San Antonio, Texas, fine anni 90. Durante un trasferimento dall’hotel al luogo del concerto, Ben Harper riceve una curiosa richiesta dall’autista dello shuttle bus.
«Ti va se ti faccio ascoltare della musica?», gli chiede.
«Non c’è problema», risponde distrattamente Ben.
Dopo pochi minuti, Mr. Harper ferma il conducente del veicolo.
«Chi sta suonando?», domanda con curiosità mista ad entusiasmo.
«Questa è la mia band, signore», risponde educatamente il driver, «io sono il cantante. Ci chiamiamo Wan Santo Condo».
«E chi è il chitarrista? Mi sembra bravissimo», commenta Ben.
«Lui è Jason Mozersky… Sì, davvero formidabile: è la nostra punta di diamante».
Quella di un giovane cantante di una rock band texana che fa l’autista per pagarsi le bollette ma che, con coraggio e spirito di iniziativa decide di cogliere l’attimo e di far ascoltare la sua musica alla superstar che sta accompagnando, somiglia davvero a una delle tante, fantasiose leggende che, da sempre, hanno contribuito a fare grande la storia del rock. Solo che, stavolta, è tutto vero. Già, perché Ben Harper, sinceramente colpito dal suono energico di questo combo rock del Southern Texas decide di dar loro una mano. Procura ai Wan Santo Condo un vero contratto discografico che consente la pubblicazione (nel 2004) dell’album di debutto. Pazienza se poi la band, nel giro di un anno, si dissolve. Lui e Jason Mozersky diventano amici e collaboratori. «L’ho chiamato per le session di Both Sides Of The Gun», racconta Harper, «adoro il suo modo di suonare, ruvido, rabbioso, pieno di energia. Dà un tocco speciale a ogni brano che interpreta». Proprio durante queste sedute di registrazione, Jason presenta a Ben due suoi amici: il batterista Jordan Richardson e il bassista Jesse Ingalls della band indie rock californiana Oliver Future. La magia del suono catturato nel brano Serve Your Soul rimane per molto tempo nella testa di Ben. «Sapevo che, appena ci fosse stata la possibilità, avrei chiamato Jason e ci saremmo messi in studio per tirar fuori qualcosa di originale». L’occasione capita lo scorso mese di agosto: nasce così il progetto Relentless7 al quale il musicista di Claremont crede moltissimo; talmente tanto da non sentire nemmeno il bisogno di anteporre il proprio nome a quello del gruppo. «Questo è il progetto di una vera band», dice con orgoglio e con un entusiasmo che non leggevo nei suoi occhi dai tempi del prestigioso sodalizio con i Blind Boys Of Alabama.
Il disco si chiama White Lies For Dark Times, un titolo esplicitamente “politico”. Non a caso, i Relentless7 hanno praticamente debuttato dal vivo nel Vote For Change Tour del novembre 2008 quando, oltre ai pezzi nuovi, hanno proposto vigorose riletture di alcuni classici del rock tra cui una prodigiosa versione di Under Pressure. Robusto, verace, pieno di tonificante energia, il rock di Relentless7 è impreziosito dalla classe purissima di Ben Harper. Sin dalla prima traccia (Number With No Name) abbiamo le coordinate stilistiche del progetto: garage rock tinto di blues, con la slide di Ben che colpisce dritta al cuore e la sua voce che ti obbliga ad ascoltare. E che, come suggerisce il testo, «può travolgerti sino alla pazzia»… Perfino nelle ballad, il Ben Harper di Relentless7 sembra più tosto: come dimostra Faithfully Remain, il brano che chiude il disco. La sua voce, accompagnata da un filo di chitarra acustica e dagli accordi di un piano Wurlitzer, mantiene sempre quel timbro alla Marvin Gaye che ha stregato milioni di appassionati ma ti dà la sensazione di una forza e di una consapevolezza mai raggiunte prima. L’assolo di Weissenborn e le liriche poetiche completano il quadro.
L’album ha una prima parte assolutamente poderosa: Shimmer And Shine o la ancor più travolgente Why Must You Always Dress In Black sembrano uscire dal songbook dei Led Zeppelin. E se un filo di seducente soul traspare dalla sincopata Lay There And Hate Me, è solo con Skin Thin (sesta traccia del disco) che abbiamo il primo momento riflessivo: il brano, per altro uno dei migliori insieme alla struggente Word Suicide, è una ballad semiacustica affascinante, con una bellissima melodia, un’atmosfera suggestiva e un testo intelligentemente delicato. Paradossalmente, il pezzo si accoppia magnificamente con Keep It Together, emblematico excursus in territorio quasi hendrixiano in cui le dinamiche sonore passano da durissimi momenti noise a passionali “pianissimo” che trasudano blues. La somma dei due brani dà la cifra artistica di Ben, la sua impareggiabile versatilità stilistica ma anche un suo nuovo, prepotente spirito rock.
Resta un quesito, quello che traspare dal testo di Fly One Time. «Mi sento preso in mezzo da ciò che non posso dimenticare, e quello che forse non riuscirò mai a trovare», canta Ben e sembra quasi confessare le inquietudini del suo stato d’animo artistico, alla costante ricerca di nuovi stimoli.