04/02/2010

DEVENDRA BANHART

L’ALCHIMISTA

Venerdì 18 dicembre. Sono circa le 2 e 30 del pomeriggio quando Devendra Banhart fa il suo ingresso nella hall del Grand Visconti Palace di Milano per concedere poche brevi interviste prima del concerto di questa sera ai Magazzini Generali. Il suo solerte manager si raccomanda di essere brevi perché Devendra ha poco tempo a disposizione e deve raggiungere gli altri membri della band per il soundcheck. Lui, però, non sembra affatto preoccupato, era in camera sua a prepararsi e si è presentato con una buona mezz’ora di ritardo: capelli raccolti sotto un berretto di lana blu, barba abbastanza corta (per i suoi standard), t-shirt rosa, camicia di jeans, una giacca verde militare e pantaloni bianchi. A completare l’estroso look dei mocassini marroni abbinati a calze di lana, una gialla e una verde. Prima di cominciare, si presenta con un gran sorriso ai pochi giornalisti che hanno avuto la fortuna di incontrarlo in occasione di questa tappa milanese, e stringe la mano ad ognuno.
Banhart è rinomato per le risposte eccentriche che confeziona con grande naturalezza in occasione delle interviste ed è quindi consigliabile presentarsi ben preparati e muniti di una lunga lista di domande, perché è possibile che la maggior parte di esse verrà liquidata con una sintetica quanto bizzarra risposta. Ma dopotutto stiamo parlando di un artista che, nato in Texas, ha trascorso l’infanzia a Caracas (Venezuela), per poi tornare a San Francisco, dove ha studiato arte. Stiamo parlando di uno il cui nome è stato suggerito ai genitori da un mistico indiano, un’anima girovaga con un passato da busker in giro per il mondo, uno che ha cominciato a incidere le proprie canzoni usando come studio di registrazione le segreterie telefoniche degli amici, chiamandoli a notte fonda e pregandoli di non cancellare il nastro.
Chi mai si aspetterebbe delle risposte banali o convenzionali dal principe dei nuovi hippie? Quando è il turno di JAM, decido di rischiare e mi brucio subito la prima domanda chiedendogli una descrizione del suo ultimo interessante lavoro, What Will We Be, ma ovviamente non se ne parla nemmeno: «Dimmelo tu, sono curioso di sapere come lo descriveresti». Personalmente, lo vedo come un caleidoscopio di colori, un’opera dalle molteplici sfumature sonore e linguistiche: è un po’ come avere l’opportunità di farsi una passeggiata di 50 minuti sopra un arcobaleno. «È una bellissima immagine. L’ho voluto sapere perché siamo alla fine del tour e sono esausto… Ho bisogno di ascoltare parole che mi facciano sentire meglio e quindi ti ringrazio». Trovata una chiave d’accesso al pianeta Devendra provo a rilanciare chiedendo se, almeno, c’è qualcosa che ci tiene a far sapere di questo disco: «Vorrei che la gente sapesse che è stato registrato senza sapere per quale casa discografica sarebbe uscito. L’abbiamo semplicemente realizzato e poi proposto a diverse etichette: abbiamo scelto la Warner perché è stata l’unica a darci carta bianca. Ovviamente siamo rimasti in buoni rapporti con la Xl e, chissà, forse un giorno incideremo ancora per loro. Che altro posso dire… mi sento come un’anziana felice signora».
What Will We Be è stato registrato, come recitano le note di copertina, in una piccola cittadina del nord della California: «È la stessa in cui ha vissuto, lavorato e dove è morto suicida lo scrittore americano Richard Brautigan» dice Devendra come a voler avvolgere in un alone di mistero il nome della città. Per la cronaca, Brautigan è uno scrittore noto per il suo humour nero e la satira, vicino al movimento hippie e alla controcultura di San Francisco, che ha vissuto i suoi ultimi giorni in solitudine, dimenticato da tutti a Bolinas, California, in una grande casa antica. Nel 1984, a soli 49 anni, si è tolto la vita sparandosi alla testa con una 44 Magnum in preda ai fantasmi dell’alcol e della paranoia. Forse è per questo che il nuovo disco di Devendra, per quanto solare e pieno di colori, sembra essere al contempo pervaso da un mood malinconico: «È un po’ come passeggiare all’aperto in una bella giornata di sole, con un vento gelido che ti soffia sul viso». Banhart e compagni hanno affittato una piccolissima casa, che hanno trasformato in uno studio d’incisione usando la cucina come banco di regia, il soggiorno come sala di ripresa/camera da letto e il bagno come cabina per la registrazione delle parti vocali. E a co-produrre e condurre i lavori in questa sorta di comune hippie è stato chiamato Paul Butler (The Bees), che Devendra dice di aver conosciuto grazie al proprio bassista, Lucky Remington. «Paul è fantastico, è in grado di suonare in modo eccellente quasi ogni strumento e poi mi ha obbligato per la prima volta in vita mia a lavorare seriamente sulla voce». Pare che Banhart, abituato a un approccio totalmente istintivo e spontaneo alla musica anche in fase di registrazione, questa volta si sia impegnato seriamente per cercare di sfruttare al meglio ogni sfumatura del proprio particolarissimo timbro vocale. Ha fatto lunghi e noiosi esercizi di riscaldamento, e soprattutto ha imparato il valore del silenzio, una delle migliori medicine per conservare la voce in vista di una session di registrazione. In questo senso What Will We Be segna un passo fondamentale nella sua produzione: per la prima volta Devendra sembra focalizzarsi maggiormente sul concetto di un vero e proprio progetto solista che, pur pregiandosi della collaborazione di amici/colleghi (tra i quali Andy Cabic dei Vetiver e alcuni membri dei Little Joy), non sfocia in una sorta di affollata opera corale ma trasmette con estrema efficacia le varie sfaccettature della sua personalità artistica. E si tratta sicuramente di una realtà estremamente eclettica e complessa: Banhart disegna anche l’artwork dei suoi album e le immagini che crea con tratto essenziale diventano parte integrante della musica. «Credo che le mie immagini e le mie canzoni in qualche modo si completino a vicenda: in pratica disegno ciò che non riesco a cantare e canto ciò che non riesco a disegnare. E poi ci sono tutte le vie di mezzo, cioè quando un’idea nasce in forma di disegno e poi sfocia in una canzone e viceversa. Le due cose sono in qualche modo distinte e al contempo inscindibili». E la cucina, invece, che significato ha per te? Una volta, in un’intervista a Rolling Stone, hai paragonato la tua musica a un ristorante etiope… «Oh certamente! Cucinare è una forma d’arte, proprio come la musica. Credo che la cucina sia connessa alla musica, nello stesso modo in cui è connessa alla pittura o al cinema. Si tratta di discipline, mezzi di comunicazione. Sono il risultato di una serie di decisioni, di scelte, proprio come lo è l’arte del songwriting. Trovo che cucinare sia estremamente meditativo, ma lavare i piatti lo è ancor di più. Sono in parte sudamericano, lavare i piatti è qualcosa che ho nel sangue. È un po’ come riflettere su ciò che hai fatto ma, allo stesso tempo, rappresenta il futuro: lavare i piatti è il futuro del pasto che stai per preparare, esattamente come un piccolo germoglio è il futuro di un albero. Comunque, oggi risponderei che la mia musica è come una toilette eritrea». Questo, dunque, è la musica di Devendra Banhart: una ricetta fantasiosa, ricca d’ingredienti segreti e di spezie; calda, affollata e confusionaria come la cucina di un ristorante etiope; esotica e sfrontata come una toilette eritrea. E non provate nemmeno a chiedergli quali siano le sue influenze musicali, perché inizierà a elencarvi una lunghissima lista comprendente ogni singolo oggetto, elemento naturale o creatura vivente che esista nell’universo. Devendra è così, sembra essere devoto al mistero della vita, dell’amore e della creazione. E la sua musica, ovviamente, è parte di questo grande mistero.
Come nascono allora le sue canzoni? Da sempre il processo creativo è come un lampo che squarcia la tenebra: può durare una frazione di secondo, dieci minuti o una vita intera, ma non è dato sapere quale sia la vera fonte di questa indomabile energia. Vi basti sapere che «io parto sempre dalle parole, come se si trattasse di un libro con le pagine bianche: le riempi di fatti, esperienze vissute, barzellette; cerchi di mettere insieme diversi stati d’animo e momenti della tua vita… Cose belle e brutte, cose che non vuoi dimenticare. Una volta riempito il libro cerchi di condensarne il contenuto e può anche succedere che da un intero libro ricavi un solo verso. L’importante è riuscire a catturarne l’essenza attraverso questa distillazione: si lavora per sottrazione, l’obiettivo è quello di rimanere con meno parole possibile, quelle indispensabili, le più significative. A questo punto mi domando: che suono hanno queste parole?». La fase successiva di questo processo alchemico conduce a un altro aspetto fondamentale nella genesi di un album, le session di registrazione, e viene da domandarsi quanto ci sia di programmato nel lavoro realizzato da Devendra e compagni. «L’improvvisazione è un elemento fondamentale della mia musica: è qualcosa di imprevedibile e prezioso. Per questo abbiamo scelto di registrare in una casa e non in uno studio professionale: è un ambiente più familiare, che favorisce l’interazione tra i musicisti. È un ambiente aperto agli stimoli esterni, al caso, che può influenzare il corso degli eventi in qualunque momento. E tutto questo si riflette nella musica». Le session di registrazione di Devendra Banhart sono esplorazioni creative in cui l’unica cosa certa sono i punti cardinali che servono al viandante menestrello per tracciare la propria rotta musicale, e intorno ad essi ruota tutto ciò che è imprevedibile, aleatorio. L’improvvisazione pervade ogni composizione, è come un alone di mistero che custodisce e tiene ben nascosto il cuore pulsante del processo creativo. E poi, «quando il disco è finito, non lo vedo più per ciò che è, perché credo sia compito di chi lo ascolta dirmi cos’è. Io lo vedo per ciò che non è… Ed è questo che mi spinge ad andare avanti: il desiderio di realizzare un nuovo album che incarni tutto ciò che non è il precedente».

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