“Che lavoro fai?”
“Il musicista.”
“Sì, ho capito, ma… seriamente… per vivere cosa fai?”
Quante volte ho fatto (ma in altri tempi anche subìto) questa domanda del cazzo. Perché in Italia per molti, forse per troppi, fare il musicista non è considerato un lavoro: semmai una piacevole occupazione part time. Senza sapere che, a qualsiasi livello, dietro ad uno spettacolo e alle conseguenti gratificazioni (quando ci sono), si nascondono grandi sacrifici: giorni di viaggio, mesi di prove, anni di sbattimenti, decenni di attività sottopagata pur di realizzare quello che per molti è ancora un sogno da vivere con grandi speranze.
Certo, a volte ti imbatti in soggetti curiosi e quindi la domanda del cazzo sorge spontanea. Anche perché, specie in America, specie in California, specie a Los Angeles, il rapporto è esattamente il contrario che da noi. Lì essere (o sperare di essere) un artista è considerato qualcosa di socialmente appagante e quindi il trucco è ben mascherato. Dei tanti veri o presunti attori, registi, musicisti hollywoodiani però qualcuno ha il coraggio di rispondere con un diplomatico ma sincero: “I’m an artist… but in the meanwhile I’m waiting tables” (sono un artista… ma nel frattempo faccio il cameriere).
La prima volta che ho incontrato Fabio Treves (non me lo ricordo esattamente ma di certo è stato un casino di anni fa) lui era già un mito e non credo di avergli fatto la fatidica domanda del cazzo.
Fatto sta che in seguito, conoscendolo, ho scoperto che anche Fabio non faceva solo il musicista, pur essendo uno dei più bravi musicisti che ho conosciuto nella mia vita. Treves è un personaggio versatile: fotografo, insegnante, consigliere comunale, conduttore radiofonico e televisivo, esperto di gastronomia, cicloamatore, appassionato di rugby, tifoso del Milan.
Ma soprattutto, da sempre, un bluesman.
Che è una sottocategoria del musicista: persino meno considerata, più derisa e a volte più vessata del semplice musician. Eppure, assai maggiormente colma di passione, disponibilità, rispetto e di vera tensione artistica. E Treves, in questo senso, è il più bluesman di tutti i bluesmen che ho conosciuto: compresi Buddy Guy, B.B. King, Taj Mahal, John Lee Hooker e tutti gli altri grandi maestri della “musica che non morirà mai” che ho avuto la fortuna di incontrare in questi anni.
Certo, qualcuno di voi obietterà (i soliti puristi, scommetto…): “Fabio non è nero e non è nato sul Delta del Mississippi”. Mi va bene il colore della pelle ma, secondo voi, si sta meglio a New Orleans o a Milano? A Memphis o a Bologna? A Chicago o a Torino?
E, sempre secondo voi, cosa puzza di più: il Delta del Mississippi o quello del Lambro? Il blues è sofferenza, il blues è intensità, il blues è vita: per questo Fabio Treves è un grande bluesman. Me ne sono reso conto conoscendolo da vicino, seguendo i suoi concerti, osservandolo in studio di registrazione, ammirandolo sul palco al fianco di grandi talenti della musica americana.
Lui c’è, è una presenza (come diceva il suo amico Dan Peterson dei migliori giocatori di basket NBA), ma soprattutto suona l’armonica davvero bene. E la suona nel modo giusto, con stile, con gusto a volte con vero e proprio virtuosismo.
E la sua è un’armonica blues. A livello sopraffino.
Ecco, vedere che uno come Treves dopo quasi trent’anni di carriera non riesca a rispondere a quella “domanda del cazzo” provoca in me una duplice sensazione: da una parte di rabbia perché un musicista di talento come lui dovrebbe quantomeno avere un ‘vero’ contratto discografico e una serie di vantaggi da musicista ‘vero’.
Dall’altra parte, però, di ammirazione perché costanza, determinazione e indipendenza (ma anche una giusta dose di “che vadano tutti affanculo”) fanno parte del Dna del bluesman.
E per questo sono contento che esca proprio in questi giorni un suo nuovo album, autogestito, autoprodotto e ‘autosponsorizzato’ (dal Jeep Club Italia) che vi consiglio di acquistare se volete ascoltare della musica sana o se volete fare bella figura regalandolo ad un amico. Insieme a lui, suonano i musicisti di quella che da qualche anno è la Treves Blues Band: gli efficacissimi Tino Cappelletti (al basso) e Massimo Serra (alla batteria) più il talentuoso giovane chitarrista/cantante Alessandro Gariazzo.
In Jeepster, ci sono 14 brani di puro blues ‘alla Treves’: cover di classici del passato (Crossroads di R. Johnson, I Want To Be Loved di W. Dixon, Sky Is Cryin’ di E. James, Confusion di S. Terry e B. Mc Gee) e brani originali firmati da Fabio. Un repertorio vario, divertente e di grande coinvolgimento proprio come quello proposto in concerto dalla TBB. A riprova che anche in Italia (ed è quasi superfluo citare i nomi di Tolo Marton, Rudy Rotta, Guido Toffoletti, Roberto Ciotti e di tutti gli altri validi bluesmen che da anni come Fabio sono validi propagatori della ‘musica del diavolo’) si può fare del buon blues.
Alla faccia di chi ci vuole male.
P.S.: Il modo migliore di comprare Jeepster è di acquistarlo ad un concerto della Treves Blues Band. In alternativa cercatelo nei negozi specializzati oppure mandate un fax alla Red & Black Records allo 02/26110874. Ne vale la pena. E, mi raccomando, se incontrate Treves evitate di fargli quella domanda del cazzo…