02/10/2007

IO NON SONO QUI

Sei Dylan in cerca d’autore

Accetto il caos. Non sono sicuro che il caos accetti me”. Sono parole di Bob Dylan. Anzi, di uno dei Bob Dylan del film Io non sono qui di Todd Haynes, presentato al Festival di Venezia. I Bob Dylan del film di Haynes sono sei. Sei personaggi in cerca d’autore che non rappresentano solamente delle fasi della vita di Dylan, ma sono le anime plurime dell’artista che convivono l’una con l’altra. Infatti non si danno il cambio come in un’ideale staffetta, ma si alternano rubandosi la scena, inseguendosi e scontrandosi come schegge impazzite. Il caos, appunto. Quel caos che significa cambiamento, evoluzione, creatività, genio. Il bisogno di non rimanere uguali a se stessi. Per questo Bob Dylan nel film è interpretato da sei attori diversi.
C’è il Dylan adolescente (Marcus Carl Franklin), un ragazzino di colore (simbolo del blues, la musica delle origini) che si chiama Woody, come il suo idolo di gioventù, e gira l’America nei carri bestiame. C’è il Dylan poeta e contestatore, che si chiama Arthur Rimbaud (Ben Wishaw) e che sputa sentenze da imputato in un processo. C’è il Dylan più amato e più noto, il folksinger delle canzoni di protesta del Greenwich Village dei primi anni 60 (si chiama Jack Rollins ed è impersonato da Christian Bale), quello di The Times They Are A-Changin’ e del sodalizio con Joan Baez. Lo ritroveremo negli anni 70 come pastore in una comunità cristiana. C’è Robbie (Heath Ledger), il Dylan attore e il Dylan privato, che ci fa vivere il suo matrimonio di pari passo con le notizie sulla guerra in Vietnam. C’è Jude Quinn (una Cate Blanchett mimetica e indimenticabile), il Dylan traditore (non per niente si chiama Giuda), quello della svolta elettrica e rockstar planetaria. E infine Billy The Kid, il cowboy del suo famoso disco, che è soprattutto il Dylan adulto, che ha lasciato lo show business, e si è ritirato a vita privata (Richard Gere).
“I’m Not There, che dà il titolo al film, è una canzone misteriosa che Dylan ha scritto nel 1967: è il periodo dei Basement Tapes” ci ha raccontato Haynes a Venezia. “È la prima volta in cui Dylan si è ritirato dal mondo: prima viveva a New York, sotto i riflettori, e ogni suo singolo passo era monitorato. Nel 1966, dopo l’incidente in moto, si è ritirato a Woodstock, è stato con la sua famiglia e ha registrato questi nastri misteriosi nella sua cantina. Questa sua necessità di sparire e di reinventarsi, di ritrarsi dal mondo moderno, è quella che vediamo nella parte di Richard Gere”.
“In questa canzone ripete: non ci sono per te, non ti posso aiutare, non ti posso tirar fuori” continua. “È una canzone che rappresenta perfettamente il senso di questo film: qualcuno che scompare, che sfugge la presa: ogni volta che si crede di raggiungerlo diventa qualcun altro. Non è mai lì”. In questo senso è emblematica la sequenza in cui Dylan/Billy, dal suo esilio nel verde, pensa per un attimo al mondo e vede irrompere la guerra e la distruzione (sulle note di All Along The Watchtower).
Io non sono qui vuole essere soprattutto questo, un manifesto sulla libertà di essere chi si vuole, anche più persone in una, sul diritto a non essere rinchiusi in definizioni e schemi. In questo senso, il momento topico del film è la sequenza visionaria in cui Dylan/Jude mette alla berlina il Signor Jones, simbolo dell’ossessione mediatica per la sua figura. “Il Signor Jones raccoglie in un unico personaggio la lotta di Dylan con la stampa” ci ha spiegato Todd Haynes. “Nel film questo aspetto diventa umoristico e surreale: l’artista è bombardato e cercato da una stampa affamata che vuole che rimanga sempre lo stesso. Sono fatti che sono accaduti negli anni 60, e gli stili cinematografici sono quelli di quegli anni: ho scelto il surrealismo di Fellini per raccontare questo Dylan alienato in un mondo consumistico e ho utilizzato Ballad Of A Thin Man diretta a questo Mr. Jones. Chi fosse è sempre stato un mistero, noi abbiamo cercato in qualche modo di rivelarlo”. E in questo senso si inserisce anche il Dylan poeta e contestatore, che non a caso si chiama Rimbaud. “Arthur Rimbaud è un poeta che ha fatto tendenza negli anni 60. Ha rappresentato l’ultimo dei ribelli, era una rockstar, colui che respingeva la società borghese e aveva deciso di scioccare l’establishment. Dylan è stato il primo cantante pop a recuperare Rimbaud: ha utilizzato la sua ribellione per ispirare il suo cambiamento. Fa parte delle influenze che hanno cambiato Bob Dylan”.

Ecco allora che il film di Haynes si inquadra alla perfezione nel momento storico che stiamo vivendo. “Il periodo in cui ho sviluppato e scritto Io non sono qui ha coinciso con gli anni della massima espressione dell’amministrazione Bush e della guerra in Iraq” ha dichiarato il regista. “Credo che molta della mia rabbia e della mia incredulità siano confluite nella descrizione dell’universo apparentemente distante degli anni 60, segnati anch’essi da una guerra insensata e omicida, ma caratterizzati perlomeno da un’opposizione impegnata e rumorosa, invisibile negli anni del trionfo di Bush e Cheney. Nel momento in cui scrivevo mi sembrava di affrontare un momento dimenticato e perduto nella storia americana”. Il film non è infatti solo la vita di Dylan, ma la vita americana del tempo: vediamo il Vietnam e le Pantere Nere, Kennedy e Nixon, fino a Martin Luther King.
Tempi andati fatti rivivere alla perfezione. Todd Haynes è sempre stato un grande artefice di mondi: in Velvet Goldmine aveva ricostruito il periodo glam rock. Ma la sua è sempre una rilettura, in grado di andare molto più in profondità della lucida superficie della sua messinscena. Ogni storia qui è un film diverso: Jude vive in un film estetico e glam, in un elegante bianco e nero che rievoca la Swinging London. È il Dylan divo, anzi “diva” e giustamente è interpretato da una donna. “Il ruolo di Jude è sempre stato concepito per un’attrice” ha detto il regista a questo proposito. “Ritengo che fosse l’unico modo per restituire la particolarità fisica di Dylan negli anni intorno al 1966, quelle caratteristiche androgine che all’epoca risultavano sconvolgenti, ma di cui il tempo ha annacquato il ricordo”. Il Dylan folk è invece il protagonista di una sorta di documentario, con tanto di finte interviste, ricostruzioni di copertine di dischi e giornali d’epoca, e una patina antica a sporcare l’immagine. Il Dylan Billy The Kid vive quasi in un western, con echi felliniani, e quello privato in una soap opera; il bambino in quello che sembra un film tratto da Steinbeck.
Io non sono qui è un film schizofrenico, frammentato, spiazzante. Un’opera stratificata, a molteplici chiavi di lettura. È forse l’unico modo possibile per rappresentare Dylan. “Questo è il primo film, documentari a parte, che Dylan abbia mai autorizzato” ci ha spiegato Haynes. “E secondo me è proprio a causa di questa struttura aperta. Che lo raffigura come qualcuno in continuo divenire, senza nessuna riduzione, senza che si cerchi di concentrarlo in un unico carattere. Sarebbe impossibile per qualcuno così complesso e così contraddittorio come Bob Dylan, qualcuno che negli anni ha lottato con se stesso, e continua in questo dibattito pubblico su chi è e cosa vuole fare. Oggi Dylan apre i concerti con un annuncio: la Columbia Recordings presenta l’uomo che negli anni 60 ha attratto il pubblico, per poi passare alla chitarra elettrica, e poi ha scoperto Gesù Cristo. Questo fa vedere la sua ironia, e come sia stato incasellato, messo in uno stampo. Ha visto qualcosa di simile nel nostro approccio alla storia”. Ma forse è l’unico modo per raccontare anche ognuno di noi. “È come quando guardiamo la nostra vita: la vediamo sempre in frammenti, senza un ordine” ci ha detto il regista. “La vediamo attraverso un motore sensuale-istintivo. È così anche con la musica, che ci fa andare indietro nel passato, ci fa vivere certi momenti. Come un sogno”.

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