Se sei figlio di un giocatore d’azzardo coinvolto nella piccola criminalità e di una donna mormone, la cosa più fortunata che possa succederti è di diventare una rock star. Non come tutte le altre, perché certamente qualcosa nei neuroni, di una infanzia sballata, deve esserti rimasto. Quando rimase incinta di Warren Zevon, alla madre, che soffriva di una malattia congenita al cuore, fu consigliato di abortire. Poi, per tutta la sua infanzia, questa scelta fu fatta pesare in modo evidente: «Tua madre è quasi morta per averti, adesso tu la stai uccidendo con il tuo comportamento». Un senso di colpa che non lo avrebbe più abbandonato.
Warren Zevon non è diventato una rock star da stadio, ma della rock star ha incarnato tutto il meglio e il peggio, con doti che raramente – o mai – si sono viste in quel contesto. Un cinico bastardo certo, ma con un senso dello humour, una intelligenza “colta” (oltre ai riferimenti letterari, tanto che l’amico Jackson Browne lo definiva «l’Ernest Hemingway della dodici corde», anche quelli musicali, visto che aveva studiato pianoforte con Igor Stravinsky) e una capacità di sfornare canzoni memorabili come pochi altri. Lou Reed naturalmente ha più di qualcosa in comune con Zevon, ma alla fine si è sempre preso troppo sul serio. Zevon, fino all’ultimo giorno della sua vita, ha saputo scherzare con la morte e così facendo ha saputo aggirarne l’orribile ghigno e uscirne con dignitosa fierezza. E pensare che se non fosse stato per Jackson Browne, così agli antipodi musicalmente e liricamente rispetto a Warren, oggi il suo sarebbe solo il caso di uno sconosciuto abitante di Los Angeles morto di tumore ormai cinque anni fa. Fu infatti Jackson ad andare a ripescare Zevon, da qualche tempo trasferitosi con la sua compagna in Spagna dove sbarcava il lunario cantando nei localini: «Warren, è troppo presto per arrendersi. Torna a casa, ti troverò un contratto discografico». Era questo il messaggio che nell’estate del 1975 Zevon si vide recapitare da parte del suo amico Browne. E casa voleva dire L.A., dove c’era la cosiddetta Los Angeles Mafia, come veniva chiamato quel gruppo di musicisti che rispondeva ai nomi di Browne, Eagles, Linda Ronstadt, Fleetwood Mac: non avrebbero mai lasciato che uno di loro si perdesse.
Zevon aveva già tentato infatti la carta discografica, nel 1969, con il suo debutto, il disco Wanted: Dead Or Alive che, nonostante contenesse il brano She Quit Me apparso anche nella colonna sonora del film Un uomo da marciapiede, era stato un flop assoluto. Per qualche tempo si era adattato a fare il bandleader degli Everly Brothers fino a quando questi, nel 1973, si erano divisi. Poi aveva cercato rifugio al sole della penisola iberica. Ma quel messaggio gli aveva fatto impacchettare le chitarre e prendere il primo volo per la California.
È l’autunno del 1975 quando Warren Zevon entra agli Elektra Sound Recorders. Ne uscirà con il suo capolavoro, e la più formidabile ode alla Los Angeles decadente e disperata da quando Raymond Chandler aveva scritto Il grande sonno. Che quello di Warren fosse un disco e non un libro, poco importava. Vi siete mai accorti, comunque, che “the big sleep” è un eufemismo per indicare la morte?
Dormirò quando sarò morto
L’edizione deluxe di Warren Zevon, pubblicato originalmente il 18 maggio 1976, presenta un secondo cd di registrazioni alternative che sbalordiscono per la potenza evocativa. Se bisogna essere profondamente grati a Jackson Browne per aver recuperato Zevon dall’oblio e permesso l’uscita di questo disco, bisogna altresì dire che mai produttore fu inadeguato al ruolo che dovette assumere. L’autore di Late For The Sky ricopre di zuccherosa melassa, la stessa adoperata in dosi massicce per le sue melanconiche ballate, quasi ogni solco del disco di Zevon. Che non scrive melanconiche ballate. Lui parla di tentati suicidi, eroina, abusi in famiglia e sadomasochismo. Ecco perché un brano come Carmelita (che racconta del tunnel in cui si trova a sbandare un tossicodipendente: «Lo stato non mi passa più il metadone, ti hanno tagliato l’assegno di assistenza, Carmelita stringimi forte, credo che sto affondando e sono in cerca di eroina alla periferia della città») passa da ballata buona per una b-side degli Eagles a un lamento disperato, come lo si ascolta nella scarna versione per solo voce e chitarra acustica. C’è anche un demo risalente addirittura al 1974, full band, ma con un coro caciarone in sottofondo che fa pensare all’ultimo ballo di un gruppo di dannati in viaggio verso l’inferno. Eppure tutta la “mafia di Los Angeles” era presente a queste incisioni, un cast stellare: Lindsey Buckingham e Stevie (Stephanie, come viene indicata nei crediti dell’epoca) Nicks dei Fleetwood; Glenn Frey e Don Henley degli Eagles; Bonnie Raitt; Carl Wilson dei Beach Boys; e poi anche Bobby Keys, il sassofonista di Brown Sugar e degli Stones, e Phil Everly degli Everly Brothers. Più la band di Jackson Browne, gente come David Lindley, Bob Glaub, Larry Zack.
Ma l’arrangiamento pop con overdose di orchestrazione e cori degni di un disco dei Carpenters che Browne appioppa a un brano altresì di potenza straordinaria come The French Inhaler è uno degli sgarbi più grossi che canzone rock abbia mai ricevuto. «The French Inhaler» racconta il figlio Jordan Zevon «è praticamente il suo modo di mandare affanculo mia madre dopo che lei è andata a letto con un altro. Me lo confessò lei stessa prima di morire. Ma per quanto mi addolori che questa canzone parli di mia madre, è la più grande canzone mai scritta sul mandare affanculo una fidanzata». Meglio allora rifugiarsi nella splendida versione solo voce e pianoforte che appare nel secondo cd.
In Mohammed’s Radio, poi, forse il più grande inno al potere salvifico della musica rock («Tutti quanti sono inquieti, hanno bisogno di un posto dove andare, c’è qualcuno che cerca sempre di dire loro qualcosa che già sanno e allora il risentimento e la rabbia crescono: non ti fa venire voglia di darti al rock’n’roll per tutta la notte? La radio di Mohammed, ho sentito qualcuno che cantava così dolcemente e pieno di anima alla radio, la radio di Mohammed»), lo stesso Zevon si arrende e canta sdolcinato e senza convinzione un pezzo che altrimenti, ancora una volta da solo al pianoforte, ha il potere taumaturgico di resuscitare Lazzaro dai morti (c’è anche un secondo demo in cui Warren si lancia in una divertente imitazione vocale di Bob Dylan).
Altrove, nel disco del 1976, la crudezza del cantautore è impossibile da trattenere, ad esempio nella claustrofobica I’ll Sleep When I’m Dead o nell’incalzante Poor Poor Pitiful Me. O ancora nel travolgente funk-rock Join Me In L.A.
Hotel California
Dalla saga dei due fuorilegge Frank e Jesse James all’invito a unirsi al cantante a L.A., il disco è un diario di una esistenza ai confini della disperazione, sulla corsia di sorpasso, e un dito puntato sul ventre molle e agonizzante di Hollywood. Non sappiamo se il giovane Elvis Costello avesse ascoltato questo disco, o se Nick Cave in Australia ne avesse sentito parlare, ma viene veramente da domandarsi quanto Warren Zevon sia stato influente per le successive generazioni di songwriter dai toni cinici e che hanno flirtato con la morte.
Sorta di Bruce Springsteen della West Coast al contrario, Zevon annuncia la fine del sogno della terra promessa, la California, tanto che gli stessi Eagles saranno costretti a prenderne nota: cosa altro è la loro Hotel California se non la resa davanti a quanto Warren già cantava in Desperados Under The Eaves? Don Henley e Glenn Frey, qui presenti ai cori, sicuramente prendevano appunti, in quegli ultimi mesi del 1975 quando il brano veniva registrato. Ma l’umorismo corrosivo di Zevon rimane imbattibile, pur delineando una Hollywood sul punto di sprofondare nell’oceano tra cataclismi e montagne di cocaina, con la declamazione della sua versione della legge di Murphy: «Se la California scivolasse nell’oceano, come i mistici e gli statistici dicono, io predico che questo motel rimarrà in piedi fino a quando non avrò pagato il conto».
Come Randy Newman, un altro losangelino che rifiuta gli stereotipi, il figlio del giocatore d’azzardo e della donna mormone si prende gioco dei miti in cui è costretto a vivere: l’Hollywood Hawaiian Hotel che lui canta in questo pezzo non è altro che quel Chateau Marmont, residenza delle rock star californiane e aspiranti tali, dove troverà la morte pochi anni dopo John Belushi, quell’Hotel California celebrato anche dagli Eagles, un posto in cui puoi sempre fare il check out ma non te ne puoi andare. Disperati, sotto alla grondaia.
Warren Zevon avrebbe venduto poco meno di 100 mila copie, troppe poche a quei tempi per lanciarlo tra le star; meglio sarebbe andato due anni dopo con il successivo Excitable Boy, ma alla sua tempia sarebbe sempre rimasta una pistola puntata. Ingressi e uscite continue da cliniche per la disintossicazione, dischi che sembravano incompiuti, nonostante l’aiuto a volte di gente come Bob Dylan o i R.E.M.
Che i suoi ultimi lavori si intitolassero Life’ll Kill Ya e My Ride’s Here, è una sorta di beffa cosmica che Warren deve aver apprezzato quando gli fu detto che gli sarebbero rimasti pochi mesi da vivere.
Puoi sempre pagare il conto, ma da qua dentro non potrai mai andartene.