10 ottobre 2007. Una mattina come le altre. Ti svegli, prendi un caffé, accendi il computer, controlli la casella e-mail e ci trovi dentro il nuovo album dei Radiohead, fatto e finito, pronto per il tuo iPod. Dieci giorni prima, sulla homepage del loro sito ufficiale era apparsa la scritta “In Rainbows – Enter”; cliccando sopra, appariva uno scarno comunicato: “I Radiohead hanno fatto un disco. Si chiama In Rainbows. Per ora, è disponibile soltanto su questo sito, in due formati: download e discbox”. Di seguito, tutte le istruzioni per l’acquisto, effettuabile direttamente attraverso l’entourage della band (W.A.S.T.E.): oltre agli mp3, chi vuole può comprare In Rainbows in un formato esclusivo, il discbox appunto, che comprende 2 cd (uno con l’album regolare, uno con altri 8 brani inediti), una versione in doppio vinile, e relativi booklet con testi e artwork, per la cifra di 40 sterline (57 euro), spese incluse. Nel momento in cui scriviamo, fonti non ufficiali riferiscono di circa 1.200.000 utenti che hanno acquistato il download digitale del disco direttamente da radiohead.com, al prezzo che hanno ritenuto più opportuno. Sì, perché è questo l’aspetto più sconvolgente dell’intera faccenda: non solo sono state abbattute tutte le infrastrutture fra l’artista e il fruitore della sua opera, è stata anche data all’ascoltatore la facoltà di attribuire un valore a ciò che andrà ad ascoltare. Anche 0, se preferisce. Una rivoluzione, come già in molti hanno constatato.
Altri artisti, a partire da David Bowie nel lontano 1996 fino agli Einstürzende Neubauten (oggi autori di una mossa autarchica simile a quella dei Radiohead), hanno già sfruttato le potenzialità del web per pubblicizzare la loro musica e trovare un diretto contatto con il pubblico. Mai niente di questo, però: il materiale reso disponibile aveva un prezzo fisso, e comunque precedeva un’uscita più o meno tradizionale (che anche nel caso dei Radiohead è oggetto di negoziati, al momento di chiudere il giornale, ndr). Oltre a una geniale operazione di marketing (non c’è stato bisogno di alcuna promozione: è bastato il diffondersi rapidissimo della notizia), i cinque di Oxford hanno esercitato una sottile azione psicologica, che ha messo l’utenza globale di fronte a un dilemma, se vogliamo, etico. “Che valore ha questa musica?”, “È giusto che sia gratis?”. La risposta è “it’s up to you”, a te la scelta (questa la scritta che compare durante la fase di acquisto del download). Inoltre, non è stata trascurata nessuna fascia di consumatori: i maniaci dell’mp3, i collezionisti, e perfino i tradizionali acquirenti di cd: chi vorrà comprare l’ultimo parto dei Radiohead nei negozi potrà farlo a inizio 2008, quando si prevede partirà una distribuzione “canonica” (indipendente o major, non è dato saperlo). Per quella data, in ogni caso, tutto il mondo avrà già ascoltato e ampiamente metabolizzato – e pagato direttamente alla fonte – In Rainbows. Nondimeno, con il download “controllato” la band ha saltato a piè pari il problema del leak, la “fuoriuscita” pre termine sui programmi p2p che, come qualcuno certamente ricorderà, aveva afflitto il precedente Hail To The Thief. In altre parole, scacco matto all’industria discografica, e successo garantito.
È questo dunque lo scenario che si prospetta per gli anni a venire, il futuro della musica? Una cosa è chiara: i Radiohead oggi sono l’unica band in attività che anziché seguire le regole, ne detta di nuove; poco importa come vengono visti, se astuti impresari o pionieri idealisti. Dopo l’annuncio-bomba, il mondo della musica si è letteralmente fermato, il dibattito è stato monopolizzato, a tutti i livelli, da questa spiazzante mossa. È un dato di fatto: Thom Yorke e i suoi sono il gruppo più importante al mondo. Non il più famoso, tantomeno il più ricco; ma a differenza di altri illustri colleghi che possono fregiarsi di questi titoli, hanno capito che di questi tempi il vero potere si esercita piegando i nuovi mezzi di comunicazione a proprio vantaggio. La loro è una posizione privilegiata, certo: chi altri, se non la band più rispettata e coraggiosa che la storia recente ricordi, avrebbe potuto permettersi un azzardo simile? Senza contare le ovvie implicazioni derivanti dalla fama, nonché dalla stabilità acquisita tanto a livello artistico quanto economico: senza il successo planetario di Ok Computer e le riuscitissime sommosse musicali di Kid A e Amnesiac non avrebbero avuto né le possibilità concrete, né la credibilità per fare questo passo.
Un passo che, con il senno di poi, appare del tutto naturale. Già nel 2000, per l’uscita di Kid A, i Radiohead non pubblicarono nessun singolo, né si imbarcarono in una campagna promozionale standard, affidandosi piuttosto al passaparola sul web e alla diffusione capillare di “blips”, file video di pochi secondi contenenti frammenti dei nuovi brani accompagnati da animazioni ispirate all’artwork. L’album arrivò al primo posto negli States nella settimana a ridosso dell’uscita, soltanto grazie alle prenotazioni. Negli anni recenti poi, dopo la conclusione del tour mondiale di Hail To The Thief e l’estinguersi del contratto che li aveva legati alla Parlophone sin dagli esordi, da diverse dichiarazioni alla stampa trapelava un desiderio sempre maggiore di liberarsi dalle maglie dell’industria, paventando l’uscita di ep, magari in formato digitale. Oggi, il risultato è sotto gli occhi (e nelle orecchie) di tutti.
Nel mezzo, quattro lunghi anni fatti esclusivamente di indiscrezioni, supposizioni, voci ricorrenti, indizi, conferme, smentite, e qualche sorpresa. A partire dall’agosto 2005, l’unica finestra da cui i Radiohead si sono affacciati sul mondo esterno è stata il Dead Air Space, un blog ufficiale aggiornato – tutt’altro che costantemente – dagli stessi membri del gruppo; similmente, nel 1999-2000 il chitarrista Ed O’Brien aveva raccontato le session di Kid A/Amnesiac nel suo diario online. Ma se allora un minimo di chiarezza e linearità nella comunicazione erano state garantite, stavolta ogni cosa viene avvolta da un mistero ancora più fitto, con l’effetto – ricercato? – di creare un enorme hype. Ecco allora informazioni rade (e spesso criptiche), foto, frammenti di testi: nell’universo dei Radiohead conta più ciò che non viene detto esplicitamente. Cercando di ricostruire una sorta di cronologia anche in base alle rare interviste concesse, le session per quello che poi è diventato In Rainbows sono presumibilmente cominciate nella primavera del 2005, al termine di un anno sabbatico in cui i cinque si sono prevalentemente dedicati alle loro nuove famiglie (tutti sono diventati padri di recente), salvo presentarsi in studio in giorni diversi per fermare su nastro frammenti e idee sparse. Il 27 marzo Thom Yorke e Jonny Greenwood si esibiscono accompagnati dalla London Sinfonietta al festival di Ether: è il debutto di Arpeggi, la prima delle nuove canzoni ad essere presentata al pubblico; il 16 aprile successivo, durante un concerto acustico per la campagna Trade Justice, il leader ne suonerà altre quattro: Last Flowers, Nude (conosciuta anche come Big Ideas), Reckoner e House Of Cards. Solo quest’ultima risulta in effetti di recente composizione: la lavorazione del disco è infatti caratterizzata da un rincorrersi e mescolarsi di idee vecchie e nuove, dal ripescaggio di bozze datate (con Last Flowers si arriva indietro fino ad Ok Computer) all’ultima infatuazione di Jonny Greenwood, il dub, la cui influenza si riverserà nelle registrazioni finali. Il chitarrista – che curerà anche una raccolta per la storica etichetta reggae Trojan, Jonny Greenwood Is The Controller – mette inoltre a frutto l’esperienza maturata come compositore orchestrale per la Bbc, scrivendo arrangiamenti d’archi per buona parte dei nuovi brani. Sbirciando sul Dead Air Space, si apprende che le session vanno avanti fra svariati tentativi ed esperimenti all’insegna di una grande creatività, inframmezzate da pause di meditazione e inevitabili – ma piccole – crisi. Per alcune sedute si prova anche ad utilizzare il produttore Mark “Spike” Stent (già al lavoro con Björk e Depeche Mode), per poi tornare al solito e fidatissimo Nigel Godrich.
Finalmente, nel marzo 2006, qualcosa sembra muoversi per davvero: la band annuncia un tour che toccherà Stati Uniti ed Europa (niente Italia, purtroppo), con l’intenzione di rodare il nuovo materiale sul palco (proprio come avevano fatto nel 1996 e nel 2002); nello stesso momento, arrivano le prime indiscrezioni riguardo eventuali modalità di distribuzione del disco (su NME.com si parla già di download). I concerti – nemmeno a dirlo, tutti pienoni, fra cui una memorabile apparizione al Bonnaroo di cui si è anche prospettato un dvd – mostrano una band rilassata e in forma, capace di spaziare lungo tutto il repertorio (The Bends e Creep incluse) restando sempre concentrata sulla ricerca sonora. Vengono presentati circa dieci nuovi brani, che andranno a formare la polpa di In Rainbows (e del relativo cd extra); le registrazioni pirata invadono subito YouTube e diventano oggetto delle speculazioni di migliaia di fan ed esperti. Intanto, a luglio, arriva la parentesi liberatoria di The Eraser, l’album solista di Yorke, che – anche se per poco – distoglie lo sguardo del pubblico dai progetti imminenti della band; Thom in ogni caso preciserà da subito che il suo progetto principale rimangono i Radiohead, e nei concerti non suonerà nessuna delle canzoni del suo disco (ad eccezione di un set acustico con Greenwood per la campagna The Big Ask). A dicembre, viene messa in onda sul web la sua partecipazione a From The Basement, lo show Internet only di Nigel Godrich in cui presenta le nuove Videotape e Down Is The New Up; quest’ultima, già presentata nel tour, viene additata come uno dei probabili brani di punta del prossimo disco (sorprendentemente, verrà invece relegata al discbox). La fase finale delle registrazioni, pause comprese, copre infine il periodo dal settembre 2006 al giugno di quest’anno, quando a sorpresa Nigel Godrich “posta” sul Dead Air Space un frammento di scarti del mix, contenente diversi scampoli di registrazioni; nondimeno, a luglio si scopre del tutto casualmente – Ed O’ Brien e Colin Greenwood “beccati” a un party degli Spoon – che il disco è in fase di masterizzazione a New York. La febbre per i Radiohead tocca nuovamente punte altissime, per essere poi raffreddata da voci che prevedono un’uscita nel 2008, a causa della difficoltà nel trovare un contratto discografico soddisfacente. Il Dead Air Space tace per settimane, fino alla burla finale: a fine settembre vengono messe online alcune parti di artwork nello stile degli emoticon, che si scoprirà nascondere messaggi in codice come “sì, siamo ancora vivi”. Poi, il 1° ottobre, la rivoluzione.
Ascolto alla mano, In Rainbows segna un nuovo traguardo artistico per i Radiohead; non un capolavoro del calibro di Ok Computer e Kid A, ma un album maturo, solido, coeso, forte, che evidenzia la recente crescita di Yorke & Co come individui e musicisti e li colloca in un contesto sempre più “classico”, senza rinunciare alla ricerca sonora (vedi la nostra recensione a pag. 81). In questi giorni successivi all’uscita se ne sta parlando moltissimo, e non solo per i suoi meriti musicali. Se Charlatans, Oasis e Jamiroquai hanno già annunciato di voler seguire le orme degli oxfordiani, sono subito sorte polemiche intorno alla qualità degli mp3, da alcuni considerata troppo bassa (160 kps, dove il massimo è 320); di contro, Jonny Greenwood cerca di ridimensionare l’impatto “rivoluzionario” della mossa, affermando che si è trattato solo di un esperimento fatto per se stessi. Sia come sia, tutto ciò dimostra soltanto una cosa: i Radiohead sono ormai veri e propri maître à penser dei nostri tempi, probabilmente gli unici in grado di indicare quali siano le nuove strade da percorrere; con le dovute proporzioni e distinguo, proprio come i Beatles negli anni 60. Parafrasando il titolo del celebre libro di Ian McDonald sull’impatto socio-culturale dei Fab Four, 2007: Revolution in the (Radio)Head.