29/10/2008

LA BALLATA DI MARIANNE

Easy come, easy go, nothing ever worries me». C’è un’intera filosofia di vita in questo verso. A cantarlo è una donna che, anziché soccombere alla tristezza e alle miserie quotidiane che affliggono chi la circonda, lascia scivolare via le preoccupazioni prendendo con leggerezza di spirito – easy come easy go, appunto – tutto ciò che il domani può offrire. Bessie Smith incise questo blues atipico nel gennaio del 1924; non è una coincidenza se, 84 anni dopo, Marianne Faithfull se ne è appropriata per dare un titolo al suo ultimo, incredibile album, trionfale ritorno sulle scene dopo l’ennesimo periodo difficile. Risale infatti al 2006 la notizia della sua malattia, un tumore al seno fortuitamente colto allo stadio iniziale e quindi sconfitto nel giro di pochi mesi; a posteriori, un «piccolo incidente di percorso» che comunque non le ha impedito di continuare ad esibirsi in tutto il mondo, di raccogliere un mare di consensi per la sua ultima prova su grande schermo (il fortunatissimo Irina Palm, vedi box a pagina 32) e di tornare in studio con il leggendario Hal Willner a vent’anni da Strange Weather, il disco che l’ha consacrata interprete unica e ne ha stabilito definitivamente la statura artistica. D’altronde è sempre stata così, Marianne: in perenne bilico fra trionfo e tragedia, fra gloria e disgrazia, immersa in un turbine di cambiamenti e di eventi da cui poi è uscita raggiante più che mai. Ha incantato il mondo del pop negli ancora ingenui anni 60, ha vissuto pericolosamente accanto alla rock band più pericolosa di sempre, ha fatto perdere completamente le sue tracce, ha toccato il fondo ed è andata ancora più giù, per infine riemergere come artista fra le più applaudite (e controverse, certo) dei nostri tempi. Coraggiosa, avventurosa, incosciente, determinata, non ha mai conosciuto mezze misure, anche a costo di fare le scelte sbagliate, e di pagarne caro il prezzo; nondimeno, ha sempre voluto vivere la vita fino in fondo, per poi riversarla in un’arte diretta, cruda, vera e ammaliante.
La splendida forma (artistica e non solo) di cui gode oggi, passata la soglia delle 60 primavere, fa di lei qualcosa di più che una sopravvissuta. Se c’è un’autentica icona del rock’n’roll al femminile, è probabilmente lei: in nessun altra si fondono così perfettamente grazia e maledizione, bellezza e perdizione, eleganza e trasgressione. In lei ci sono Grace Kelly e Nico, Edith Piaf e Marlene Dietrich, Patti Smith e PJ Harvey, Billie Holiday e Bessie Smith. Non si può allora resistere alla tentazione di ricostruire una personalità tanto complessa e, nemmeno a dirlo, indicibilmente affascinante.

Convent Girl
Tutto è cominciato una sera di marzo del 1964. È un’adolescente dalla bellezza abbagliante quella che entra nella casa londinese della cantante Adrienne Posta, nei pressi di Marble Arch. Nel salotto si sta tenendo il party di lancio del suo ultimo disco, Shang A Doo Lang, una canzoncina innocua scritta da due songwriter alle prime armi, che allora cercavano ancora di emulare i fasti della coppia dorata del pop britannico, Lennon-McCartney. Sono Mick Jagger e Keith Richards, anch’essi presenti quella sera, e non possono fare a meno di notare quella figura angelica e al contempo conturbante che attraversa la stanza, come pure il resto degli astanti. Chi però viene più di tutti attratto da quel mix letale di innocenza e perversione è il loro astuto manager, Andrew Loog Oldham, che immediatamente si informa sul conto di quella sconosciuta e bellissima ragazza. «Sa cantare?», chiede curioso all’uomo che l’accompagna, l’artista – e di lei fidanzato – John Dunbar, futuro fondatore della Indica Gallery. La risposta è affermativa, per quanto le doti canore sono soltanto un dettaglio per il lungimirante e geniale produttore, di fronte all’indiscutibile avvenenza della fanciulla. Poche settimane e Marianne Faithfull, poco più che diciassettenne, si trova in studio a registrare il suo primo successo, As Tears Go By, firmata proprio da Jagger e Richards. La canzone va dritta al numero 1, inizio scoppiettante di una vicenda che si sarebbe rivelata avventurosa oltre ogni previsione. Che la ragazza fosse destinata a una vita non comune era già scritto nel suo dna: il padre, Glynn Faithfull, era un’ex spia del MI6, protagonista di imprese spericolate durante il secondo conflitto mondiale; la madre, Eva, era un’ex ballerina classica della Repubblica di Weimar, una baronessa decaduta proveniente da una nobile casata asburgica che annovera tra gli altri Leopold von Sacher-Masoch, l’autore del celebre romanzo erotico Venus In Furs (inventore letterario del termine “masochismo” ed effettivamente prozio di Marianne). In seguito al divorzio dei genitori, avvenuto quando aveva 6 anni d’età, va a vivere con la madre nei pressi di Reading; sono tempi duri, e la famiglia non può permettersi una costosa scuola privata. Riceve così un’educazione cattolica presso le suore di St. Joseph; e così, quella che si affaccia curiosamente sulla scena di una Londra non ancora del tutto swinging ma di certo ricolma di fermenti, non è altro che un’apparentemente innocente ragazza da convento, dalle maniere aristocratiche eppure disinvolte. In realtà, prima dell’incontro con Oldham, Marianne aspira già a intraprendere una carriera artistica: non sa ancora se sarà un’attrice o una cantante, ma comincia a muovere i primi passi esibendosi nei café, in un gioco di rimandi al Greenwich Village e alla Baez. Sarà infatti a lei che guarderà come modello (anche vocale) dopo il successo di quel primo 45 giri, provando ad imporsi come cantante folk con una cover di Blowin’ In The Wind e con gli album Come My Way e North Country Maid (contenente una bella versione del traditional Scarborough Fair e Sunny Goodge Street, firmata da Donovan), in cerca di sostanza e spessore da contrapporre all’effimera pop music del tempo. È tuttavia grazie ad essa – e non solo – che a metà dei 60 conosce il maggiore periodo di fama della sua vita: l’omonimo lp del 1965 e i singoli Come And Stay With Me e This Little Bird sono successi che la portano in giro per l’Inghilterra (un tour con Hollies, Gene Pitney e Kinks le fa assaporare i primi bocconi del rock and roll lifestyle, scappatelle comprese) e per l’Europa (nel nostro paese inciderà un 45, Quando ballai con lui, e parteciperà al Festival di Sanremo nel 1967, cantando in coppia con Ricky Maiocchi C’è chi spera). Tramite Dunbar si trova a contatto con alcune delle maggiori personalità della cultura di quegli anni, da William Burroughs ad Allen Ginsberg fino a Dylan – anche se lei rifiuterà la sua corte perché incinta. Il matrimonio e la nascita del figlio Nicholas monopolizzano le cronache rosa, ed è difficile non incontrare il suo volto acqua e sapone sfogliando i rotocalchi o accendendo la tv (è ospite dell’emittente nazionale svariate volte, come testimoniato dal recentissimo Live At The BBC, recensito sullo scorso numero di JAM). Eppure, nonostante l’aria naif e la giovane età, vive con disincanto e insolita lucidità ciò che le accade, come trapela dalle interviste video dell’epoca in cui sfoggia, oltre alla nota avvenenza, un’intelligenza fuori dal comune.

Falling From Grace
Insomma, Marianne sembra nata per essere una star. Ma è un bel sogno destinato a dissolversi presto. Di lì a poco, infatti, inizia la celeberrima e turbolenta relazione con Mick Jagger, per il quale lascia il marito e rinuncia, progressivamente, alla sua stella. Essere una stone girl non si rivela affatto facile, a partire dalla retata per droga nel febbraio 1967 in casa di Richards a Redlands Lane, uno scandalo che la sconvolge più di ogni altra cosa. Non subisce arresti né processi, ma la sua immagine pubblica (al momento dell’irruzione era l’unica ragazza presente, per di più vestita solo di una pelliccia) ne esce completamente devastata. «Quel giorno ho perso la mia reputazione e il mio buon nome. È stato un colpo durissimo per la mia femminilità», affermerà più tardi. È soltanto l’inizio di un calvario nel corso del quale annulla del tutto la sua personalità, in una situazione da lei vissuta – dirà in seguito – come un amore disperato, ingenuo, folle; nondimeno, l’opinione comune la riduce al rango di groupie (un pregiudizio sessista ancora oggi duro a morire, purtroppo). Eppure, lo stare a contatto con gli Stones in uno dei periodi più creativi e tragici della loro storia ha anche dei risvolti positivi per la sua maturazione artistica: in quegli anni intraprende seriamente la carriera di attrice e, seppure a singhiozzo e all’ombra di Mick, continua con la musica (l’ambizioso album folk Love In A Mist e il singolo Is This What I Get For Loving You), cominciando anche ad usarla come veicolo per la propria personalità. Già proposta nel Rock And Roll Circus del dicembre ‘68 (dove appare bella come sempre, abito da sera mozzafiato ed espressione più malinconica del solito), la struggente Something Better sembra riflettere il suo stato d’animo del tempo («È assurdo vivere in una gabbia / Ci dev’essere per forza qualcosa di meglio»); ancora più eloquente è la canzone che l’accompagna come lato B sul singolo, Sister Morphine scritta con Jagger e Richards e registrata con Ry Cooder e Jack Nitzsche, un piccolo capolavoro di rock decadente, con quella voce tremula che è pura sofferenza, terrificante e inquietante alla maniera dei Velvet Underground più malati e claustrofobici. Secondo le intenzioni dell’autrice il soggetto che canta è la vittima di un incidente stradale («Sono qui steso nel mio letto d’ospedale / Dimmi, sorella Morfina, quando tornerai di nuovo da queste parti?»), ma è fin troppo facile interpretare in quelle liriche tanto esplicite un inno alle droghe, tanto che la Decca ritira il disco a due giorni dalla pubblicazione, dopo che ne erano state smerciate solo 500 copie. È un durissimo colpo, il primo di una lunga serie: l’aborto a gravidanza avanzata della figlia che aspettava con Jagger, la morte di Brian Jones, infine un tentativo di suicidio mentre è in Australia con Mick la spingono inesorabilmente nel baratro dell’autodistruzione. A partire dal 1970, il suo è un progressivo e inesorabile scivolare verso il fondo, oltre l’immaginabile e il sopportabile. Troncata la relazione con Mick, sceglie di tagliare i ponti con il mondo e di abbandonarsi a una vita randagia, spesa con pervicacia, disperazione e ostinazione sul lato sbagliato della strada.

The Girl On The Wall
Tossica, sola e senza un soldo, nei primi 70 si ritrova a praticare l’accattonaggio lungo un muro di Soho. Viene inserita nel programma statale per tossicodipendenti del NHS, ma non riesce a sconfiggere l’eroina nonostante le dosi prescritte. Tuttavia, riesce in qualche modo a sopravvivere. Vuoi per il supporto logistico ed economico della madre, vuoi per qualche amico che si ricorda di lei (David Bowie la vuole al suo fianco in una memorabile I Got You Babe di Sonny & Cher per il suo speciale televisivo 1980 Floor Show, in cui appare vestita da suora), vuoi «per incanto» – come dirà lei stessa più tardi in una canzone del 2002 (Sliding Through Life On Charm, appunto), Marianne passa attraverso quegli anni terribili come un fantasma. Ne esce viva, ma si porta in dote una voce che, per dirla alla Tom Waits, è «olio spettrale su un cancello cigolante»; quel baritono roco, spezzato e sofferto, lontano anni luce dal vibrato cristallino di qualche anno prima, è tuttavia con il tempo divenuto parte integrante del personaggio e del suo fascino. In un primo momento però la carriera fatica non poco a riprendere il volo (nel ’71 incide un disco, Rich Kid Blues, che verrà pubblicato solo quindici anni dopo), finché nel 1975 ritrova inaspettatamente il successo interpretando il classico folk Dreamin’ My Dreams, che le fa conquistare la vetta delle classifiche in Irlanda, terra a cui resta sempre molto legata e in cui passerà diversi anni della sua vita. Ma la vera e propria resurrezione artistica avviene solo nel 1979, quando viene dato alle stampe Broken English, ad oggi il suo capolavoro indiscusso. Nel fondere sonorità rock, punk ed elettroniche, consegna al mondo la Faithfull come moderna chanteuse decadente, agguerrita icona di una complicata era di passaggio come lo erano stati Iggy Pop, Bowie e Patti Smith (basti la dedica della title track alla terrorista tedesca Ulrike Meinhof per rendere l’idea). Oltre al classico Ballad Of Lucy Jordan, l’album contiene la formidabile cover di Working Class Hero di Lennon e soprattutto Why D’ya Do It, caustico reggae dai toni hard basato su una poesia di Heathcote Williams che, nel suo turpiloquio («Every time I see your dick, I see her cunt in my bed»), è quanto di più distante ci possa essere dall’innocenza virginale di As Tears Go By La nuova identità è fondata, ma intanto Marianne non ha rinunciato a vivere sul lato selvaggio: intrattiene una storia pericolosa con Ben Brierly, leader della punk band Vibrators (che arriva anche a sposare), e la sua dipendenza non accenna a diminuire.

A Perfect Stranger
Nell’81 Dangerous Acquaintances è un modesto successo, seguito dal sottovalutato A Child’s Adventure, disco fra i più personali del catalogo (vedi le confessioni a nudo di Falling From Grace e Times Square). Ma il vero e proprio turning point avviene quando viene chiamata da Hal Willner, il re dei tributi d’autore, a partecipare a Lost In The Stars, omaggio all’arte di Kurt Weill e Bertold Brecht; incide The Ballad Of The Soldier’s Wife, e si scopre efficace quanto straordinaria interprete di cabaret. È l’inizio di una fascinazione, quella con il teatro tedesco degli anni 20, che dura ancora oggi. Ma soprattutto è il preludio alla collaborazione che stabilirà definitivamente la sua integrità artistica: Strange Weather, raffinatissima raccolta di standard jazz, blues e folk (più alcuni originali, nonché una stupenda rivisitazione di As Tears Go By) riletti insieme a una band d’eccezione (Bill Frisell, Garth Hudson, Robert Quine, Dr. John) con il contributo fra gli altri di Tom Waits e Doc Pomus, mentre Willner supervisiona il tutto. È un trionfo, bissato due anni dopo in Blazing Away, sorta di percorso a ritroso dal vivo lungo tutta la carriera, nella medesima veste sonora, noir e sofisticata. Così, la Faithfull è riuscita a reinventarsi come donna e come artista: complice un pressoché totale recupero fisico (la dipendenza è stata finalmente sconfitta nella seconda metà degli 80, in seguito a una faticosa disintossicazione), gli anni a venire vedono fiorire una nuova Marianne. Una professionista versatile e instancabile, attiva su più fronti (cinema, musica, teatro) e sempre coinvolta in una miriade di progetti che la trovano ogni volta a fianco di nuovi partner artistici. La capacità che mostra di adattarsi alle circostanze, plasmando la sua personalità a seconda delle esigenze e lasciando comunque indelebile la propria impronta, la mette sullo stesso piano di un altro grandissimo, il Duca Bianco (non a caso una delle sue frasi preferite è «things change all the time»). È una rinascita a tutti gli effetti, costellata negli ultimi tre lustri da collaborazioni tra le più varie, dischi puntualmente osannati dalla critica, avventure in celluloide sempre più gratificanti. Nei 90 si dedica in pieno alla passione per Weill-Brecht, portando in scena l’Opera da tre soldi e I sette peccati capitali, da cui trae un album registrato insieme all’Orchestra Sinfonica della Radio di Vienna (The Seven Deadly Sins) e prende ispirazione per lo spettacolo di cabaret 20th Century Blues (anch’esso fissato su supporto). Intanto, trova il tempo di pubblicare la controversa quanto chiarificatrice autobiografia Faithfull, registrare dischi di inediti con Angelo Badalamenti (A Secret Life, 1995) e Daniel Lanois (Vagabond Ways, 1999, a cui partecipa anche Roger Waters), ritrovarsi con Keith Richards e Ronnie Wood per incidere una canzone di Patti Smith (Ghost Dance, 1994), apparire in un video dei Metallica (The Memory Remains), dare alle stampe una raccolta più o meno definitiva con tanto di inediti (A Perfect Stranger, 1998).

Hold On, Hold On
Oggi Marianne vive a Parigi insieme al compagno e manager François Ravard, e la sua agenda è sempre piena. Certo, il suo stile di vita si è ormai addomesticato, più consono a una signora della sua età. Lei stessa nelle recenti interviste non manca mai di affermare che il tempo che passa non è un problema, anzi l’ha resa più accorta (per sua stessa ammissione, negli anni non ha mai risparmiato un penny né acquistato alcuna proprietà – easy come easy go, ancora) e, possibilmente, più saggia. «La bellezza è una scorciatoia», ha confessato qualche anno fa all’Independent. «Ti permette di arrivare agli obiettivi piuttosto facilmente. Per questo da ragazza ho imparato ad essere adorabile, a sapere esercitare il mio fascino. Con molto successo, devo dire. Se adesso mi impegno così tanto in quel che faccio e cerco sempre di migliorarmi, è perché, semplicemente, non posso dipendere soltanto dal mio aspetto». Una coscienza di sé che, sposata a una curiosità e un interesse sempre vivi verso nuovi progetti, l’ha portata a un’attività vorticosa al punto di patire, qualche mese fa, un forte esaurimento che l’ha costretta a interrompere una tournée. Fra le tante imprese, le cronache recenti riportano l’eclettico Kissin’ Time (2002) e il crudo e stradaiolo Before The Poison (2005), nati da frequentazioni ravvicinate con colleghi più giovani (Beck, Damon Albarn, Billy Corgan, Jarvis Cocker, Polly Harvey, Nick Cave, ma anche il ragazzo prodigio Patrick Wolf nel suo The Magic Position); un significativo rialzo delle sue quotazioni di attrice (con Intimacy, Marie Antoniette e il citato Irina Palm); un secondo volume autobiografico (Memories, Dreams And Reflections); tributi a Serge Gainsbourg (in studio con Sly & Robbie per Monsieur Gainsbourg Revisited) e Beatles (dal vivo a Milano in un evento unico dedicato a Sgt. Pepper, per il MiTo dell’anno scorso); un tour nei teatri dedicato ai sonetti di Shakespeare (vedi box a pagina 33); una lista generosa a cui aggiungiamo anche un riconoscimento importante come il nostro Premio Tenco, arrivato nel 2007. E poi sì, la malattia che però non le ha impedito di proseguire audace nel suo cammino, tanto che oggi arriva a consegnarci uno dei dischi forse tra i più belli della sua carriera. Registrato in appena una settimana lo scorso dicembre a New York, Easy Come Easy Go (recensito a pagina 76) ricostituisce il team Faithfull-Willner nell’intento di rinnovare i fasti di Strange Weather. Stavolta però è successo qualcosa di diverso. Nello scegliere le 18 canzoni della scaletta – tutte cover, certo – si è tenuto conto non solo di evergreen, classici e standard jazz, blues, rock e folk (Duke Ellington, Dolly Parton, Leonard Bernstein, Randy Newman, Traffic), ma anche di canzoni e autori dell’indie rock recentissimo (Neko Case, Espers, Decemberists, Black Rebel Motorcycle Club, ma pure Morrissey). Inoltre, gli arrangiamenti sono stati scritti su misura per ogni pezzo, con il contributo primario di una band stratosferica composta da Marc Ribot, Barry Reynolds, Rob Burger, Greg Cohen e Jim White dei Dirty Three. A questo si aggiunga un ricco cast di ospiti, da Antony a Nick Cave, da Rufus Wainwright a Cat Power, da Kate e Anna McGarrigle a Sean Lennon e Teddy Thompson; last but not least proprio lui, Mr. Keef, a testimonianza che le antiche amicizie non muoiono mai, quando c’è affetto autentico. E poi c’è ovviamente lei, Marianne. Un carisma assolutamente intatto, che eleva il tutto di almeno un paio di spanne. Si tratti di una canzone del 1924 o del 2006, riesce ad impregnare ogni interpretazione della sua inconfondibile personalità, con un misto di classe innata e istinto selvaggio. Forse è proprio questo il suo segreto, dopo tutti gli anni e i chilometri percorsi su sentieri che pochi altri hanno osato battere: mettere una consistente parte di se stessa in ogni cosa che fa, marchiandola e caratterizzandola indelebilmente, fosse un album, un film o un semplice cameo. È una cosa inspiegabile, indescrivibile a parole. Chiamatela pure fascino, se vi va.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!