Noi italiani, si sa, siamo dei colonizzati culturali. Spesso (e mi ci metto per primo) ben contenti di esserlo. Però mi dovete spiegare una cosa: perché qui da noi hanno avuto successo tutti i generi musicali più assurdi, dalla morna di Capo Verde al rai algerino, dal son cubano alla musica balcanica, voci bulgare incluse? Come mai artisti (bravissimi, per carità e, badate bene, spesso incensati sulle pagine di questo giornale) per così dire un po’ ostici come il guru del qawaali Nusrat Fateh Ali Khan (requiescat in pacem), il minimalista Philip Glass, Vollenweider, il soffice Veloso e più recentemente l’inquieto Manu Chao sono diventati dei piccoli fenomeni modaioli?
Ma soprattutto, e a questa domanda non sono mai riuscito a dare una risposta, perché mai invece la country music (in tutte le sue forme, dall’old timey al new country sino al recente alternative) non ha mai avuto una briciola di riscontro nel nostro paese?
E sì che ci hanno provato in tanti. A partire dalla fine dei 70 – inizio 80 con una potente campagna promozionale della Rca a supporto di una collana discografica. Niente. Un buco nell’acqua, nonostante la coincidenza di tempi con il successo mondiale di Urban Cowboy di John Travolta e la ‘genialata’ del toro meccanico per far divertire i giornalisti alla conferenza stampa.
“Per forza”, ho sentito dire per anni, “in Italia c’è il liscio e poi… a parte i butteri della Toscana mica esistono i cowboy…” Già, come se in Inghilterra, Francia, Germania o in tutto il nord Europa (dove la country music ha un suo decoroso mercato) la gente andasse a lavorare a cavallo tra cactus giganti e canyon di terra rossa.
C’era poi chi sosteneva che “no, è musica troppo americana”, come se Springsteen fosse ugandese e i Nirvana svizzeri. O come se per ascoltare i Massive Attack devi essere di Bristol, per farti piacere Bregovic vivere a Sarajevo, per delirare per Youssou N’Dour esserti fatto almeno tre volte la Parigi-Dakar. Glielo andate a dire voi ai 100.000 stronzi che in Italia hanno comprato il CD del Buena Vista Social Club che per ascoltarlo come minimo devono avere il visto cubano sul passaporto?
“Il country è sempre uguale e prevedibile”, qualcun altro aggiungeva forte del sentirsi critico musicale per un minuto. Già, perché invece il rap è vario, il grunge sorprendente e, giusto per prenderne uno a caso, Pino Daniele (che è dieci anni che incide, con titoli diversi, la stessa canzone) un eclettico. Ma per piacere…
Se qualcuno non lo sapesse, dalla fine degli anni 80, il country si è profondamente rinnovato. Oggi ha una varietà stilistica che nessun altro genere musicale consolidato può vantare, un parco di artisti che abbraccia almeno tre generazioni, un mercato solidissimo (in America il solo fatturato della country music, che oscilla mediamente tra l’8 e il 10% del totale, è nettamente superiore all’intero fatturato dell’industria discografica in Italia).
Non ci credete? Fate subito una prova, specie voi lettori che, a giudicare dalle lettere, tanto gradite la navigazione in rete. Andate a digitare www.country.com/music: resterete sbalorditi. In questo sito c’è di tutto: news, anteprime, discografie suggerite, bio degli artisti, suddivisioni per generi all’interno dell’arcipelago country, negozi virtuali e tutto ciò che vi può venire in mente per avventurarvi in un mondo nuovo o per approfondire l’oggetto del vostro desiderio. Compresi, ovviamente, i link con i migliori musicisti, gruppi e cantanti.
La nuova country music possiede infatti alcune star di caratura artistica internazionale, con potenzialità di successo in tutto il mondo. Pensateci bene: pure la nostra penisola non è sfuggita a questo deep impact anche se si è fatto finta di non accorgersene perché alla sola vista di un cappello Stetson o di uno stivale Justin il discografico italiano vomita. Secondo voi, Shania Twain che musica fa? La bella canadesona è infatti la più acclamata country star al femminile solo che qui in Italia si fa di tutto pur di non classificarla come tale. Intanto ha piazzato lì un bel 100.000 copie vendute, che qui da noi non sono certo noccioline. Non c’è dubbio che l’avvenente cowgirl di Windsor, Ontario, c’ha il fisico dalla sua. Così come è sicuro che il remix di That Don’t Impress Me Much più il relativo videoclip di lei ‘panterata’ non sono passati inosservati. Ma ci piace credere che anche la piacevolezza dell’intero album Come On Over abbia fatto il resto.
Intanto da un’altra casa discografica concorrente mi è giunta la copia promo (sono anni che non ricevo un promo country da una major italiana…) del nuovo album di Martina McBride. Che non è un’esordiente (e nemmeno una tennista, come qualche pirla qui in redazione malignava…). Anzi, pensate che addirittura fa già parte della Country Music Hall Of Fame nonostante abbia ‘solo’ 34 anni. Nel 1993 con l’album The Way That I Am questa biondina del Kansas che vendeva magliette ai concerti di Garth Brooks si rivelò al mondo presentando Independence Day, un country-rock gradevolissimo con un testo che denunciava gli abusi casalinghi quotidianamente subiti da migliaia di donne nel Sud degli States. Quel brano diventò ben presto un inno femminile e Martina la paladina di tutte le cowgirl. In questi giorni la McBride presenta Emotion, il suo ultimo, eccellente lavoro. Insieme a lei, come vuole la miglior tradizione country, sono moltissime le voci femminili che si stanno facendo notare a Nashville. Tra queste ricordo anche le mie favorite, le texane Dixie Chicks, autentiche rivelazioni della passata stagione.
E proprio in un momento in cui Re Garth dà l’annuncio del suo imminente ritiro (ma non temete, Brooksmaniacs: lo ha già fatto parecchie volte e non è mai successo…) il trono femminile di Shania rischia di vacillare, scosso da decine di pretendenti.
Chissà quanto impiegheremo ad accorgercene anche qui in Italia…