Più volte abbiamo lamentato la scarsa considerazione culturale di cui gode il rock, almeno qui in Italia. Ma negli ultimi tempi si avvertono segni in controtendenza: forse qualcosa si sta muovendo, anche se con anni di ritardo rispetto agli Stati Uniti e ai più evoluti Paesi europei.
Tra gli altri, abbiamo colto piccoli segnali provenire dal mondo accademico che, specie nel nostro Paese, determina ancora oggi l’ufficializzazione di uno status. Ne abbiamo voluto parlare con Luca Cerchiari che, in qualità di Presidente della Associazione Culturale Echomusic/Istituto Superiore di Musicologia di Milano, promuove corsi di formazione alle professioni dell’industria musicale e che dal 1997 è titolare dell’insegnamento di Civiltà musicale afro-americana presso il DAMS dell’Università di Torino. Di una disciplina cioè, che, insieme all’etnomusicologia e all’antropologia della musica risulta essere la più vicina alla popular music.
Come infatti sottolinea Cerchiari “la musica afro-americana (che non è solo il jazz ma l’insieme di tutte quelle culture che dal 1500 hanno mescolato la tradizione africana con quella europea, dal Centro sino al Sud America) è la sintesi tra il codice colto della scrittura europea, il codice orale della tradizione africana e di quella popolare europea. Avendo ricevuto a metà Novecento un forte impulso dall’innovazione tecnologica, dalla rivoluzione ideologica e dalla trasformazione della società, essa si è posta come elemento determinante per la nascita e lo sviluppo della popular music”.
La ritrosia della cultura accademica verso il pop-rock, secondo Cerchiari, è motivata da diversi fattori. Innanzitutto da una sorta di preconcetto ideologico.
“Il potere forte della musicologia universitaria è da sempre attestato sulla musica colta europea. Questo orientamento, unito ad una mentalità poco internazionale, fa sì che la musica pop-rock venga considerata sottoculturale e intesa come fenomeno principalmente legato al mercato e alla cultura di massa. Si tratta di una posizione dogmatica e contestabile anche perché le valutazioni sulla musica vanno sempre fatte a posteriori e non in modo aprioristico.
“Questa prevenzione non permette di affrontare in modo più scientifico il fenomeno del pop-rock che viene automaticamente ascritto ad una categoria di grandi numeri di mercato prescindendo da un’analisi concreta dei suoi valori musicali e socio-culturali. Non è mai esistito, infatti, in tutta la storia della musica un fenomeno musicale giovanile se non dal 1950 grazie al rock’n’roll. Sarebbe sufficiente questa considerazione per dare al rock un rilievo storico. Idem dicasi sul piano lirico o su quello del linguaggio musicale: non è che i libretti d’opera siano necessariamente più poetici dei testi di Bob Dylan, di Tom Waits, di Jacques Brel o di Fabrizio De Andrè, né che sul piano armonico la musica colta sia sempre più raffinata o varia di Frank Zappa o degli U2”.
La data di nascita del rock, troppo recente secondo gli standard del mondo Universitario, è un altro problema.
“La mentalità accademica” sottolinea ancora Cerchiari “è per lo più rivolta al passato e spesso disattenta all’inserimento professionale degli studenti, se si eccettua l’insegnamento. Tanto che oggi lo stesso titolo di laurea al DAMS è poco spendibile sia nell’ambito degli enti locali sia soprattutto in quello dell’industria culturale (radio-televisione, editoria, discografia, ecc.).”
Tuttavia, esistono degli aspetti che inducono all’ottimismo e vengono proprio dall’esperienza del DAMS di Torino, in parte derivata da quella storica di Bologna dove negli anni settanta grazie al musicologo Luigi Rognoni (fondatore dell’indirizzo musica) sono state attivate Etnomusicologia, Civiltà musicale afro-americana nonché materie come Filosofia della musica, Semiologia della musica e metodologia della musica oltre alle fondamentali discipline storiche e sistematiche rivolte alla tradizione europea.
Dice Cerchiari: “Il DAMS di Torino è l’unico tra quelli esistenti in Italia (oltre a Bologna, ci sono sedi DAMS anche a Roma e Cosenza) che ha attivato un quinto e nuovo indirizzo: quello multimediale. Per far ciò l’Università si è dotata di laboratori e apparecchiature atte non solo all’ascolto e alla visione ma anche alla produzione di audiovisivi. Potendo contare sulle nuove tecnologie (CD, CD-Rom, DVD, ecc.) fortemente legate alla musica, si profila la possibilità che in un prossimo futuro il rock, o più in generale la popular music, possano diventare oggetto di sempre maggiore attenzione anche in ragione del target universitario (giovani dai 18 ai 30 anni)”.
Inoltre, come fa notare Cerchiari, “il rock è di fatto già entrato nelle Università pur se con un’altra titolazione. Sono state discusse diverse tesi di laurea (con Franco Fabbri a Bologna), c’è stata una attività seminariale e di ricerca ed è stata varata due anni fa nel corso di laurea di Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università di Lecce una nuova disciplina (Storia delle musiche alternative) insegnata da Gianfranco Salvatore. Si tratta del primo esempio organico di attivazione di un corso: purtroppo accade in una città decentrata”.
Al di là della tardiva valorizzazione del pop-rock come fenomeno culturale e non solo di mercato, l’ingresso della popular music nelle Università italiane, che secondo Cerchiari avverrà tra una decina d’anni “potrebbe avere dei riflessi positivi sull’industria musicale, sulla ricerca e sull’editoria se si collegasse all’esigenza di formare quadri più preparati sia professionalmente che musicologicamente”.
Speriamo solo che non sia troppo tardi.