C’era attesa per la prima volta di Richard Thompson a Milano. A colmarla ci ha pensato la rassegna Suoni & Visioni che l’ha proposto in quartetto con Danny Thompson (ex Pentangle) al contrabbasso, Michael Jerome, autentico talento alla batteria, e Pete Zorn, polistrumentista con particolare propensione ai fiati e alla chitarra. Un’ora e mezza senza intervallo per un concerto entusiasmante che ha dimostrato tutto il valore di Thompson e della sua band. Il piglio della performance è in gran parte elettrico, ma sarebbe un errore rifarsi al folk-rock del periodo revival di quasi quarant’anni fa per rappresentarlo. Anche se già allora i Fairport Convention, di cui Thompson è stato uno dei fondatori, cercavano un allargamento di stile e non di rado introiettavano valenze blues e jazz, ora il chitarrista sembra aver digerito tutto ciò che lo ha influenzato in questi anni ed elaborato uno stile personale che è difficile definire se non pensando a una sintesi davvero efficace di tutti quei mondi che in qualche modo lo hanno sfiorato. Sale sul palco con il suo ormai consueto basco nero e chitarra elettrica turchese a tracolla; non dimostra i suoi quasi sessant’anni (è nato nel 1949), il fisico è leggermente appesantito, ma è ancora tonico e scattante; le sue dita sono al massimo della forma e quando comincia a darsi da fare con la chitarra si capisce perché la rivista Rolling Stone lo abbia inserito tra i venti migliori esecutori di tutti i tempi. Non ci mette molto a stupire per la facilità con cui inizia a cimentarsi e per il piglio eclettico che lo contraddistingue: il suono è sempre perfetto e la chitarra si lancia schietta, senza esitazioni sulle orme del rock e del vecchio blues. Il repertorio pesca in gran parte nei brani del suo ultimo album Sweet Warrior, uscito un anno fa, ma certo non disdegna quelli presenti nei suoi quasi quaranta lavori precedenti. Un ventaglio di grande potenza esecutiva che si placa solo quando inframmezza brani acustici in cui riappare il sapore della ballata e della tradizione. Sembrano comunque dimenticati i tempi in cui Richard si esibiva con la moglie Linda nel più puro repertorio popolare inglese, spesso con sola voce e chitarra acustica; dopo la separazione sembra essersi decisamente orientato verso esecuzioni di stampo elettrico che al momento gli danno forse la collocazione più consona. Colpiscono i fraseggi bluesy tiratissimi, da rock hero, che non hanno niente da invidiare alle fasi solistiche dei vari Clapton e Page se non, forse, per il minore controllo dello strumento, lanciato invece alle stelle nella più pura filosofia rock.
Il concerto comincia con Needle And Thread, prosegue con Bad Monkey, Take Care The Road You Choose, Dad’s Gonna Kill Me, I Still Dream, tra il tripudio del pubblico che non disdegna le richieste, per altro sempre negate con leggera smorfia di Thompson che evidentemente preferisce mantenere la propria scaletta. Tiene il palco con consumata abilità scherzando e buttando qua e là qualche frase in italiano, ma la chiacchiera non fa per lui e si lancia subito in nuovi pezzi: Hard On Me, Mingulay Boat Song, A Bone Through Her Nose e in alcuni casi con la band tiratissima sembra quasi emulare quelle formazioni sudiste a cavallo tra i 60 e i 70 che per prime ci stupirono con il rock-blues. In serbo ci sono ancora tre bis: Sunset Song, Mr. Stupid e Tear Stained Letter che finiscono di appagare il pubblico accorso numeroso fino a esaurimento posti. I commenti finali sono tutti entusiasti.