Se n’è andato nel freddo di una mattina milanese, sconfitto da un male impossibile da curare. Da quell’11 gennaio sono passati dieci anni e Fabrizio De André non è stato dimenticato nemmeno per un giorno, fin da quell’affollatissimo funerale nella sua Genova, quando l’Italia delle canzonette e quella dei cantautori si strinse in un unico abbraccio per salutarlo. «Pensavo, è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra». Mai verso fu così profetico. Faber lo cantava in Amico fragile nel 1975, non immaginando il carico di eredità che avrebbe lasciato dopo la sua morte. Quasi impressiona quanto De André continui ad essere attuale. Forse perché non è mai stato di moda. Del resto, come può esserlo un uomo genuinamente libero, nemico di etichette e schieramenti, tanto convinto della redenzione dell’umanità quanto insofferente nei confronti di false ideologie e regole prestabilite? Tutto questo viene prepotentemente fuori attraverso i ricordi degli amici e una gran quantità di tributi in sua memoria. Degno di nota il premio che porta il suo nome, istituito nel 2001 (Premio Fabrizio De André – Parlare musica), senza contare la ciclica uscita di dischi tributo, cover band, concerti, biografie, libri fotografici, mostre, film, documentari e materiale inedito tirato fuori dai cassetti di chi con Fabrizio collaborò. Chissà cosa direbbe oggi di tutto questo; forse se la caverebbe con un «belìn» e una battuta di spirito, per mascherare la sua proverbiale timidezza. Si potrebbe pensare, con una punta di malignità, a uno sfruttamento della sua memoria. Come se tutti quelli che l’hanno conosciuto e che hanno lavorato con lui si sentissero autorizzati a diffondere qualsiasi cosa lo riguardi. Eppure la sensazione è che ogni tributo nasca da sentimenti sinceri. «Perché Fabrizio era di tutti», come ha sempre ricordato sua moglie Dori Ghezzi, da anni impegnata a promuovere eventi e iniziative attraverso la Fondazione De André. E proprio la fondazione propone in questo periodo una grande mostra, un viaggio multimediale nella musica, nelle parole e nella vita di Fabrizio (Genova, Palazzo Ducale, da dicembre 2008 a maggio 2009). Sempre grazie a Dori un altro documentario lo riporta idealmente in vita. Il titolo è inequivocabile, Effedià. Sulla mia cattiva strada: senza voce narrante, diviso per capitoli, in cui vediamo De André raccontarsi davanti alla telecamera di Teresa Marchesi (firma del Tg3); ci sono anche tre brani inediti e testimonianze di tanti fan eccellenti. C’è addirittura Wim Wenders, che si dichiara missionario del verbo di De André, e che annuncia l’intenzione di organizzare a New York un grande concerto in suo onore. Ma ci sono anche Vasco Rossi, Fernanda Pivano, Fiorello. A proposito di Effedià, la vedova De André spiega come l’operazione è destinata non solo ai nostalgici, ma anche ai giovani: «Alla Fondazione arrivano tante mail di ragazzi che vogliono sapere di più su Fabrizio, che non si perdonano il fatto di essere venuti dopo di lui».
Il suo lato politico è in qualche modo celebrato attraverso due operazioni non commerciali: un doppio cd con libretto, con ben 37 brani reinterpretati da giovani musicisti indipendenti e vicini alla realtà anarchica cui tanto Fabrizio si sentiva affine. Il lavoro s’intitola Duemila papaveri rossi e comprende versioni suggestive di Sally, Creuza de mä, La canzone di Marinella, Oceano, Il pescatore, Un giudice, Dolcenera tra le tante. Il tutto prodotto e curato da Marco Pandin per la “non-etichetta” Stella Nera, a sostegno della rivista A. Stesso discorso vale per Spesso mi ha fatto pensare, numero speciale della rivista anarchica sotto forma di libro (Gli occhi della memoria) + cd (Ed avevamo gli occhi troppo belli), ennesima testimonianza dell’affetto e della complicità che hanno legato Fabrizio De André agli anarchici. L’album contiene brani live, tra cui una versione del 1991 di Se ti tagliassero a pezzetti, in cui viene cantata la parola «anarchia» al posto dell’originaria «fantasia».
Attraverso le immagini parla anche Guido Harari, storico fotografo rock e autore di indimenticabili scatti live e non solo. A lui e a Franz Di Cioccio – batterista e cantante della Premiata Forneria Marconi – il compito di rievocare, in un libro intitolato Fabrizio De André & PFM. Evaporati in una nuvola rock (Chiarelettere), la prima volta di De André on the road, quella in cui il cantautore si trovò coinvolto nel folle progetto della PFM di andare in tour insieme. Di quelle movimentate serate del 1978 purtroppo non si ha un documento video, ma con questo libro si può almeno provare a visualizzare un momento topico per la musica italiana e per la carriera di Fabrizio. Gli splendidi scatti di Harari sono accompagnati dalle testimonianze di chi in quel periodo affrontò l’avventura: l’intera band con Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Patrick Djivas e Flavio Premoli e gli altri due musicisti che arricchirono la line up, Lucio Fabbri e Roberto Colombo. Uno scoppiettante diario di bordo, zeppo di aneddoti di backstage e on stage, intensi e irresistibili in cui ognuno di loro aveva un soprannome dal sapore indiano. Dai loro racconti la figura di De André – che per tutti era diventato il grande capo Coda di Lupo – ne esce ridimensionata: da intoccabile mito, Faber diventa uomo complicato e insofferente, pignolo e irrequieto, intimorito dal clamore tanto da prendersi sbronze colossali per affrontare il caos del palco. Ma emerge soprattutto un generosissimo De André, capace di insuperabili slanci affettivi, dotato di raro senso dell’umorismo, una cultura senza pari e una bontà d’animo profonda da far commuovere.
Quel tour fu epocale. Non solo per il fatto che la PFM si rese responsabile della rinascita artistica di un cantautore che rischiava di restare prigioniero di se stesso. Ma anche per tutto quello che ruotò attorno all’evento: in Italia erano tempi di contestazione e barricate politiche e per i puristi della canzone impegnata fu un sacrilegio sporcare le ballate di un autore come De André con il rock (per giunta progressive) e un tradimento l’aver ceduto a compromessi commerciali suonando con loro. Sembrava un salto nel vuoto eppure, testardi e ostinati, i ragazzi della PFM trascinarono Coda di Lupo in un’avventura che si trasformò di lì a poco in storia. Di Cioccio oggi ricorda che a lui balenò l’idea azzardata di una collaborazione con De André, durante una visita in Sardegna nella tenuta del cantautore. Il talento della PFM è stato quello di riportare in vita straordinarie canzoni, ma che erano ferme nel tempo, quasi ammuffite. Il pescatore, Bocca di Rosa, Il testamento di Tito, Via del Campo, La guerra di Piero, Un giudice, La canzone di Marinella subirono una micidiale sferzata, il mood a tratti funereo di certi suoi brani fu scosso da un ritmo serrato e piacevole grazie all’inserimento di chitarre elettriche, archi, una possente sezione ritmica, fisarmoniche, Moog, tanto da sembrare tutto nuovo. Una trasformazione artistica e umana, sancita dall’uscita dei due volumi In concerto (1979-80), che De André si porterà dietro per sempre. Anche le fotografie, in questa «nuvola rock», svelano un Fabrizio rivitalizzato, sorridente, stretto nei suoi striminziti maglioni blu e immerso nel fumo delle sue sigarette, a suo agio in un gruppo freak e casinista.
Nelle immagini carpite da Harari, ce ne sono tante fatte in studio durante la preparazione del tour ed è curioso osservare le espressioni allibite o annoiate dei navigati rocker di fronte al cantautore rompiscatole, che percepiva il rumore delle percussioni o delle chitarre elettriche come un disturbo. Nonostante non fosse avvezzo al clima rovente dell’on the road, terrorizzato da probabili imprevisti, sempre sul punto di mollare tutto e spesso sbronzo, De André veniva costantemente incoraggiato e scosso dai compagni, proprio come avevano fatto con le sue canzoni. In concerto gli piovevano addosso contestazioni da chiunque, soprattutto da parte di chi pensava che la musica non dovesse essere pagata. Franz Di Cioccio a tal proposito ricorda una sera in cui Fabrizio scese con lui tra i ragazzi infuriati, promettendo di sborsare di tasca sua i soldi non pagati per quei biglietti. Le serate andavano avanti tra applausi, ma anche tra sonori vaffanculo e lui a cercare di dialogare col pubblico, provando a capire i perché di tutto, dissacrando così la sua immagine di artista schivo e freddo. È un’eredità di sentimenti e di condivisione quella che Coda di Lupo ha lasciato alla PFM (e allo stesso Guido Harari) che ha aperto la strada a molti cantautori che – nel corso di tutti questi anni – hanno imparato ad elettrificare e rendere migliore il proprio repertorio.
Ancor oggi la rock band milanese, nei suoi concerti in giro per il mondo, rende il suo omaggio all’amico scomparso con uno spettacolo intitolato PFM canta De André (Aereostella) impresso in un cd + dvd pubblicato a novembre con una dedica speciale all’interno: «A tutti coloro che sono stati accarezzati dalla poesia di Faber e scossi dall’energia di PFM» (vedi recensione a pagina 95).
Anche i New Trolls, per bocca dei due superstiti Nico Di Palo e Vittorio De Scalzi, hanno voluto ricordarlo attraverso le pagine del libro scritto da Antonio OleariUn viaggio lungo 40 anni: Senza orario senza bandiera, dal titolo del disco pubblicato nel ’68, con i testi di Fabrizio: una simbiosi fra genovesi che diede vita a uno dei primi concept album italiani. In realtà fu proprio grazie ai New Trolls che il cantautore per la prima volta vinse il suo terrore da palcoscenico, nella memorabile e rocambolesca esibizione alla Bussola di Viareggio nel 1975. Alle avventure live di De André è dedicato per intero un altro libro, scritto a quattro mani dal giornalista Franco Zanetti e Claudio Sassi, il più grande collezionista di materiale sul cantautore ligure. Intitolato semplicemente Fabrizio De André in concerto, il testo ripercorre una cavalcata durata più di vent’anni su e giù per l’Italia. Attraverso ritagli di quotidiani, reperti d’archivio e interviste a tutti i musicisti che con lui collaborarono; in queste pagine risulta evidente quanto la musica e la creatività di De André sia stata – e continui ad esserlo – preziosa per le generazioni che sono arrivate dopo, nonostante sia altrettanto palese che un erede vero non è ancora nato.
L’incontro con Mauro Pagani fu un’altra tappa fondamentale nella vita di De André e per la musica italiana. Creuza de mä (1984), celebrato disco del decennio, fu uno spartiacque nella sua carriera: dopo quest’ album Fabrizio espresse la volontà di non voler cantare in italiano, ma di volersi concentrare esclusivamente sul genovese (che per lui non era un dialetto ma una vera e propria lingua). Il nuovo lavoro lo svincolò dalle impostazioni vocali ereditate dalla tradizione degli chansonnier francesi e gli garantì una libertà di espressione, lontana dallo stile che aveva assorbito da Brassens e da Brel e per il quale all’inizio risultò artista ostico a molti. L’appassionata ricerca sul linguaggio e sul suono fatta con Pagani portò nelle sue canzoni l’odore salato del mare lontano, nuove invettive e storie da raccontare. Ma soprattutto strumenti sconosciuti al clichè del cantautore italiano: bouzouki, mandole, mandolini e nuove percussioni. Dopo qualche anno di pausa, in cui aveva coltivato l’amore per la natura e organizzato con passione la nuova tenuta di famiglia, con Pagani tornò a suonare dal vivo per promuovere (il concetto di promozione non riuscì mai ad andargli a genio) un altro disco epocale come il colto Le nuvole (1990), titolo che alludeva ad Aristofane e che denunciava quei potenti che oscurano il sole. In studio con Faber tornò anche Massimo Bubola (con cui firmò Rimini nel 1978 e l’album dell’indiano, vedi intervista a pagina 66), ma soprattutto Ivano Fossati. Con questo album De André tornò in parte al suo stile musicale più tipico, affiancandolo alle canzoni in dialetto e all’ispirazione etnica. Album e spettacoli divennero sempre più sofisticati. Anime salve, ultimo lavoro di Fabrizio arrivato nel 1996 dopo tre anni di pausa, vide una nuova e più intensa collaborazione di Ivano Fossati, forse uno dei cantautori che più hanno raccolto la sua eredità, vicini non solo per la stessa radice ligure, ma anche per certe sfumature d’animo e un gusto personalissimo per la ricerca sonora. Una serie di grandissimi musicisti lo avevano via via affiancato in studio e dal vivo, come il batterista Ellade Bandini, i chitarristi Michele Ascolese e Giorgio Cordini, il percussionista Rosario Jermano, Mario Arcari virtuoso dei fiati, il tastierista Mark Harris e tanti altri. In ognuno di loro De André ha lasciato un segno indelebile che ancora oggi si portano dentro. Così come il ricordo di quell’uomo tanto carismatico, creativo e instancabile quanto insicuro, imprevedibile, divertente, ironico, brontolone. Insomma, unico. È stato amato l’artista colto e complicato, il poeta che si lasciava ispirare dagli esistenzialisti francesi e dai songwriter americani, il figlio dell’alta borghesia che mal tollerava il falso buonsenso e le ipocrisie. Segnato da esperienze terribili, come quella del sequestro in Sardegna per mano dell’anonima sequestri, insieme alla compagna Dori, cantato da Joan Baez e idolatrato dall’ex Talking Heads David Byrne, rifiutò per timidezza o pigrizia la proposta di David Zard di aprire per Bob Dylan: «Al suo fianco sul palco probabilmente mi sarei cagato addosso». Di Fabrizio è rimasta viva la sensibilità, difficilmente riscontrabile in altri artisti italiani. Una sensibilità talmente profonda da riuscire a rendere poesia le parti più infime dell’umanità, quelle che nessuno aveva mai avuto il coraggio di portare alla luce, convinto che ci fosse «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore». Questo l’aveva reso personaggio scomodo per molti, esposto a censure e critiche feroci. Ma lui sapeva andare oltre, sempre in direzione ostinata e contraria. Senza falsi pudori aveva tolto due dita di polvere dai Vangeli apocrifi e messo in musica l’altra vita di Gesù di Nazareth, in uno dei primi concept album che la storia della musica italiana ricordi: La Buona Novella nel 1970. Con rabbia e senso di giustizia aveva raccontato del massacro degli Indiani d’America (in Fiume Sand Creek). Abbracciato alla sua chitarra aveva cantato di puttane e transessuali, di nani e disgraziati, di delinquenti e mariti infedeli, di assassini e fanciulle innamorate, di ereditieri e contadini, di re e straccioni, di politici maneggioni e carceri d’oro, di suicidi e stupri, di padri e di figli. Da sempre convinto che a contare davvero fosse l’essenza di una persona più che le sue azioni. La voce così morbida e spesso lugubre, sapeva raschiare il fondo di molte anime. Perfino la descrizione di un amplesso diventava delicata. E poi l’amore, sentimento così tanto sfruttato e mercificato nelle canzoni, diveniva sensazione vera e totalizzante. C’è ancora tanto materiale pubblicato per ricordare questi dieci anni senza De André. Chiunque l’abbia conosciuto o soltanto incrociato ha voluto dedicargli un pensiero. Sensazione dominante è un’inalterata nostalgia, ma anche che dopo un decennio nessuno dei temi cari al cantautore ha perso d’attualità: ingiustizie sociali, delinquenti camuffati da potenti, omosessuali e transessuali, rom e sbarchi clandestini. Mentre nel panorama musicale italiano – in evoluzione soltanto apparente – Fabrizio De André resta un punto fermo: in molti hanno cominciato a suonare per merito della sua arte, ma nessuno è riuscito né ad imitarlo, né a superarlo.