Nel 1993 la capitale mondiale del rock era indiscutibilmente Seattle. Erano anni che una città non otteneva tanta attenzione per avere dato vita a una scena musicale e a uno stile dirompente in grado di spezzare il predominio culturale delle grandi metropoli: il grunge. Cavalcato dalle multinazionali del disco, dalle tv musicali, dai giganti dell’editoria e dai creatori di moda, il fenomeno aveva assunto proporzioni globali. Nell’immaginario collettivo, Seattle era la città progressista dove la musica alternativa aveva finalmente trovato casa. Bene, in quel 1993 i Mudhoney si esibirono alla Odd Fellows Hall, una vecchia sala del quartiere di Capitol Hill che 17 anni prima era stata teatro del primo evento punk-rock di Seattle. Il concerto era già iniziato quando l’organizzatore vide materializzarsi alcuni agenti di polizia: erano venuti a controllare che i minorenni non ballassero. Applicavano una legge locale. Nel 1985 la Teen Dance Ordinance aveva regolato la vita notturna dopo che storie di risse, sesso e droga avevano oltraggiato il buon gusto e il senso di moderazione propri della città. In sostanza l’ordinanza prevedeva che, al fine di ospitare serate in cui i teenager ballavano, i proprietari dei club dovevano pagare un premio assicurativo di 1 milione di dollari, ospitare solo clienti tra i 15 e i 20 anni, organizzare un servizio di controllo stipendiando poliziotti fuori servizio. Se c’erano teenager che ballavano, il locale doveva ottemperare agli obblighi dell’ordinanza. Se non l’aveva fatto, l’evento era fuorilegge.
“Sembra che i ragazzi stiano ballando”, disse quella sera un ufficiale di polizia all’organizzatore del concerto dei Mudhoney.
“Nossignore”, replicò lui, “non stanno ballando, stanno pogando”.
“A me invece sembra che ballino”, rispose l’ufficiale prima d’interrompere il concerto.
Questa era la capitale mondiale del rock nel 1993, ma anche nel 1985 o nel 1991. Ed è bene saperlo per comprendere che cos’è il grunge e capire le ragioni della formidabile ascesa dell’etichetta Sub Pop, di cui nel 2008 si festeggia il ventennale. È bene saperlo, perché furono le condizioni avverse a dare vita all’ultima grande rivoluzione rock. Infranto il mito di mecca del rock, si scopre che i rocker di Seattle hanno dovuto conquistare con le unghie il proprio spazio in un contesto urbano ostile. Per farcelo raccontare, abbiamo disturbato il co-fondatore della Sub Pop Jonathan Poneman, Mark Arm (Mudhoney), Tad Doyle (Tad), i produttori Jack Endino e Chris Hanzsek.
“Seattle era decisamente più piccola di adesso” spiega Poneman che vi si trasferì nel 1979. “Immagina: un solo Starbucks, niente Amazon, Microsoft neonata. Era una città, ma aveva l’aria del piccolo villaggio sonnacchioso. C’era la sensazione di vivere in una parte del Paese dimenticata, in un angolo remoto immerso nella natura. Non c’era una scena musicale come la intendiamo oggi”. I concerti si tenevano in sale affittate per l’occasione, teatri appartenenti all’Università di Washington, auditorium, persino in un teatrino usato per le marionette. Per la cultura giovanile erano, per dirla col nome d’una fanzine locale che sarebbe nata alcuni anni dopo, tempi disperati. Vi erano ragioni geografiche a renderli tali: a causa della posizione remota, nell’estremo Nordovest degli Stati Uniti e a una ventina d’ore d’auto da San Francisco, la città era snobbata da molti gruppi rock quando si trattava di tracciare gli itinerari delle tournée, specie se non trovavano simultaneamente ingaggi nei dintorni oppure a Vancouver, in Canada. Vi erano anche ragioni culturali per un tale isolamento: l’establishment locale, che aveva nutrito un’immagine pulita e benevolente e creato il mito della città di smeraldo, un rifugio immerso nella natura per benestanti in fuga dalle città californiane pericolose e sovrappopolate, soffocava la controcultura. L’idea comunemente diffusa era che la musica rock fosse una forma di intrattenimento superflua, non un mezzo d’espressione. Entrare in un locale di Seattle all’inizio degli anni 80 significava imbattersi quattro volte su cinque in una cover band. Non era, questo, un contesto favorevole alla nascita di una sottocultura rock. Oppure, al contrario, era l’ideale perché una nuova cultura giovanile nascesse in opposizione al grigiore di una città imbrigliata da crisi economica (il crollo della Boeing) e perbenismo sociale. Seattle non era su alcuna mappa e le major discografiche chiudevano le sedi in città piuttosto che aprirle. L’isolamento finì per avere un duplice effetto: 1) non essendoci modo di seguire molti concerti dei gruppi provenienti da fuori, si creò una comunità molto coesa di amici attorno ai musicisti locali, con un senso di comunanza alimentato dall’assunzione di MDA, sostanza simile all’ecstasy; 2) essendo tagliati fuori dai trend stilistici, i rocker cittadini svilupparono una forma di rock forse retriva, però efficace. “Arrivai nel Nordovest” mi dice Chris Hanzsek, produttore della prima compilation grunge intitolata Deep Six (1985) “e trovai ragazzi che ancora ascoltavano i Kiss e gli Aerosmith. Non potevo crederci: Seattle era ancora alle prese con una forma di rock rudimentale e primitiva. Però c’era spazio per crescere, una caratteristica che in retrospettiva si sarebbe rivelata importante. Era percepibile un grado di maggiore di intensità, quassù”.
A valorizzare la scena ci pensarono due tizi apparentemente agli antipodi, Bruce Pavitt e Jonathan Poneman. Il primo aveva frequentato l’Evergreen State College di Olympia, istituto noto per essere culla di idee progressiste. Era diventato deejay della radio locale Kaos e aveva fondato una fanzine chiamata Subterranean Pop che si occupava di musica prodotta esclusivamente da etichette indipendenti. Attraverso la fanzine, venduta a 80 centesimi di dollaro, Pavitt mirava a diffondere la sua concezione di cultura popolare: non il frutto di trend imposti dall’industria dell’intrattenimento, bensì l’espressione di realtà locali. Dopo quattro numeri, Pavitt cambiò il nome del giornaletto in Sub Pop e vi allegò musicassette contenenti canzoni di gruppi underground americani altrimenti difficili da trovare. Era convinto che la gente avrebbe preferito spendere pochi dollari per ascoltare musica prodotta dai propri vicini di casa piuttosto che buttare via un sacco di grana per l’ultimo fenomeno montato proveniente dall’Inghilterra. Pavitt si trasferì a Seattle con la ferma convinzione di continuare nella sua battaglia per le musiche locali. Prese a collaborare con la radio Kcmu e col giornale musicale Rocket. Aveva espresso le sue idee nell’ottavo numero di Subterranean Pop (1982), arrivando a stendere una sorta di tavola programmatica del nuovo rock indipendente: “1) La cultura è controllata dalle grandi corporazioni. È pacifico. 2) Sub Pop combatte questo stato di cose appoggiando i mezzi di espressione indipendenti: cassette, dischi, pubblicazioni, video, l’accesso pubblico alla televisione via cavo, qualsiasi cosa. 3) Siamo interessati ai trend regionali, a movimenti, idee, slang, etichette discografiche, ciò che avete voi. Siamo molto interessati alle piccole comunità che non sono importanti come New York o Los Angeles. 4) Una rete culturale decentralizzata è ovviamente cool. Molto cool”. Mise in pratica le sue teorie alla fine del 1986 pubblicando una compilation intitolata Sub Pop 100. Nello stile ironico ed enfatico che avrebbe caratterizzato l’etichetta, perennemente sull’orlo del fallimento eppure presentata come una potenza economica, Pavitt annunciò la nascita di “un conglomerato multinazionale nel Pacific Northwest”. Il disco, che conteneva brani di Sonic Youth, Wipers, Scratch Acid, U-Men, Steve Fisk e altri, esaurì la prima tiratura di 5 mila copie in un solo mese. La mossa successiva sarebbe stata la pubblicazione dell’album di un singolo gruppo, ma per quello ci volle l’aiuto di Poneman.
Originario dell’Ohio, Jonathan frequentava l’Università di Washington, aveva uno show presso la Kcmu dedicato ai gruppi locali, organizzava i concerti del martedì sera alla Rainbow Tavern. Fu in quel locale che una sera vide esibirsi i Soundgarden: “Rappresentavano tutto ciò che la musica rock dovrebbe essere”, avrebbe scritto anni dopo. “Erano molto immediati, parecchio grezzi, molto intensi, e completamente sfacciati. Non avevano alcuna pretesa artistica, ti arrivavano dritti in faccia”. Il chitarrista Kim Thayil, anch’egli incidentalmente deejay alla Kcmu, suggerì di coinvolgere Pavitt: uno aveva i soldi e la volontà di mettere sotto contratto il gruppo, l’altro stava avviando un’etichetta discografica e aveva accumulato un po’ di esperienza. Con un versamento di 19 mila dollari Poneman divenne prima padrino dei Soundgarden presso l’etichetta, poi socio di Pavitt. Se Bruce era il talento visionario che si occupava del lato artistico, Jonathan era quello che si occupava degli affari, dei contratti, delle cifre, dei soldi. Il Sub e il Pop, l’underground e il mainstream. Le loro personalità erano divergenti tanto quanto lo erano stati un tempo i generi musicali che il grunge stava unendo: il metal e il punk. “Alla nascita della scena” dice oggi Jon “concorse senza dubbio il fatto che Seattle ospitava l’Università di Washington, con migliaia e migliaia di studenti e soprattutto la radio Kcmu, che è poi diventata Kexp. Era un punto di snodo importante: non si limitava a trasmettere musica rock locale, era anche il posto dove molti musicisti, deejay e futuri discografici finivano per incontrarsi. Un altro fattore che concorse alla nascita della scena era la presenza di alcuni piccoli club accessibili a persone di ogni età come il Metropolis e il Gorilla Gardens: fornivano alle band la
possibilità di suonare. Mettici anche il fattore isolamento e avrai il risultato: i gruppi di Seattle finirono per influenzarsi l’uno con l’altro al posto di venire condizionati da quel che proveniva da Londra o New York”. Per dirla con Tad Doyle, “non c’era competizione, ci si aiutava l’un l’altro”.
La strategia della Sub Pop prevedeva la creazione di uno stile sonoro che fosse riconoscibile, unico. Uno stile che esprimesse l’emergente spirito dei tempi. Trovarono una sponda nel produttore Jack Endino, l’inventore del suono potente e distorto noto come grunge, sintesi del rock anni 70 e dell’energia del punk d’inizio 80. Tra le mura del suo studio, il Reciprocal, fu coniato il sound grezzo, pesante e slabbrato che ha reso celebre la città. Nacque in funzione dei mezzi a disposizione – non studi di registrazione all’avanguardia, ma sale modeste dai costi abbordabili per i gruppi locali – e fu il prodotto di una precisa scelta produttiva. Lavorare con un’attrezzatura limitata portava i musicisti a investire nell’espressività e nella creatività. In un certo senso, spiega Hanzsek, il grunge è stato il canto del cigno della registrazione analogica. “Non potendo indulgere in strati di registrazioni” aggiunge Endino “i gruppi erano spinti a dare il meglio sul momento, a offrire una performance eccellente subito, immediatamente, ora. Creavo suoni sciatti e grungy perché io stesso suonavo così. Registrai centinaia di band in quel modo. Ciò che in un primo tempo sembrava orribile era diventato uno standard”. Nasceva una nuova estetica sonora, antitesi della magniloquenza artefatta di molto rock dell’epoca. Un punto di svolta importante avvenne quando i Melvins, fino a quel momento noti per lo stile frenetico, decisero di rallentare i riff infrangendo la regola non scritta secondo cui veloce equivale a potente. Importanti per la scena ma solo tangenziali ad essa, e spesso critici verso la cricca Sub Pop, i Melvins ebbero un altro merito: alterarono l’accordatura standard della chitarra elettrica. Kim Thayil dei Soundgarden imparò a farlo proprio da Buzz Osbourne dei Melvins: fu quest’ultimo a suggerire di abbassare la corda più bassa da Mi a Re. L’accordatura aprì nuovi orizzonti creando un suono da mal di testa che non era espressione di potenza, o per lo meno non lo era nella maniera appariscente tipica del metal. Era il suono di un malessere amplificato da un senso di minaccia che accomunava molti gruppi locali dell’epoca. Agli occhi di parte dell’intellighenzia alternativa dell’epoca, la presenza di un forte elemento metal nel grunge parve un pericoloso scivolamento verso il rock dozzinale. “Tieni conto” spiega oggi Poneman “che l’area di Seattle è sempre stata un terreno di conquista per il metal. La leggenda racconta che fu la Kaos da sola a far sì che gli AC/DC sfondassero negli Stati Uniti. Non so se sia vero, ma è un buon esempio per comprendere che da noi c’è sempre stato un pubblico formidabile per il metal e l’hard rock, specie tra i ragazzi cresciuti in periferia. D’altra parte, in città c’era interesse per gruppi off con una bizzarra sensibilità psichedelica come Butthole Surfers e Scratch Acid, e per gruppi punk e hardcore della Sst come i Black Flag che per noialtri di Seattle furono una vera rivelazione. E poi tutta una serie di gruppi che ora sono note a piè pagina, ma all’epoca erano parecchio suonati da Kcmu. È da questo mosaico d’influenze che nasce il sound di Seattle come lo conosciamo oggi”.
Dopo anni in cui l’hard rock era diventa-
to uno spettacolo a base di tette e borchie, una festa popolata da groupie vogliose e ragazzi dal quoziente d’intelligenza sotto il 60, una pattuglia di gruppi riuniti sotto l’etichetta grunge stava ristabilendo vigore, sincerità, verità e, perché no, un minimo d’intelligenza e sarcasmo. Stilisticamente era una restaurazione bell’e buona. Doyle ricorda con orgoglio che “la musica era al centro di tutto, era la cosa più importante. Non si trattava di avere un bell’aspetto o di essere eccentrici. Eravamo tizi assolutamente normali che facevano musica e la suonavano con grande passione. Niente costumi, light show, groupie. E certamente questo modo di pensare era frutto della cultura punk-rock”.
Lo stile Sub Pop doveva essere unico anche dal punto di vista visivo. Le fotografie promozionali e la grafica delle copertine dei dischi dovevano esprimere non solo la natura del gruppo, ma anche quella dell’etichetta. Nella mente di Pavitt e Poneman il catalogo della casa discografica non doveva essere un elenco di artisti messi sotto contratto nella speranza di realizzare buone vendite, ma doveva evocare un mondo. L’avevano imparato osservando la strategia della Motown: acquistavi un disco dell’etichetta di Detroit e sapevi perfettamente che cosa aspettarti. Così come Endino sviluppò il suono Sub Pop, il fotografo Charles Peterson ne stabilì i canoni visivi. Le sue foto scattate in concerto in un bianco e nero dai contorni volutamente indistinti (il termine inglese appropriato è blurry) al fine di enfatizzare i movimenti dei musicisti sul palco sono una vivida testimonianza della scena di Seattle e trasmettono il senso di eccitazione e di caos che aleggia in una sala che ospita un concerto rock. Le sue fotografie non trasfigurano i musicisti in semidei irraggiungibili, ma tendono ad accentuare il carattere dinamico delle esibizioni. Peterson ricorda perfettamente quel passaggio cruciale: “Fu Bruce a capire che per lanciare quel tipo di musica era necessario sviluppare anche un lato visivo. Si chiese: come faccio a trasformare in un successo l’etichetta discografica che ha sede nella stanza da letto che condivido con un amico? Devo offrire qualcosa di speciale”. Pavitt decise inoltre di stampare i primi singoli ed extended play su vinile colorato e in edizione limitata, una strategia volta a trasformarli in feticci destinati ad essere preda dei collezionisti. La fidelizzazione del pubblico sarebbe avvenuta anche attraverso il Singles Club, una sottoscrizione che assicurava all’etichetta un’entrata immediata e permetteva ai sottoscrittori di ricevere a casa un 45 giri al mese appositamente incisi e stampati.
L’unione tra Pavitt e Poneman fu formalizzata il 1° aprile del 1988. A quel punto il capitale della Sub Pop ammontava a 43mila dollari provenienti in parte da Jonathan e in parte da prestiti di varia natura. Per dedicarsi all’etichetta i due lasciarono le rispettive occupazioni. Il sogno di Pavitt, per metà serissimo e per metà ironico, si stava trasformando gradualmente in realtà. Dopo una lunga gavetta e grazie alla complicità della stampa inglese – per invitare a Seattle il giornalista del Melody Maker Everett True fu speso un capitale – i gruppi locali ottennero finalmente l’attenzione che meritavano. Col successo della scena, arrivarono i primi equivoci. Al posto di indicare lo stile Sub Pop, grunge divenne un’etichetta omnicomprensiva che indicava ora tutti i gruppi rock di Seattle, ora il rock alternativo chitarristico tour court, proveniente da ogni angolo del globo. Un altro fraintendimento venne creato da chi prese alla lettera la campagna promozionale di Pavitt e Poneman. Per rendere più interessanti i loro gruppi, i due traslarono sul grunge l’immaginario storico di Seattle, una città fiorita sul commercio del legname e immersa in un panorama naturale straordinariamente bello, ma per certi versi inquietante – un fatto evidenziato da David Lynch, che volle ambientare Twin Peaks nel Nordovest. Prosperava il mito che i musicisti grunge fossero taglialegna analfabeti, quando invece erano ragazzi svegli e acculturati, probabilmente più di chi scriveva di loro. Steve Turner dei Mudhoney ricorda la delusione dei giornalisti inglesi quando scoprirono che aveva frequentato il college. Oltre a non essere incolti, i musicisti di Seattle erano ormai trentenni. Quando fu invitato al talk show Sassy, Poneman ricevette una richiesta bizzarra: doveva barare sull’età, i suoi 31 anni erano considerati troppi. I teenager non dovevano avere la sensazione di ascoltare musica fatta da una generazione diversa dalla loro. Infine, a causa di alcuni fatti rilevanti e di certe canzoni, in particolare la tragica vicenda di Kurt Cobain e il repertorio degli Alice In Chains che era un lungo rosario d’afflizioni, grunge divenne sinonimo di depressione, quando invece era originariamente un’affermazione di vitalità e un mezzo di divertimento sfrenato. Secondo Poneman, “l’associazione grunge-depressione è nata probabilmente dalle condizioni meteorologiche di quassù e dalla diffusione di narcotici – e quando dico narcotici non intendo solo l’eroina – che va oltre la scena musicale e che riguarda tutto il Pacific Northwest. Per quel che mi riguarda, ho sempre pensato al grunge come a una musica festosa e vitale. Ovviamente ci sono musicisti che hanno scritto testi e musiche cupe che esprimevano la lotta per trovare il proprio posto nel mondo”. Tad pensa che “l’immagine del grunge come musica triste fatta da depressi per una generazione di idioti scansafatiche sia stata creata da gente che a Seattle in quel periodo non c’era e quindi non sa. Anche nella nostra musica c’erano temi pesanti: riflettevano i tempi in cui vivevamo, così come prima di noi altri musicisti avevano interpretato i loro, di tempi”. Mark Arm taglio corto: “Depressi? Non c’interessava scrivere canzoni tristi. Volevamo metterci un po’ di umorismo nero e devastarci. Con ogni mezzo necessario”.
In ogni caso, il successo della musica rock finì per riflettere quello della città: l’ascesa del grunge s’accompagnò e anticipò quella di Microsoft, Adobe, Amazon, cambiando il profilo di Seattle. “Fu un processo lento e continuo” ricorda Peterson “durante il quale la nostra famiglia crebbe in grandezza. Eravamo sbalorditi perché musicisti come i Sonic Youth, cui avevamo guardato da lontano e con ammirazione, improvvisamente erano nostri pari. Ecco, quando altri musicisti cominciarono a considerare interessante la musica della nostra città ci rendemmo conto che stavamo producendo qual-
cosa di unico. All’improvviso non si trattava più di 50 dei tuoi migliori amici, ma di 500 persone, poi di 5mila fan. Fu un cambiamento destabilizzante. Era finita una cosa e ne stava iniziando un’altra”.
Nel giro di pochi anni i Soundgarden firmarono con la A&M, i Nirvana con la Geffen, i Mudhoney con la Reprise, i Tad con la Warner. Perennemente sull’orlo della bancarotta – e in seguito salvata solo dall’inatteso boom di Nevermind su cui percepiva una percentuale – la Sub Pop non poteva più dare le minime garanzie economiche di cui le band avevano bisogno. La scena era cresciuta, ma non riusciva a crescere tutta insieme. Oltre ad essere un brutto colpo per Pavitt e Poneman, che vedevano svanire la comunità che avevano costruito e si sentivano in qualche modo traditi dagli amici, le defezioni lasciarono la Sub Pop in crisi d’identità. Nel 1995 i due presero una decisione che contrastava coi principi fondanti dell’etichetta: vendettero il 49% della Sub Pop al colosso Time Warner. Si era chiuso un ciclo. Nonostante l’acquisizione, anzi proprio a causa di essa, le cose non fecero che peggiorare dal punto di vista delle politiche aziendali e dei rapporti interni. Nel 1996 il sempre più disilluso Pavitt lasciò interamente a Poneman la gestione dell’etichetta che sembrava avere smarrito il senso missionario che l’aveva animata agli esordi. Era andata anche l’illusione di essere sì all’interno di una major, ma di esserlo in modo diverso. Nel 1998 la Sub Pop era gestita da impiegati demotivati, buttava al vento un sacco di soldi, era legata a band insoddisfatte, realizzava vendite modeste. “Giocavamo fuori casa” rammenta Jon. “Cercavamo di competere con le major senza esserlo. Non eravamo più noi”. Il ritorno di Megan Jasper, membro dello staff dal 1989, s’accompagnò a una ridefinizione dei metodi e delle strategie. L’emergere di nuovi gruppi indipendenti, anche nel Nordovest, aggiunse un nuovo sapore al catalogo. I successi commerciali di Hot Hot Heat, Shins e Postal Service (la loro Such Great Heights è stata scaricata gratuitamente 11.655.300 volte) hanno ridato energia all’etichetta negli anni Duemila. Oggi la Sub Pop dà lavoro a una trentina di impiegati e ha un catalogo straordinariamente diversificato e moderno, che va dall’electro rock delle brasiliane CSS all’acid rock dei californiani Comets On Fire, dal cantautorato di Iron & Wine al garage punk dei Mudhoney, che sono tornati per così dire a casa. Ha finalmente implementato una politica economicamente più razionale e tagliato gli sprechi. Può dirsi a buon diritto una delle etichette indipendenti più vivaci al mondo e ha centrato alcuni dei risultati migliori di recente: il disco Sub Pop che ha raggiunto la posizione più alta nella classifica americana non è dei Nirvana, ma degli Shins (Wincing The Night Away, secondo posto nel 2007) e cinque dei suoi sei album più venduti sono stati pubblicati dopo il 2001 (il best seller è pur sempre Bleach). Il suo celebre logo resta però legato alla stagione a cavallo tra anni 80 e 90, e delle quasi 800 pubblicazioni le più pesanti dal punto di vista dell’impatto culturale sono quelle grunge. Poneman si dice “ancora convinto che le scene locali originali possiedano una vitalità artistica particolare, ma mi rendo conto che la Rete ha creato una comunità musicale mondiale. L’accesso alle informazioni è talmente facile e immediata che un carattere locale originale viene immediatamente proiettato a livello globale. Alla nostra scena ci vollero anni e anni per crescere e per ottenere un riconoscimento a livello internazionale: non credo che oggi potrebbe accadere. Non dico che sia meglio o peggio. Dico che viviamo in un mondo differente”.
Nel 2002, grazie allo sforzo congiunto di varie organizzazioni locali tra cui Jampac di cui faceva parte Krist Novoselic, la Teen Dance Ordinance è stata abrogata. Alcuni volontari hanno creato in città il Vera Project, un’organizzazione che crea spazi e occasioni d’aggregazione per musicisti giovanissimi nell’ottica di una cultura partecipativa. Uno degli ultimi gruppi usciti da Seattle si chiama Stoosh. Quando nel 2004 pubblicarono il loro primo album, la cantante e chitarrista Asya aveva 12 anni, la batterista Chloe solo 10. A nessuno salterebbe in mente di controllare se si mettono a ballare.