quel punto si è limitata a contribuire al nuovo disco con i cori), e con il suo fedele amico Billy Corgan («Mi ha fisicamente salvato la vita due volte») che l’aveva assistita e aiutata a scrivere i pezzi nel suo periodo più nero, aggiungendoci le linee di chitarra, e che ora dice di non aver dato l’autorizzazione per la loro pubblicazione. In risposta Courtney ha postato una sviolinata su Facebook, dicendogli che lui è l’anima più bella del mondo e che resteranno per sempre eterni amanti e guerrieri. «Non so perché è come se dovessi sempre distruggere tutto per poter creare, continuando ad autopunirmi», commenta lei. Le dico che sia Mark Lanegan che Jerry Cantrell, due sue vecchie conoscenze, hanno dichiarato di aver capito troppo tardi che per essere artisti non bisogna soffrire, né autodistruggersi. «Sicuramente sanno quel che dicono, e Mark è la persona che ha sofferto di più nella vita tra quelle che conosco. So solo che per me l’unico modo per scrivere canzoni è mettere a nudo l’anima e far uscire il dolore, facendo una vita quasi monastica. Mi spoglio totalmente di ogni protezione ed è molto pericoloso vista la crudeltà del mondo, ma non conosco un altro modo d’essere. Nel bene e nel male non ho mai fatto operazioni di marketing sul mio personaggio – oltretutto con la crisi le etichette non hanno più i soldi per farlo – perché non sono una popstar. Sono una rockstar, e dunque sono ciò che appaio. Sono ipersensibile, per cui soffro molto se vengo attaccata ingiustamente».
Courtney Love è la prima vittima e carnefice di se stessa, e questo è il suo personale inferno e la sua dannazione. Confida: «Sono attratta dagli uomini che si mettono nei pasticci, forse perché penso di poterli salvare», ma solo da poco pare aver imparato a salvare se stessa e ad arginare il male che da sola è sempre riuscita a procurarsi. Nel 2005, durante uno dei suoi periodi più bui riguardo i suoi problemi con il cibo e la tossicodipendenza, quando venne costretta da una sentenza a stare per sei mesi in un centro di disintossicazione a Orange County dal quale sarebbe uscita dopo tre mesi di una sorta di arresti domiciliari, Courtney riuscì a mettersi a lavorare al suo nuovo album Nobody’s Daughter, incoraggiata dall’amica Linda Perry che per incitarla le regalò mentre era in clinica una chitarra acustica Martin. Scrisse un pugno di canzoni tra cui Sad But True, How Dirty Girls Get Clean, My Bedroom Walls, The Depth Of My Despair, Sunset Marquis e Loser Dust (contro l’uso di cocaina). Su quei momenti ha dichiarato: «Stavo così male che non riuscivo più a coordinare l’uso delle mani e degli occhi, in più non potevo far rumore nella stanza. Così mi misi china nel silenzio semplicemente a scrivere. Pensavo che nessuno volesse più persino parlare con me, farmi un contratto, e che non mi sarei mai più esibita su un palco. Questo è un disco davvero molto personale». Quel materiale finì nel demo The Rehab Tapes, poi rielaborato con l’aiuto di Linda alla produzione e Corgan alla chitarra e agli arrangiamenti. Recuperata un minimo di disciplina e di forza psichica anche grazie alla pratica (per la terza volta nella vita) del buddismo Nichiren, scrisse anche Pacific Coast Highway e Never Go Hungry Again su sua figlia, sul bisogno di un mondo un po’ meno crudele che non si limiti a voler distruggere le persone, sull’urgenza di sopravvivere: «In quel periodo io e Frances eravamo davvero affamate: avevamo ciascuna soltanto un paio di scarpe che ci avevano regalato». Alcuni di questi pezzi già nel 2006 giravano su Internet, anche a causa della visibilità che il documentario di Will Yapp The Return Of Courtney Love sulla primordiale lavorazione del disco e trasmesso sul canale televisivo britannico More4, diede ad alcuni clip inediti. Pacific Coast Highway e Sunset Marquis vennero anche presentate al radio show di Russell Brand. Nel 2006 pubblicò per la Faber & Faber Dirty Blonde: The Diaries Of Courney Love, dove attraverso poesie, lettere inedite e versioni primitive di alcuni brani poi presenti nel nuovo album già testimoniava il suo rapporto conflittuale con il suo status di celebrity. Entro il 2007 anche versioni rudimentali di Never Go Hungry Again e Samantha (eseguite per due interviste con Times e NPR.org) erano disponibili per il downloading e, nel giugno dello stesso anno, anche i brani Nobody’s Daughter e Letter To God vennero resi noti al pubblico durante uno show di Linda Perry alla House Of Blues di Los Angeles e in seguito resi disponibili sul web insieme a Dirty Girls. L’album sarebbe dovuto a quel punto uscire entro i primi mesi del 2007. Moby, cui Courtney spedì un demo chitarra e voce cercando la sua collaborazione, dichiarò ai tempi che il materiale era così forte da ricordargli il primo Bob Dylan. L’album non ha visto la luce neppure nel gennaio 2009, data annunciata sul suo sito.
Il disco esce a fine aprile per Universal, casa discografica con la quale Love in passato ha intrapreso un’azione legale per la liberazione di alcuni diritti (Celebrity Skin uscì per la Geffen che fa parte di quel gruppo Universal che pubblica anche i dischi dei Nirvana). È stato concepito in quattro anni, registrato in vari studi e co-prodotto con Michael Beinhorn e con il nuovo chitarrista delle Hole, ex Larrikin Love, Micko Larkin. Ad oggi non è dato di sapere se la Perry, che era stata presente alla produzione e alla scrittura di alcuni brani, e se Corgan (il riff di Samantha è suo), si vedano citati nei credits, ma la diatriba con Billy non prelude a nulla di buono. La Perry ebbe a dichiarare: «Sono impegnata a riportare in auge la regina del rock’n’roll, a creare un paesaggio adatto ad accogliere la sua voce così intensa e rock. Voglio che si ricordi che, al di là delle sue vicende personali, Courtney è soprattutto la sua musica». In effetti le versioni artigianali dell’album pulsavano con un cuore acustico, dove la voce nuda, un po’ sguaiata e tumefatta di Courtney si lasciava accarezzare e lenire da splendidi accordi di chitarra, dando origine a poesie devastanti per la loro semplice e minimale bellezza e per la loro malata e autentica intensità. Fino a quel punto si pensava ancora che quello sarebbe uscito come il secondo disco solista di Love, anche se gli insuccessi commerciali e quelli controversi di critica di America’s Sweetheart (2004), potevano suggerire che usare il nome Hole avrebbe potuto fungere da propulsore commerciale. La prima notizia secondo cui Love avrebbe rivisitato i pezzi in chiave rock facendo uscire l’album come Hole apparve su NME il 17 giugno 2009, e contemplava anche la presenza della Auf Der Maur al basso e di Larkin alla chitarra al posto di Eric Erlandson. Questi le rispose via Spin che nessuna reunion sarebbe stata possibile senza di lui, e in effetti anche nella versione più rock questo resta un disco di Love molto intimo e personale, fatto uscire con il nome di una band della quale nessun membro originale è presente. Anche se ad oggi non si conoscono esattamente gli accordi legali sull’uso del nome Hole, Courtney rimarca il suo esclusivo diritto: «Hole è il mio marchio e la mia creatura. Volevo fare un disco delle Hole rock ed energico e per questo mi sono scelta dei musicisti giovani che potessero sostenermi». Oltre al fido Micko, che ha solo cinque anni più di Frances Bean ma a detta di Courtney è bravissimo, ci sono Shawn Dailey e Stu Fischer (ad ascoltarli in concerto, più delle comparse che dei veri membri della band, vedi box a pagina 32). Micko invece la sostiene come una stampella, visto che lei dimentica le parole e si perde nei discorsi, e ci sono ben poche interviste in cui lui non appaia.

Con la scarpetta di cristallo imbrattata di sangue che appare in una delle foto del nuovo disco, Courtney appare ancora di più come una Cenerentola scalzata e in frantumi solo avvolta superficialmente nella skin di plastica di una celebrity, una Skinny Little Bitch che abita all’interno del suo «abbietto orrore sessuale e inferno di sostanze tossiche», capace di slabbrarsi nella dolente Honey, dedicata a Kurt: «Angoscia e miseria cadono come una star morente, e va giù giù verso la sua infausta fine».
Il paradosso vivente dell’american dream, la star che ancora più di Madonna ha saputo rappresentare la conflittualità della self made woman (ma senza Cobain sarebbe diventata così popolare?), e che non si esime dall’ammettere: «Sono drogata e ho la moralità e la mentalità di un cartone animato», è in fondo l’esempio più triste di come l’antica integrità della scena del rock alternativo sia stata svenduta. Tant’è che per rifarsi dell’enormità del buco nelle sue finanze dovuto all’infinità di cause legali in corso (anche verso la Emi, accusata con le sue pressioni mentre lei era totalmente drogata di aver contribuito all’insuccesso commerciale di America’s Sweetheart), ha venduto senza remore il 25% del catalogo dei Nirvana per 50 milioni di dollari («I 20 milioni rubatimi dai membri del mio staff mi hanno ridotto alla fame, ma ora ho imparato a gestire le mie finanze da sola») e ha messo all’asta alcune cose possedute dal marito Kurt (dicendo di dare il ricavato in beneficenza). Anche per questo dai fan dei Nirvana è sempre stata vista come una novella Yoko Ono.  «Dicono che sia una sopravvissuta, ma io non sono una donna, sono una forza della natura. Quando iniziai nel rock c’erano poche donne, per cui ho acquisito potere», sbraita con un non so che di ubriaco in un video diffuso su Internet. Il suo cuore pare oramai inscatolato in una confezione di lusso (altro che Heart-Shaped Box) con il vuoto dentro (Because You’re Worthless), e la sua collezione di bambole sembra essere diventata più vera di lei. Poi però, lì dove il dolore scava l’anima, la maschera cade, e mai preghiera è stata più potente della sua Letter To God: «Caro Dio, ti scrivo questa lettera. Puoi aiutarmi? Non ho mai voluto essere la persona che vedi. Ho sempre voluto morire, ma mi hai tenuta in vita. Puoi dirmi chi sono? Sono stata torturata e disprezzata fin dal giorno che sono nata. Mi spiace di essere così fragile e di essermi trasformata in una freak. Ho perso la stima di me stessa, seppellendo tutto. E non provo più niente, niente».
Adesso però Mrs. Cobain pare essersi del tutto ripresa. Si è esibita al festival di Austin SXSW acclamata come una star. «Mi ha drenato ogni energia perché mi sono donata molto. Alla fine piangevo come una bambina, anche perché le nuove canzoni mi scavano dentro ogni volta. Sul palco guardavo le persone negli occhi e dopo lo show dovevo interagire con loro. In Europa è diverso, sono più protetta dallo staff locale, mi sento meno coinvolta a livello personale. E meno giudicata». Sacra e profana, integra e corrotta, Courtney sa di essere un’icona e a volte ne approfitta (per esempio licenziando bizzosa i collaboratori che l’hanno sostenuta nel momento del bisogno e facendo i capricci con le interviste). Poi parla con la voce morbida e profonda, scaldata da un dolore che pare non volersene andare mai: «Ho dovuto affrontare così tante cose che avrebbero distrutto chiunque. Certe volte mi sento come se stessi recitando una parte: salgo sul palco, scendo dal palco, salgo sul bus, e via un altro giro di giostra, come un robot. Ma la Courtney privata vorrebbe soltanto una vita sentimentale appagante potendola conciliare con la carriera. Il mio amico Chris Martin lottando duro ci riesce. Quando avevo 27 anni e stavo con Kurt pensavo che il rock e la vita fossero la stessa cosa. Era un po’ il pensiero della mia generazione, ma poi ho sperimentato che confondere le cose può uccidere. Sarebbe stato più facile se avessi fatto solo l’attrice. Fai il tuo lavoro e poi torni a casa da tuo marito e dai tuoi figli. Ora che amo una persona, vorrei ancora dei figli. Il problema è che gli uomini tradiscono. Solo Kurt era completamente monogamo, così tanto da apparire surreale».
Dai sussulti tra le parole, trapela ancora un amore autentico per il suo perduto marito, altro che venire accusata del suo omicidio.  Comunque le lotte devono averla temprata perché il carisma e la fascinazione che trasmette sono autentiche, e non riguardano solo la sua figura e la sua storia, ma la sua persona. Però l’ambivalenza resta. Chi sia veramente Michelle Harrison lo sa soltanto lei, o forse neanche. «Frances non sta bene a vivere con me. Così le ho comprato un appartamento vicino al mio a New York, come ha fatto Lenny Kravitz con la figlia che ha all’incirca l’età della mia», ha dichiarato di recente. Quando canta in Samantha: «Persone come te fottono persone come me per evitare di soffrire», non si capisce se si riferisce alla Maloney o a se stessa. «I testi sono sempre simbolici e possono essere riferiti a chiunque», mi dice. «Solo quello di Skinny Little Bitch è ispirato a queste giovani starlette con la mania della perfezione fisica. Quando sono stata a Milano da Cavalli c’era questa modella che insisteva per fare un mio video. La sua magrezza rifletteva la dipendenza dalla perfezione e mi ha fatto pensare a uno specchio rotto». Malgrado queste dichiarazioni, lei non si esime dalle protesi al silicone. L’ambiguità, il cui germe è sempre presente in ogni aspetto del reale, mai è stata in questa donna così ben incarnata: underground e mainstream, angelo e demone, pura e contaminata, generosa e avida, altruista ed egoista, santa e puttana, Courtney Love suscita o odio o amore. Resta il fatto che per almeno due generazioni di donne sia il manifesto di una donna forte, volitiva e ambiziosa, che ha saputo cavalcare tra le tempeste l’onda della Generazione X per approdare a un territorio dove i santi numi paiono averle perdonato tutto. Piace vedere una star che cade nel baratro per poi riuscire a redimersi. Perpetra la dinamica del peccato-redenzione, rendendo la sua aura più umana. Così quando scrive in How Dirty Girls Get Clean: «Ho perso la testa, ho perso il controllo. Sono un’anima persa. Ascolta la sua lussuria, la sua disgrazia, il mio tormento, la mia pena. È così che le ragazze impure si ripuliscono, non mi lasciare ora», la sudicia vendetta è pressoché compiuta. Non si tratta di ammazzare qualcuno, ma di realizzare ancora una volta il sacrificio di sé per riuscire a rinascere nuovamente diversa. Di azzerare tutto e tutti per potere, ancora una volta, sopravvivere.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!