È il 7 giugno 1988. Al Pavilion di Concord, California, è in programma un concerto di Bob Dylan, il primo di una lunga serie (40) che lo porterà a coprire buona parte degli Stati Uniti, toccando di sfuggita anche il Canada per terminare di nuovo in California. Girano voci che il tour proseguirà fino all’autunno, ma al momento non c’è niente di sicuro. Come da copione, quando si tratta di Dylan, nessuno sa esattamente cosa aspettarsi. Lui ha da sempre abituato il suo pubblico a improvvisi e spesso inaspettati cambiamenti di rotta, geniali, discutibili o trascurabili che fossero.
Stavolta però l’incertezza è più palpabile e l’attesa più spasmodica. Dylan inizia un nuovo tour e, a differenza degli ultimi tre, non trapela alcuna anticipazione. Quali musicisti lo accompagneranno? Che formato avrebbero avuto i concerti? Niente di niente, zero assoluto. Eppure ultimamente ci ha abituati bene. Due pubblicizzatissimi tour con gli Heartbreakers di Tom Petty, intervallati da un breve ma altrettanto sbandierato tour coi Grateful Dead.
Dal fronte delle registrazioni di studio arrivano poche e alquanto vaghe indicazioni. L’ultimo album è Down In The Groove, discutibile mix di cover e brani originali, registrato nella primavera dell’87 ma presente nei negozi solo da un mese. E sempre un mese prima, Dylan si è trovato con quattro famosi amici a Los Angeles per registrare quello che sarà il primo album dei Traveling Wilburys, supergruppo nato quasi per caso nei primi mesi dell’anno. Ma anche riguardo a questo, le indiscrezioni che trapelano sono molto poche. E quando l’incertezza e il mistero crescono, fioriscono le illazioni e le voci. È un classico.
“Promuoverà le canzoni di Down In The Groove, che non è che stia vendendo granchè..”.
“Ma dai, sarà un tour di greatest hits, già l’album nuovo va malino, se poi si mette a farlo anche dal vivo…”.
“Qualunque cosa suoni, avrà le solite coriste e una band numerosa, magari con innesti dai Dead o gli Heartbreakers…”.
E via fantasticando. In fondo è una delle cose che più piace ai fan di Dylan i quali, abituati alla sua proverbiale riservatezza e alla conseguente penuria di notizie, si divertono a elaborare le teorie più improbabili sulle sue mosse future. Il che fa crescere l’attesa e la rende ancora più eccitante.
I fan ancora non lo sanno, ma stavolta Dylan li sta per sorprendere in grande stile. E non dovranno nemmeno aspettare molto, perché li colpirà subito, a freddo, e i colpi arriveranno da più parti, senza lasciar loro il tempo di pensare. Quando Dylan si presenta su quel palco a Concord nessuno è in grado di riconoscere il brano di apertura dagli accordi introduttivi eseguiti da quello sconosciuto chitarrista al suo fianco.
C’è chi scruta il palco chiedendosi perché inizino a suonare prima che la band sia schierata al completo, chi si chiede chi sia quel chitarrista dalla fluente chioma bionda e cosa diavolo siano quei due semplici accordi che escono furiosi e scarni dalla sua chitarra. Che canzone è mai questa? Quello che non sanno, ma capiranno ovviamente molto presto, è che quei musicisti sul palco non aspettano nessun altro, sono solo loro che fanno lo show, un chitarrista, un bassista e un batterista oltre naturalmente il loro frontman.
Che canzone stiano suonando, lo capiranno solo quando Dylan avvicinerà la bocca al microfono e con voce secca e aggressiva attaccherà con “Johnny’s in the basement, mixin’ up the medicine….”. Cosa? Subterranean Homesick Blues?
Eh già, proprio quella, la canzone di apertura di Bringing It All Back Home, del 1965. Mai eseguita dal vivo in 23 anni. “Something is happening here but you don’t know what it is…” canta Dylan. Niente di più vero. E questo è niente, il meglio deve ancora venire.
Benvenuti al Never Ending Tour. Prima di tutto, una precisazione. È stato lo stesso Dylan a coniare il termine Never Ending Tour. Nel 1989, al giornalista Adrian Deevoy, il quale gli faceva notare che sembrava non esserci di fatto soluzione di continuità tra gli ultimi tour, Dylan dice: “Oh, sono tutti lo stesso tour, il Never Ending Tour”. Avesse immaginato che con quell’uscita avrebbe marchiato a fuoco, suo malgrado, tutti i concerti che seguiranno, fino ai giorni nostri, probabilmente avrebbe risposto in modo diverso. Già, perché per i fan, il Never Ending Tour è sì cominciato quel giorno a Concord, ma continua tuttora, pur con attori, canzoni e stili diversi. Normale, direte voi, in fondo è implicito nella definizione. Perché chiamare “never ending” qualcosa che, iniziato oggi, si suppone debba finire di lì a poco? E in effetti, il Never Ending Tour (NET, per semplicità) di fatto è ancora in vita. Non per Dylan, però, che nelle note di copertina dell’album World Gone Wrong, nel 1993, invita a non farsi “abbindolare da questa cosa del NET. C’è stato in effetti un NET, ma è finito nel 1991, con la partenza del chitarrista G.E. Smith (ricordate il chitarrista dalla fluente chioma bionda? nda). È finito da tempo, ma da allora ce ne sono stai molti altri”. E di seguito snocciola una serie di divertenti quanto improbabili nomi per i tour seguenti.
Al di là delle etichette più o meno ufficiali, i numeri parlano chiaro: in 16 anni e mezzo, da quel concerto di Concord nell’88 a tutto il 2004, i concerti di Dylan ammontano a 1699, grosso modo una media di 100 concerti l’anno. Poche pause, normalmente una manciata di settimane l’anno, giusto per ricaricare le pile in vista del prossimo tour o, molto più raramente, per registrare un album, e poi di nuovo on the road, “headin’ for another joint”, che sia una grande arena o una fiera locale poco importa. Come nella tradizione dei medicine shows americani, Dylan e la sua band del momento portano il loro spettacolo ovunque: “Venite a vederci, suoniamo sempre da qualche parte” aveva detto Dylan, e in quella semplice frase c’era un po’ l’essenza di tutto il NET, ma era anche un modo come un altro per demitizzare le sue apparizioni live, svuotandole del senso di ‘evento’ di cui erano sempre state cariche.
Se ti chiami Bob Dylan e in un certo posto vai a suonare una volta ogni cinque anni, non c’è modo di fuggire alla celebrazione dell’‘evento’. Se invece ci suoni una volta l’anno, a volte addirittura più volte in un anno, diventa quasi un’abitudine per chi viene a sentirti e hai maggiori chance di essere considerato più per quello che stai facendo che per il nome che porti. Alcuni passaggi di Chronicles, l’autobiografia di Dylan di recente pubblicazione, sono alquanto rivelatori in questo senso: “…Volevo fare duecento concerti l’anno successivo (1988, nda)… e sentivo il bisogno di programmare lo stesso numero di concerti, nelle stesse città, l’anno seguente e anche l’anno dopo. Pensai che mi ci sarebbero voluti tre anni per arrivare al punto d’inizio, per trovare il giusto pubblico, o perché il giusto pubblico trovasse me. Avevo decisamente bisogno di un nuovo pubblico perché quello che avevo all’epoca era grosso modo cresciuto coi miei dischi e non c’era più possibilità che mi accettasse come un artista nuovo. Venivano per ammirare, non per partecipare…”.
Se un nuovo pubblico era ciò cui Dylan mirava all’inizio del NET, a distanza di undici anni sembrava che lo scopo fosse raggiunto. In un’intervista del 1999, Dylan infatti così dichiarava: “Il mio pubblico sembra essere più vivo adesso rispetto a dieci anni fa. Reagiscono immediatamente a quello che faccio e non vengono con un sacco di idee preconcette riguardo a chi vorrebbero che io fossi o chi pensano che io sia. Mentre alcuni anni fa non reagivano così velocemente. Sembra che stiamo attirando un nuovo pubblico, non solo quelli che mi conoscono come una figura predominante o una specie di portavoce generazionale. Non ho più bisogno di confrontarmi con quella roba, ammeso che l’abbia mai fatto…”.
Insomma, a un certo punto della sua già lunga e movimentata carriera Dylan decide di essere un performer più che qualsiasi altra cosa, di creare musica su un palcoscenico, re-inventarla, plasmarla, riscriverla. Questo, in fondo, si suppone debba fare un musicista, no? Tanto più se quel musicista non ha mai particolarmente amato le inevitabili costrizioni dello studio di registrazione ed è oltretutto convinto che “di canzoni ce ne sono fin troppe, il mondo non ne ha bisogno di nuove”.
Certo la vita on the road, per quanto gratificante, può diventare massacrante e insopportabile, soprattutto ai ritmi cui Dylan ha deciso di affrontarla in tutti questi anni. Arene, alberghi, bus, le stesse canzoni (o quasi) suonate mille volte. Da fuori può sembrare eccitante, ma non lo è poi tanto per chi lo vive. E ti può distruggere, fisicamente e nella testa.
La differenza è che se ce l’hai “dentro”, la strada non ti distrugge. Ti può consumare o annoiare ma non ti avrà mai. E che Dylan ce l’avesse (e ce l’abbia) dentro, non si discute. Nel ‘97, a quasi dieci anni dall’inizio del NET, dichiara: “A molta gente la strada non piace, ma per me è una cosa naturale, come respirare. Lo faccio perché mi sento spinto a farlo. È una specie di odio-amore. Mi sento mortificato a essere su un palcoscenico, ma al tempo stesso è l’unico posto dove sono felice. È l’unico posto dove posso essere chi voglio essere. Non posso essere chi voglio nella vita di tutti giorni. Non importa chi sei, la vita quotidiana ti deluderà. E la cura, per me, è salire sul palco. Ed è il motivo per cui tutti i performers lo fanno”.
Il palco diventa dunque, per Dylan, un luogo e insieme un mezzo di espressione artistica. L’unico per di più, o quasi. Si, perché da quando il NET ha visto la luce nell’88, Dylan ha pubblicato quattro album di canzoni originali in 16 anni. Un po’ pochino, per un artista che, tanto per dire, nei precedenti 16 anni di album ne aveva pubblicati 12 (live e raccolte varie esclusi).
È un aspetto interessante, questo, perché, a ben vedere, impone una rivisitazione dei parametri di valutazione di un artista musicale, che hanno sempre avuto i dischi come unità di misura principale. Tutti gli artisti sono passati attraverso ‘fasi’ o ‘periodi’ diversi, normalmente scanditi e messi in evidenza dagli album che producevano. Ma se un artista decide di mettere sei anni tra un disco e il successivo, diventa arduo contare solo su quei dischi per capire se e come la sua arte si sia trasformata, quali strade abbia intrapreso.
Nel caso di Dylan, il problema si pone eccome. Tra Under The Red Sky del ‘90 (o se proprio volete, World Gone Wrong del ’93) e Time Out Of Mind del ’97 la sua vita artistica ha avuto trasformazioni enormi, ma le trascureremmo quasi tutte se ci limitassimo all’ascolto di quegli album. Non c’è niente da fare, se ci interessa sapere cosa ha fatto, quali ‘fasi’ artistiche abbia attraversato, cosa sia stato Dylan in quegli anni, non abbiamo altra scelta che ascoltare i concerti di quel periodo, perché è attraverso quelli che si è espresso, e niente altro.
Fasi, o se si vuole, momenti espressivi diversi sono evidenti anche a una superficiale analisi del NET, dal suo inizio fino ai giorni nostri. Pur con le dovute eccezioni, si può affermare che vi siano degli anni che hanno segnato un solco ben preciso, definendo uno stile e un approccio, musicale e vocale, che hanno caratterizzato gli anni immediatamente seguenti, fino al successivo cambiamento.
Torniamo per un attimo al nostro concerto di Concord, in quella tarda primavera dell’88. Lo spettacolo, pur nella sua brevità (tredici canzoni in settanta minuti di esibizione), traccia numerosi solchi e lascia un segno importante per molti motivi. La band e il sound, innanzitutto.
Dylan si presenta sul palco con il minor numero di musicisti che lo abbiano mai accompagnato dal vivo, solo tre. Niente più tastiere, niente più coriste o anche solo un’altra chitarra. Il sound, gioco forza, è scarno, essenziale ma di assoluto impatto, duro, sferzante. L’88 verrà non a caso ricordato come il periodo punk di Dylan. Definizione un po’ esagerata, se si vuole, ma nondimeno efficace nel sintetizzare la potenza, la ruvidezza e l’immediatezza del suono prodotto dalla band, sporco e diretto. Che Dylan sia alla ricerca di nuove forme espressive è altresì evidente dal suo approccio vocale aggressivo e sopra le righe, per niente ortodosso.
Che ci sia aria di svolta è evidente anche dalla scelta delle canzoni, di questo come dei concerti successivi. Quattro brani mai eseguiti prima (di fatto cinque, se si considera che Man Of Constant Sorrow non veniva eseguita dal 1961) in un anno che alla fine vedrà complessivamente tredici debutti live. A ulteriore riprova poi del mutato approccio live di Dylan, le canzoni acustiche, da sempre territorio inviolato della sua sola chitarra, vengono ora eseguita con l’accompagnamento del chitarrista di turno. Come se tutto ciò non bastasse, il concerto di Concord lascia presagire quella che sarà una delle tendenze più peculiari di tutto il NET e di alcuni suoi periodi in modo particolare, ossia il deciso ricorso alle cover, all’inizio perlopiù brani folk tradizionali. Ben sei saranno eseguite nel corso dell’88, a tutto il 2004 saranno circa duecento.
E non è certo un caso che, nel momento in cui decide di fare di sé stesso quasi esclusivamente un performer dando alla sua musica la veste più essenziale possibile, Dylan torni con devozione e amore alla musica delle sue radici, con la quale è cresciuto e si è formato e che ancora oggi, alle soglie del terzo millennio, considera il suo punto di riferimento artistico principale, se non l’unico. Una musica che viene dall’anima, semplice, ma al tempo stesso universale, autosufficiente perché nelle domande che pone ha già implicite le risposte. Dylan al riguardo è molto esplicito: “Quelle vecchie canzoni sono il mio lessico e il mio libro di preghiere. Tutto ciò in cui credo viene fuori da quelle canzoni, letteralmente, da Let Me Rest On that Peaceful Mountain a Keep the Sunny Side. Puoi trovarci tutta la mia filosofia, in quelle canzoni. Io credo in un Dio del tempo e dello spazio, ma se la gente mi chiede di spiegarlo, il mio istinto è di indirizzarla a quelle canzoni. Credo in Hank Williams che canta I Saw The Light. Anch’io ho visto la luce.”
Il sound essenziale e diretto, senza troppi fronzoli è ciò che contraddistingue senza dubbio i primi due anni del NET. Lo stile chitarrisitico duro, ma nondimeno incline ai virtuosisimi e stilisticamente impeccabile di G.E. Smith ne rappresenta l’indiscusso marchio di fabbrica. Dylan gli dà le chiavi del sound e lui lo plasma con personalità , peraltro non scevra da una buona dose di esibizionismo.
Certo, l’ardore e la potenza degli esordi finiranno per stemperarsi gradualmente. Questo succede già a partire dal 1989, anno in cui, nonostante gli arrangiamenti rimangano essenziali e ridotti all’osso, la resa si fa un po’ più morbida, meno spigolosa. Riascoltando adesso i concerti di quel periodo, si ha l’impressione che Dylan sia alla ricerca, una volta di più, di mezzi espressivi diversi, magari di un suono più ricco e profondo.
Da questo punto di vista, la prima vera svolta si palesa nella primavera del ‘90, quando Dylan decide che ad accompagnarlo nelle canzoni acustiche non sarà solo G.E. Smith alla chitarra, ma la band al completo. Il suono si fa decisamente più ricco. Ma è giusto sottolineare che da quel giorno (per la precisione il 29 maggio 1990 a Montreal), di fatto, le canzoni ‘acustiche’ nel senso più dylaniano del termine, scompaiono per sempre. A dire il vero, la classica, quasi stereotipata immagine di Dylan da solo sul palco accompagnato dalla sola chitarra acustica verrà riesumata alla fine dei concerti della prima parte del ’92, ma solo per qualche mese. Dopodiché, sarà andata per sempre.
Non c’è dubbio che la nuova veste delle canzoni acustiche sia nel complesso decisamente brillante. Standard storici come Desolation Row, It Ain’t Me Babe, Boots Of Spanish Leather, Girl From The North Country, Mr. Tambourine Man trovano nuove forme espressive, in cui la melodia, più ricca, non è più solo uno strumento a disposizione della voce di Dylan, ma ha vita e luce propria, sfumature, colori. E l’interpretazione ne trae sicuro giovamento, potendo spaziare su tappeti melodici diversi e più variegati.
Gli arrangiamenti elettrici, al contrario, rimangono sostanzialmente invariati e cominciano a soffrire un po’ di ripetitività. G.E. Smith, cui pure vanno riconosciuti enormi meriti nella creazione del ‘nuovo’ sound di Dylan, sembra non essere in grado di fare un passo avanti e proporre qualcosa di diverso dai soliti riff, ormai triti. La personalità e la tecnica ci sono sempre, naturalmente, ma l’impatto delle canzoni è meno forte.
G.E. lascia il gruppo alla fine del 1990, si dice a causa di un ormai logorato rapporto con Dylan (tra le altre cose, pare che il chitarrista abbia mal digerito l’esclusione dalle session di registrazione dell’album Oh Mercy dell’89).
Dopo un periodo di transizione in cui Dylan prova, dal vivo, diversi chitarristi (suoi tecnici del suono, perlopiù), all’inizio del 1991 pesca il jolly con John Jackson, uno sconosciuto chitarrista di Memphis che Dylan ha sentito per la prima volta a New York. Rimpiazzato anche Chris Parker, il batterista, con Ian Wallace, già con Dylan nel tour mondiale del ’78, il Dylan che alla fine di gennaio affronta il nuovo tour europeo appare decisamente svogliato, stanco e decisamente “stoned”. Bofonchia invece di cantare, rarissime sono le canzoni cui riesca ad offrire uno straccio di linea melodica con la voce, sembra un pugile sull’orlo del ko
Si apre qui la fase più buia del NET e di Dylan come performer, che lascia sulle spalle di Jackson quasi tutto il peso dello show. E per Jackson, quantomeno, è un’ottima gavetta. Col suo stile decisamente ispirato a Hendrix, meno virtuoso rispetto a G.E. Smith ma solidissimo e preciso, Jackson si fa in quattro per tappare i buchi provocati dalle imbarazzanti pause del cantante e riesce a dare un senso e una direzione a un live show che sembra immancabilmente diretto verso il disastro.
Nelle interviste, Jackson non fa che lodare lo stile chitarristico di Dylan (potrebbe fare altrimenti?), definendolo “originale” e “unico”. Vero, se per stile originale si intende un’accozzaglia di note e accordi vomitati più o meno a caso.
Per i più, questo è il segno che Dylan, a 50 anni, è ormai un “has-been”, una cosa del passato. Eppure, in questo marasma sonoro non mancano, per quanto rari, momenti di lucidità pura e di cristallina bellezza, soprattutto nei set acustici, segno che Dylan, forse, qualche riserva ancora ce l’ha. Il problema è capire se sa ancora come tirarla fuori. E soprattutto se lo vuole.
A ben guardare, il piano originale si poteva considerare realizzato, almeno nelle intenzioni. Dylan si era dato tre anni per ‘cambiare’ il suo pubblico e probabilmente, almeno in parte, aveva raggiunto il suo scopo. L’età media dei suoi fan si era decisamente abbassata nel corso degli ultimi tre anni e nonostante restassero, ovviamente, molti dei vecchi fan, questi probabilmente avevano imparato a seguirlo nel suo ‘new deal’ senza troppe idee preconcette; alcuni di loro, almeno.
In teoria, non c’era ragione di continuare l’attività concertistica ai ritmi degli ultimi anni, ma Dylan continua invece con la stessa intensità. Ciò che lo spinge a continuare non ha più niente a che fare con nessuna particolare strategia ma è, più probabilmente, la consapevolezza di aver definitivamente trovato sul palco la sua dimensione di artista ma anche, per sua stessa ammissione, una buona dose di assuefazione: “…C’è una parte di me che si è assuefatta ai concerti, non potrei farne a meno…”.
Le vicende del NET proseguono fino all’autunno del ‘92 senza scosse di rilievo. Dylan, a parte qualche segnale di genuino risveglio nel corso del tour australiano di marzo, continua a offrire esibizioni vocali tra l’imbarazzante e il dimenticabile e soprattutto sembra avere le idee poco chiare sull’indirizzo da dare alla propria musica dal vivo.
Viene ingaggiato un secondo batterista, l’ottimo Charlie Quintana, già con Dylan nella mitica esibizione al Late Show di Letterman dell’84. Entra poi a far parte del gruppo anche Bucky Baxter, già ospite durante alcuni concerti nel tour americano dell’89. La sua pedal steel certamente aggiunge qualcosa al suono della band. Nelle intenzioni, è probabilmente quel tocco di colore che difficilmente può venire dalla chitarra di Jackson e tantomeno da quella di Dylan. Quelle ‘nuances’ che arrichiscono il suono, lo rendono più rotondo e che solo una tastiera o, appunto, una pedal steel possono dare.
Quello che si presenta sui palcoscenici della East Coast, nell’autunno del ’92, è un Dylan diverso, più vivo e presente a sé stesso di quanto non lo sia stato negli ultimi 2 anni, magari non trascendentale, ma sicuramente più consapevole e voglioso. La voce, per quanto ancora strascicata e più nasale che mai (eredità di due anni di abusi) dimostra di saper ancora disegnare linee melodiche di tutto rispetto e di essere capace di timbri diversi.
Nasce, quell’autunno, una nuova fase del NET, forse la più importante, perché esprimerà, a livello ancora embrionale, tutti gli elementi che, giunti a maturazione, porteranno la carriera live di Dylan al suo picco assoluto, secondo forse solo a quello del 1965-66.
Sostenuto da una band solidissima, di cui fa parte ora anche un nuovo, ai più sconosciuto, batterista di Chicago, Winston Watson, dallo stile essenziale e preciso, anche se un pò rumoroso, Dylan non solo sembra trovare nuove energie e motivazioni ma soprattutto dà l’impressione di essere di nuovo in grado di incanalarle nel modo più appropriato al servizio del sound e dello show in generale. I suoi approcci vocali sono ancora alquanto ‘liberi’ ma la novità è che adesso hanno una direzione, una coerenza e un senso che sembravano ormai persi.
Ma la novità non sta solo nel suo approccio vocale. L’ascolto dei concerti dell’autunno del ‘92 rivela un Dylan insospettatamente incline a suonare le parti soliste alla chitarra. È un elemento totalmente nuovo, questo, per uno come Dylan che si era sempre e solo limitato a strimpellare le parti ritmiche. Tecnicamente, non è niente di eccezionale, intendiamoci. Serie di singole note suonate a ripetizione, a formare scale molto semplici e comunque sempre su una, al massimo due corde.
Nonostante questo, gli assoli sono in qualche modo ipnotizzanti, perché viscerali, istintivi, originali nella loro disarmante semplicità. E soprattutto, sempre più lunghi, al punto che le parti cantate all’interno delle canzoni sembrano diventare un semplice pretesto per interminabili, estenuanti jam. Dylan ha trovato una nuova dimensione live, evidentemente, ed è seriamente intenzionato a portarla all’estremo.
Nessuna canzone del tour europeo del ’93 dura meno di 7-8 minuti, con punte massime di 15. L’ascoltatore è messo indubbiamente a dura prova, ma è anche gratificato da un Dylan (finalmente) in grande spolvero dal punto di vista vocale e da una musica assolutamente esplosiva. Dura, ma meno sporca rispetto a quella degli esordi del NET, tecnicamente più curata ma pur sempre essenziale.
C’è un’alchimia particolare e sembra essere quella giusta. Lo stile aggressivo di Jackson sembra fondersi alla perfezione con il drumming di Watson, rumoroso ma mai fuori luogo. E la pedal steel di Baxter trova finalmente il suo spazio, dando profondità e spessore al suono.
Questa band funziona, è ‘giusta’, dimostra di saper vivere di luce propria, di avere una personalità, pur mettendosi al servizio delle canzoni di Dylan. Che dal nuovo ‘trattamento’ escono rinvigorite, rigenerate. Dal rock duro al più classico dei rock’n’roll, dal country al blues, non c’è niente che questa band non sappia fare alla perfezione, creando momenti e sfumature diversi all’interno dello stesso concerto. Le canzoni possono risultare stravolte ma mai snaturate, perchè questa band è sempre in grado, per dirla alla Dylan, di ‘riportarle a casa’. E Dylan stesso sembra esserne influenzato, dando la netta impressione di riuscire a trovare i giusti stimoli e motivazioni.
Placatosi, almeno in parte, il furore solistico del ’93, Dylan e la band raggiungono il perfetto assetto nel corso dei due anni successivi, di gran lunga i migliori di tutto il NET. Già, perché, non bastasse la band, (o per meglio dire, anche grazie ad essa) Dylan mostra in quei due anni un’espressività vocale di assoluta bellezza ed intensità.
È stato detto da più parti che una delle caratteristiche che hanno da sempre contraddistinto le performance di Dylan è la sua capacità e abilità di reinventare le sue canzoni, presentandole di volta in volta con vesti differenti, diversi approcci, stili. Tutto vero, basterebbe infatti confrontare, per una stessa canzone, le diverse versioni che Dylan ne ha fatto nel corso di tutta la sua carriera.
Ma a metà degli anni 90 Dylan fa molto di più, arrivando a reinventare le stesse canzoni sera dopo sera. Le scalette di questo periodo non brillano certo per varietà, ma questo diventa un dettaglio decisamente trascurabile. Lo schema è semplice: poche variazioni nella scelta delle canzoni, la band, ormai perfettamente rodata e a regime che le esegue a regola d’arte e Dylan che, con la voce, si diverte a dipingerle ogni sera di colori diversi, a volte cambiando solo le sfumature, altre volte rivedendo radicalmente la tonalità. Ascoltando i concerti di quel periodo si ha la netta impressione che, al momento di iniziare la canzone, Dylan si senta di fronte ad una tela completamente bianca, indipendentemente dal fatto che quella tela l’abbia magari colorata la sera prima, e mette tutto sé stesso e il suo talento nelle mani dell’ispirazione.
Operazione difficile perché richiede enorme coraggio e implica notevoli rischi. Ma Dylan lo fa, incondizionatamente. E cerca, oltretutto, di guidarla, quell’ispirazione, cercando nuovi spunti, esplorando, anche sbagliando, ma non pensa neanche per un attimo di ritornare sui suoi passi. Non per adesso, almeno.
L’espressione ‘stato di grazia’ è l’unica che può definire le performance vocali di Dylan del ’94-’95 sostenute, tra l’altro, da una voce di per sé brillantissima, capace di sorprendenti quanto repentini cambiamenti timbrici e in grado di sostenere con la massima disinvoltura anche le tonalità più alte.
Nessun disco, quand’anche Dylan ne avesse fatti, sarebbe stato in grado di portarci intatta tale bellezza.
Dopo sei anni di concerti pressoché ininterrotti, questo è il risultato. Avrebbe toccato ugualmente quelle vette, se la sua attività concertistica degli ultimi sei anni non fosse stata così frenetica? Non c’è modo di saperlo, ovviamente, ma tendo a credere che la risposta sia no. Stare costantemente sul palco gli ha permesso di sfruttarne tutte le potenzialità, imparando a discernere ciò che poteva conservare e ciò che poteva trascurare, affinando il suo approccio anno dopo anno, portandolo gradualmente a trovare il modo migliore e più efficace di esprimere la sua arte.
Poco o nulla, in tutto questo, era preordinato o in qualche modo programmato, ma pensare che vi sia stato un graduale, inevitabile processo di ‘affinazione’ mi sembra del tutto naturale.
Ma niente dura per sempre. Il ’96 vive di fatto sull’inerzia prodotta dai due anni precedenti. Il che è comunque abbastanza per farne un anno di tutto rispetto, soprattutto la prima metà, ma che la magia e l’ispirazione se ne stiano andando, è abbastanza evidente. Gli stessi equilibri in seno alla band sembrano scricchiolare. Winston Watson lascia il gruppo in agosto per lasciare il posto al decisamente più anonimo David Kemper.
Da parte sua John Jackson, decisamente sprecato nel ruolo di ritmico, sgomita per trovare nuovi, più gratificanti spazi ma Dylan non ci sente, ormai gli assoli sono il suo incontrastato territorio. La tensione giunge al culmine nel tour d’apertura del ‘97 in Giappone, dove gli episodi di insofferenza di Dylan nei confronti di J.J. non si contano. Qualcosa si è rotto, e quando verso la fine di marzo Jackson si presenta in studio alle prove per l’imminente tour americano, scopre non senza stupore di essere stato sostituito da un nuovo chitarrista.È il sigillo definitivo su un’era del NET.
Rispetto a un anno prima è cambiata l’ossatura portante della band, principale responsabile del sound prodotto negli ultimi tre anni, ossia la chitarra di Jackson e la batteria di Watson.
Il nuovo chitarrista, Larry Campbell, è un talentuoso quanto eclettico polistrumentista in grado di cimentarsi, oltre alla chitarra, al violino, bouzouki, pedal steel, mandolino, banjo, cittern e chissà cos’altro.
Grazie soprattutto a lui, il sound prodotto dalla band è efficace e piacevole, più intriso di venature country rispetto agli anni precedenti e nel complesso molto professionale, ma ascoltare uno di quei concerti è un po’ come fare un viaggio in autostrada. Si parte e si arriva sicuri ma senza troppe sorprese e l’esperienza, nel suo complesso, difficilmente è indimenticabile. Piacevole, forse, ma non memorabile.
Dylan sembra aver esaurito la vena di sperimentatore degli anni precedenti per puntare più marcatamente verso approcci vocali più sicuri e meno rischiosi. Difficile dire quanto di questa tendenza sia imputabile direttamente allo stesso Dylan e quanto invece ad una band evidentemente non in grado di solleticare e pungolare a dovere il suo leader. La risposta, come sempre, sta con tutta probabilità nel mezzo.
Ma, sia chiaro da subito, si stanno qui facendo le pulci ad un live show che rimane comunque, alla fine degli novanta, di assoluto rispetto. Man mano che la band guadagna confidenza e metabolizza i cambiamenti in corsa (nel ‘99 il chitarrista texano Charlie Sexton subentra a Bucky Baxter), il sound si fa via via più convincente e brillante. L’alchimia tra cantante e musicisti, quel valore aggiunto che ha sempre segnato i momenti migliori del NET sembra, per alcuni periodi, essere di nuovo lì. I concerti del tour autunnale del ’99 e soprattutto del 2000 resteranno probabilmente tra le cose migliori del NET, grazie soprattutto a performance vocali decisamente felici da parte di Dylan e a una band in grado di seguirlo mostrando, oltre ad una grande professionalità, anche il giusto livello di pathos e sensibilità.
Detto questo, è altresì innegabile che i concerti del NET degli ultimi 7 anni siano stati caratterizzati da una certa standardizzazione, un livellamento delle performance, seppure verso l’alto. Difficile ascoltare brutti concerti tanto quanto imbattersi in performance indimenticabili.
In questo contesto, anche i cambiamenti all’interno della band vengono metabolizzati agevolmente e non producono effetti tali da rompere gli equilibri esistenti. Così, se è pur vero che lo stile, ad esempio, di Stu Kimball (l’ultimo ingresso alla chitarra) è diametralmente opposto a quello di Freddie Koella che l’ha preceduto, a conti fatti l’impatto, sul suono nel suo complesso, che entrambi hanno esercitato non ha lasciato un segno indelebile. Analogamente, che Dylan da due anni a questa parte abbia deciso di accantonare l’amata chitarra per cimentarsi al piano elettrico, non ha di certo sconvolto quegli equilibri, tanto più se il volume di quel piano esce decisamente basso dal mixer ed arriva alquanto indistinto.
In un grafico ideale, le performance degli ultimi anni potrebbero efficacemente essere rappresentate da una linea retta, a volte in leggera ascesa, a volte in discesa, ma pur sempre retta. E di sicuro l’usura degli anni si fa sentire soprattutto nella voce di Dylan, sempre più affaticata e messa a dura prova dai ritmi indiavolati cui è costretta.
Ma al di là degli inevitabili segni del tempo, ciò che sorprende è l’incrollabile dedizione che Dylan dimostra di avere per quello che fa sul palco, la passione, a volte il furore, che ancora trasmette nei suoi concerti. Molti altri, al suo posto, dopo così tanti anni avrebbero mollato o magari lasciato che le cose andassero per conto loro, inserendo il pilota automatico. Dylan no. Perché se è pur vero che in alcuni tour recenti ha dato l’impressione di voler essere da qualunque altra parte, eccetto che su un palco (il tour europeo del 2002, ad esempio), si è trattato, a ben vedere, di periodi circoscritti, smentiti di lì a poco da nuove, rivitalizzate performance, nonostante la voce usurata ce le restituisca meno brillanti che in passato, perchè meno cariche di quelle meravigliose sfumature cui ci ha sempre abituato.
Quello che non dovremmo mai dimenticare è che nessun altro artista ha, nella storia della musica, affrontato un progetto (che tale fu, per altro, solo all’inizio) così mastodontico e ambizioso come questo, nessuno ha mai portato il proprio live act a questi livelli o, se vogliamo, eccessi. Col NET Dylan ha letteralmente esplorato territori cui nessun altro si è mai vagamente avvicinato. E il pubblico senza dubbio lo ha seguito.
Vengono dunque inevitabilmente a mancare dei parametri di valutazione, perché semplicemente non ne esistono e alla fine diventa poco rilevante dare giudizi su un tour piuttosto che un altro, scovare differenze fra un concerto e l’altro, analizzare le canzoni che ha suonato o rimpiangere quelle che avrebbe potuto suonare.
Non ci resta che stare ai fatti e lasciare che siano solo questi a parlare.
“Venite a vederci, suoniamo sempre da qualche parte”. In fondo è solo questione di prendere o lasciare, col vantaggio che potremo sempre cambiare idea, perché tanto sappiamo che Dylan non ci negherà un’altra chance.