06/05/2008

YEAR LONG DISASTER

La vendetta dell’hard rock anni 70

Fu il padre a suggerirgli di passare dalla batteria alla chitarra. “Perché i chitarristi guadagnano meglio e si fanno più ragazze”. Papà qualcosa ne sapeva: è Dave Davies, fondatore e chitarrista dei Kinks, autore minore rispetto al fratello Ray, però inventore del formidabile riff di You Really Got Me. Il figlio, che di nome fa Daniel Davies e oggi ha 26 anni, ha imparato la lezione: s’è fatto crescere i capelli e non s’è più staccato dalla Gibson Les Paul. Uno s’immagina che abbia seguito le orme del padre, dandosi al brit rock. E invece ha snobbato i Kinks per ispirarsi ai Led Zeppelin. Lo fa col power trio di cui è leader, gli Year Long Disaster, nome che condivide col bassista dei Karma To Burn Rich Mullins e col batterista dei Third Eye Blind Brad Hargreaves, gente che sa suonare. Autore di un ep e ora di un album potente e assordante entrambi intitolati Year Long Disaster, il trio rimastica il rock di 35 anni fa. Il bello è che fa sembrare la cosa terribilmente figa. Nella loro musica ci sono tracce degli amati Zeppelin, del rock-blues inglese d’inizio anni 70, dei Cream e dei Free, del sound sudista degli ZZ Top, dei riff parossistici dei Queens Of The Stone Age, del suono roboante dei Soundgarden, il tutto condito da accelerazioni, cambi d’atmosfera, riff brucianti, assoli perennemente distorti. È hard rock che non si cura d’essere originale e che cerca di espandere i propri limiti puntando tutto sull’intensità della performance. È il suono di un aereo della British Airways che decolla, per parafrasare quel celebre discografico.

L’esistenza di Daniel Davies pare uscita da un film sul rock’n’roll. Se credessimo in quelle stupidaggini fataliste, diremmo che è un predestinato. Era troppo piccolo per la scuola materna e già il padre lo portava in tour coi Kinks, un assaggio precoce della vita sulla strada. Ha continuato a seguire papà Dave fino ai 9 anni d’età, sballottato tra bus, sale da concerto, aerei, camere d’albergo. Erano gli anni 80. Ma una vita normale, no? “Quella coi Kinks” dice oggi “era la vita normale per me: non ne conoscevo un’altra. Fu allora che capii che la strada era la mia casa”. A un certo punto Davies ha smesso di occuparsi dell’educazione del figlio. È accaduto quando ha divorziato dalla moglie. Per Daniel erano i tempi del liceo, la prima metà dei 90, la famiglia stava in California. Il chitarrista dei Kinks tornò in Inghilterra e il ragazzo fu mollato a vivere dal padrino a Los Angeles. In tasca aveva 76 centesimi di dollaro. Se non altro, il padrino non era uno qualunque, ma John Carpenter, regista di Halloween e 1997: Fuga da New York. A sua volta musicista e autore delle proprie colonne sonore, Carpenter trasmise al ragazzo l’amore per il rock sudista e in particolare per gli ZZ Top, che traspare dallo stile chitarristico di Daniel (e se cercate con attenzione, il nome di Davies appare tra i musicisti della colonna sonora del film del 1998 Vampires). “Papà disprezzava tutto quello che era americano: me lo teneva nascosto. Grazie a John mi si aprì un nuovo mondo. Avevo 13 anni e sentire tutte quelle canzoni sul sesso, cazzo, fu una rivelazione. E poi quel sentimento di verità… non so come spiegartelo, ma il southern rock per me ha sempre rappresentato la musica dell’onestà. Con John stavamo a Marin County, nella California del nord. Erano i tempi del film Villaggio dei dannati. Lui mi ha insegnato un sacco di cose non solo sul cinema, ma anche sulla musica e sull’arte in genere. Mi ha insegnato quali sono i meccanismi che nel cinema spingono la gente a reagire: in qualche modo ho cercato di applicare lo stesso principio alla musica. Mi ha sempre incoraggiato, senza condiscendenza: il bello di avere una famiglia allargata con tanti artisti è che puoi avere da loro un punto di vista sull’arte che sia onesto e non di circostanza”.
“Ho iniziato a suonare il giorno in cui ho compiuto 14 anni” continua Daniel “quando mi fu regalata la prima chitarra. Non mi piaceva granché la musica che andava di moda allora. I miei amici ascoltavano Cure e Nine Inch Nails, io Stones e Led Zeppelin. Poi mi sono accorto che i gruppi che amavo avevano preso le idee da vecchi bluesmen come Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Buddy Guy, e allora sono andato ad ascoltarmeli, per andare alla fonte. Ero un ragazzino che ascolta blues, non avevo tempo per la musica commerciale. Quando ascolti il blues cominci a pensare che la musica non debba essere complicata dal punto di vista tecnico, ma impegnativa sul lato espressivo. Sono tre accordi, ma quei tre accordi sono straordinari”. Mai avuto la sensazione di essere fuori moda e fuori posto a causa della musica che ascoltava? “Sai, non sono mai stato un ragazzo figo. Mi sentivo figo solo quando ero in camera da solo, con la chitarra in mano. Non avevo molti amici. Per due anni non ho detto a nessuno che smanettavo sulla chitarra: presente quei ragazzini che dicono di sapere suonare, ma fanno schifo? Non volevo essere uno di loro”.
La musica non era l’unica nuova esperienza che Daniel stava facendo. Iniziò a sperimentare con le droghe: prima la marijuana, qualche anno dopo l’eroina, infine il crack. A quel punto viveva a Los Angeles con un altro tossicodipendente, oggi manager dei Disaster: Sebastian Robertson, figlio del grande Robbie di The Band. La faccenda divenne drammatica nel 2003, un disastro lungo 12 mesi, un year long disaster. Daniel era un tossico in cerca di una bottiglia di vodka quando un giorno di aprile entrò in un negozietto di Hollywood. Lì incontrò Rich Mullins, a sua volta strafatto e senza una band. Mullins era stato tra i fondatori del gruppo stoner di seconda generazione dei Karma To Burn. Tempo una settimana e i due dividevano un appartamento a Laurel Canyon, la passione per l’alcol e la dipendenza dal crack. Suonavano assieme, sì, ma oggi non ricordano nemmeno più come: probabilmente in modo orribile. “La verità è che non riuscivo nemmeno più a suonare” ha detto Daniel. “Ce ne stavamo lì a sognare di avere una band, ma mica ci davamo da fare: passavamo il tempo a farci e a bere. Nelle nostre priorità la droga e l’alcol avevano sostituito la musica. Dovevamo liberarcene per riuscire ad avere una band”. Tempo un mese e i due bussavano alla porta di un centro di disintossicazione. Tempo altri sei mesi ed erano sobri. “Non sono d’accordo con chi dice che la buona arte nasce necessariamente dalla sofferenza” afferma oggi Davies ripensando a quel periodo. “Ma toccare il fondo m’è servito: se non fossi caduto tanto in basso forse non sarei risalito e oggi non sarei la persona che sono. Ma non è che per avere una vita decente devi fare come me e diventare tossico, alcolizzato, senzatetto e completamente al verde”. Nel 2004 i due s’imbatterono in Brad Hargreaves, che all’epoca suonava con gli Hours And Minutes: gli chiesero di unirsi a loro ignorando il fatto che il batterista aveva fatto parte dei Third Eye Blind, gruppo di rock alternativo che negli anni 90 aveva venduto qualcosa come 8 milioni di dischi. Né Daniel sapeva che i Third Eye Blind avevano recitato la parte dei Kinks in un programma tv della Nbc chiamato American Dreams. Evidentemente nessuno aveva avvisato Brad che i chitarristi guadagnano di più e si fanno più ragazze. “Meglio così” ridacchia Daniel. “La prima volta in cui abbiamo suonato assieme abbiamo capito che quella era la band. Non avevamo bisogno d’altro”.

Year Long Disaster è il risultato di queste esperienze. Prodotto da Jim Waters, scelto da Brad perché in grado di ottenere un gran bel suono di batteria e contattato da Daniel via email, l’album è stato inciso in Arizona. La differenza col primo ep è evidente in termini di maturità e compattezza, e anche di stile vocale: oggi Davies passa dal registro di Robert Plant a quello di Paul Rodgers e a quello di Chris Cornell. “Ai tempi del primo ep stavamo ancora cercando il nostro suono, e io la mia voce. Le canzoni però contenevano buoni spunti: li abbiamo ampliati e sviluppati, ecco perché trovi musiche simili con titoli differenti”. Year Long Disaster non è un disco originale, né tanto meno un capolavoro di scrittura. Ma ha un suono vivido e un’espressività carica. “Ho registrato quasi tutto con la mia Gibson Les Paul” dice Daniel quando gli chiedo del sound dell’album. “Solo in Destination ho usato una Telecaster con la leva del tremolo. Ho poi usato un delay, un pedale wah, un compressore. E un piccolo ampli della Gibson del 1958. Certe vecchie apparecchiature suonano meglio: hanno meno circuiti elettrici, ecco perché”. Daniel ci tiene a dire due cose: “Intanto non mi piace che lo si chiami retro rock. La musica non ha tempo, né età. O meglio, la buona musica non ha tempo. E poi, non credo sia necessario essere originale se riesci ad essere espressivo”. Lo si capisce subito, dall’attacco di Per qualche dollaro in più, un pezzo che richiama i Led Zeppelin e di conseguenza certe cose dei Soundgarden, e che nel testo racconta di un uomo (Davies?) che tratta malamente la sua donna. “Ha effettivamente il ritmo galoppante tipico degli Zeppelin: hai notato che non lo usa quasi più nessuno? Il titolo viene da un poster di Clint Eastwood che era appeso in camera mia. Il legame col film sta nell’idea che tutti devono pagare per quel che fanno, in un modo o nell’altro. Paga la ragazza, ma stanne certo, finirà per pagare anche il protagonista della canzone”. Non stupisce che un disco che si apre con la frase “Sai che solo malvagio” finisca per esplorare il lato oscuro della psiche. “È vero” conferma Daniel. “Scrivi di quel che conosci, delle tue esperienze e di quelle dei tuoi amici. Ma anche di fantasie sul mondo come in Cold Killer, ispirata a un film horror”.
Forse l’originalità dei Disaster sta nella capacità di Daniel Davies di rielaborare in modo artistico gli impulsi provenienti dal rock più brutale e meno intellettuale. “Penso che la musica sia una forma d’arte, anche se molti dei gruppi che ci piacciono e che hanno uno stile simile al nostro non sarebbero d’accordo. Credo dipenda da quello che sono, da come sono cresciuto. Se cerco ispirazione mi soffermo davanti a un dipinto, guardo un film, leggo un libro in grado di evocare un’emozione”. Lo si capisce dall’entusiasmo col quale racconta di essere andato nello studio di Ted Coconis, un celebre artista grafico che ha ceduto per la copertina di Year Long Disaster la farfalla psichedelica prodotta nel 1970 per la copertina del romanzo di Vladimir Nabokov Ada. “Lui sì che è un vero artista. Solo il fatto di entrare nella sua casa ed essere a contatto con tanta creatività è stata per me un’esperienza spirituale, una delle più intense della mia vita”.
Alla fine questo miscuglio di brutalità hard rock e slanci artistici è ben rappresentato da un pezzo intitolato Leda Atomica. Oltre ad essere la dimostrazione che Davies sa scrivere d’amore in modo non scontato, mette insieme un sound prepotente, un ritornello preso da una canzone di quasi quarant’anni fa e un riferimento alto, tre degli elementi chiave dei Disaster. “Il titolo viene dall’omonimo dipinto di Salvador Dalì che a sua volta si era ispirato alla poesia di Yeats Leda And The Swan (a sua volta ispirata al mito greco di Leda, la moglie del re di Sparta che Zeus mise incinta trasformandosi in cigno, nda): sono il mio pittore e il mio scrittore preferiti. Per me usare quel titolo significa mettere in connessione l’avvento dell’era atomica alla potenza di un rapporto sentimentale, di quelli in cui entri in connessione con l’altra persona senza nemmeno parlare. Lo so che il ritornello è piuttosto simile a quello di Gimme Shelter. Non m’interessa che qualcuno dica che copio gli Stones. Io ho sentito i loro dischi e posso dirti di per certo che anche loro hanno copiato un sacco di altre persone (ride, nda). E i Led Zeppelin, cazzo i Led Zeppelin l’hanno fatto ancora più spudoratamente. La cosa figa è che si sono impossessati di quel repertorio in maniera così personale da farlo proprio”.

Si finisce per parlare del padre. Daniel afferma che essere figlio-di non turba nessuno, “a meno di non trasformare la propria vita in un reality show”. A differenza di altri figli d’arte che si sentono schiacciati dai genitori, non ha problemi a parlare del padre e aggiunge che “forse ho scelto di suonare la chitarra per avere qualcosa in comune con lui, che mi aveva lasciato solo a Los Angeles tornandosene a vivere in Inghilterra”. Di certo Dave Davies non gli è stato di grande aiuto. “Ricordo una specie di lezione di chitarra. Lezione, poi… Gli chiesi: papà, come faccio a fare un assolo? E lui: metti le dita sulle corde e spera di azzeccare le note giuste, sì insomma, fai quello che ti piace. Fallo e basta, mi diceva quasi innervosito, fallo come ti viene. Beh, grazie tante papà, bell’insegnamento. Poi ho capito che aveva ragione. Voglio dire, non mi ha mai dato lezioni perché lui non è un chitarrista tecnico, uno di quelli che conosce i trucchi dello strumento”. Forse è anche per questo che Daniel non è esattamente un guitar hero… “Ma spero di essere un chitarrista espressivo. Il suono è importante tanto quanto le note. È una questione di sentimento, non di tecnica. Uso le mie conoscenze tecniche limitate per cercare di esprimere quel che sento attraverso la chitarra”. Altro fatto importante è la coesione della formazione: i tre suonano bene, ma soprattutto suonano bene assieme. “È per via di tutti i concerti e delle prove che abbiamo fatto. Mi sento bravo nella misura in cui loro due mi spalleggiano. Credo che quest’album sia un buon punto di partenza. Avevo bisogno di fare questo disco, di iniziare”. E domani? Succede che Daniel incontra Robbie Robertson, il padre del suo manager. E incontrandolo comincia a ragionare sulla propria scrittura. “Ho un immenso rispetto per The Band” dice. “E nel futuro vorrei seguire il loro esempio: meno riff e più canzoni. E nei testi mi concentrerò più sull’osservazione che sulle mie relazioni personali. Ho già scritto una buona metà del nuovo album. Vedrete”. Ma papà Dave, che dice? Ha sentito Year Long Disaster? “Gli è piaciuto e me l’ha detto a modo suo. Una e-mail di tre sole parole: it really rocks”.

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